La distinta base dell’atto notarile – a cura Dott. Michele D’Agnolo

Una distinta base (in gergo tecnico DIBA, in Inglese BOM – Bill of Materials) è notoriamente un documento che elenca l’insieme di tutti i componenti, sottocomponenti e materie prime necessarie per produrre un bene economico. Nel mondo alimentare, chimico e farmaceutico corrisponde grossomodo alla ricetta.

Le distinte base sono soprattutto importanti per gli approvvigionamenti delle attività industriali, perché senza di esse non sarebbe possibile conoscere analiticamente cosa ed in quali quantità è richiesto per costruire un prodotto e, quindi, cosa e in quali quantità occorre acquistare per produrlo.

Una distinta base definisce quindi un prodotto così com’è progettato, come è costruito o come è manutenuto, rappresentando diverse viste della struttura del prodotto.

Nel momento in cui alla distinta base si associano i costi relativi alle materie prime e i semilavorati utilizzati e vi si riconducono anche i costi diretti del personale impiegato per la produzione del singolo pezzo, allora detto documento assume rilevanza anche in materia di controllo gestionale. Infatti è possibile calcolare un margine di contribuzione di prodotto rappresentato dalla differenza tra il costo diretto di produzione e il prezzo di vendita, che permette di verificare, tra l’altro, il corretto prezzo applicato al prodotto.

Dopo una opportuna quantificazione della distinta base è possibile inoltre rilevare statisticamente dei costi e tempi standard da utilizzare per la futura pianificazione della produzione e l’assegnazione dei carichi di lavoro, nonché per le analisi degli scostamenti tra quanto pianificato e quanto realizzato.

Mutatis mutandis, la struttura logica ed informativa rappresentata dalla distinta base che abbiamo appena descritto può essere di grande utilità anche nello Studio Notarile, dove si può procedere elencando e quantificando il tempo del personale diretto mediamente necessario all’erogazione di una determinata prestazione.

Nel caso di un atto notarile di compravendita, dovremo considerare le varie persone coinvolte e le attività che queste devono svolgere. Stimeremo innanzitutto i minuti necessari alla segreteria per le attività di accoglienza del cliente in sede di primo colloquio, di successivo recapito di documenti, di stipula, di ritiro di eventuali copie dell’atto, di ulteriori contatti telefonici o via mail.

Ma dovremo quantificare anche i minuti mediamente necessari all’assistente notarile responsabile della pratica per il colloquio iniziale, per la predisposizione e l’invio del preventivo, per la raccolta dei documenti, per le visure, per la collazione della bozza, per la sottoposizione della stessa al controllo preventivo del Notaio. Dovremo poi calcolare il tempo dedicato dal Notaio e dall’assistente per la fase di stipula. Idem dicasi per le attività eseguite dopo la stipula: recepiremo i minuti mediamente necessari alla messa a repertorio e a raccolta, per la predisposizione della matrice e delle copie, l’esecuzione della comunicazione unica notarile, le altre formalità eventualmente necessarie. Volendo, si potrà perfino prevedere il tempo necessario all’emissione della fattura, alla contabilizzazione e al recupero dei crediti.

La distinta di servizio sarà caratterizzata dal nome del servizio da erogare e dal materiale da utilizzare con i relativi coefficienti d’impiego (minuti medi di impegno del personale per ciascuna attività elementare). I costi del personale rivelano una certa variabilità che sarà ancora più pronunciata per le prestazioni professionali e in particolare per quelle particolarmente difficili come la stipula di un atto notarile, che potrà andare incontro a diversi casi di onerosità sopravvenuta, ad esempio a causa di disallineamenti catastali o di variazione degli accordi tra le parti in corso d’opera.

Pertanto necessariamente nelle prestazioni di servizi e ancor più in quelli professionali, la stima del tempo standard necessario avrà valore indicativo e ben potranno esservi imprevisti o situazioni di difficoltà.

La distinta base dello studio notarile si rivela molto utile per pianificare i corretti carichi di lavoro sulla base dei preventivi accettati e dell’andamento storico delle stipule permettendo tra l’altro di stabilire opportune turnistiche aggiuntive del personale già al momento della previsione di un eventuale picco di lavoro anziché a ridosso della scadenza.

Permette di conoscere il prezzo minimo necessario allo studio per andare in break-even, cioè per coprire i costi della singola prestazione.

Può consentire inoltre un confronto con i prezzi applicati e con i risultati di performance di altri studi notarili, in modo da agevolare l’apprendimento organizzativo.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

ORGANIGRAMMA E MANSIONARIO NELLO STUDIO NOTARILE – a cura Dott.ssa Anna Lisa Copetto

Lo studio notarile è un piccolo ecosistema nel quale un gruppo di individui e di professionalità quotidianamente interagisce e condivide spazi, strumenti, obiettivi. Col passare del tempo e in modo quasi inconsapevole si costruiscono dei ruoli, dei legami, dei principi di comportamento che trovano un proprio equilibrio – più o meno stabile – e che consentono allo studio di avere successo. Quando all’aumentare della complessità e delle dimensioni dell’organico non corrisponde una strategia consapevole e mirata, lo studio corre il rischio che si possano venire a creare delle zone d’ombra in cui nessuno in realtà è in grado di dire con certezza chi fa che cosa o chi risponde a chi. Questa mancanza di chiarezza sui ruoli, sulle responsabilità e sulle mansioni può generare delle situazioni di conflitto e incidere negativamente sui risultati dello studio nei confronti della propria clientela.

L’organigramma e il mansionario servono esattamente a questo: a sgomberare il campo da qualunque equivoco rispetto al ruolo che ciascuno può e deve avere all’interno dello studio.

Cos’è un organigramma e a cosa serve. L’organigramma rappresenta graficamente l’articolazione delle responsabilità, le relazioni gerarchiche esistenti (o auspicate) tra i singoli individui che compongono lo staff di un’organizzazione. La sua funzione è di rappresentare in maniera semplice e diretta chi prende le decisioni, chi le esegue, chi controlla, con chi si deve collaborare. Un organigramma ben concepito è quindi in grado di rispondere a poche, semplici domande: quali sono le figure rilevanti nello studio? chi ha la responsabilità di chi e di cosa? chi risponde a chi e di che cosa? È utile non solo per chiarire le dinamiche gerarchiche ma anche per sottolineare la centralità di ogni singolo individuo per il successo dello studio nel suo complesso.

Esempio di Organigramma di uno Studio notarile

 

L’organigramma non deve essere un semplice esercizio di stile, è un momento di vera e propria autoanalisi nel quale si richiede al Notaio di disegnare l’attuale configurazione dell’assetto organizzativo dello studio e, sulla base delle considerazioni che se ne può trarre, di rappresentare  l’assetto organizzativo che si desidera per il futuro. L’organigramma, in questo senso, è una fotografia di ciò che siamo oggi ma anche una base di partenza per la riprogettazione del nostro modello organizzativo. L’organigramma ha pertanto un senso quando ancorato ad un progetto di definizione di una strategia organizzativa strutturata e consapevole.

È importante che l’organigramma non solo venga rispettato ma anche costantemente aggiornato in modo da registrare tempestivamente i cambiamenti che avvengono all’interno dello studio per effetto degli ingressi e delle uscite, ma anche dei cambi di mansione, degli avanzamenti di carriera o dei cambiamenti intervenuti eventualmente nel “core business” dello studio.

Che cos’è il mansionario e a cosa serve. Il mansionario è un documento che discende direttamente dall’organigramma e che descrive in maniera chiara e oggettiva le caratteristiche che ciascuna posizione organizzativa deve possedere. È in sostanza una descrizione analitica della posizione lavorativa in termini di mansioni e responsabilità, di requisiti minimi richiesti (titoli di studio, competenze professionali, competenze trasversali, esperienze pregresse) e di aspetti organizzativi (collocazione gerarchica, inquadramento contrattuale, retribuzione, benefit, opportunità di carriera). Le funzioni a cui assolve sono molteplici: fa chiarezza sul raggio di azione attribuito a ciascuno, guida e rende più efficiente  il processo di selezione di nuovo personale, orienta la programmazione delle attività di formazione necessarie per colmare eventuali gap rilevati, consente una più agevole valutazione del personale e delle sue performance.

Conclusioni

L’organigramma e il mansionario sono strumenti che si sostengono a vicenda aiutando lo studio notarile a individuare e formalizzare gli aspetti più rappresentativi della propria struttura organizzativa.

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network

UNA RIFLESSIONE SULLA CONDIZIONE SOSPENSIVA NEL PRELIMINARE – a cura Notaio Monica Rita Scaravelli

È valida la clausola (condizione sospensiva) contenuta nel contratto preliminare con la quale si subordina la sua efficacia, e quindi l’obbligo della stipula del contratto definitivo di compravendita, all’erogazione da parte di un istituto bancario di un mutuo in favore della parte promissaria acquirente per pagare il prezzo pattuito nel contratto di vendita.

In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 22046/2018, superando il dubbio in merito alla qualificazione giuridica della clausola come condizione meramente potestativa, da cui discenderebbe l’invalidità della clausola stessa e, conseguentemente, ex art. 1355 c.c., la nullità del contratto preliminare al quale è apposta, privandolo definitivamente di efficacia.

La Corte ha escluso la natura di condizione meramente potestativa, qualificando invece la clausola come condizione “mista”, in parte potestativa e in parte casuale, in virtù del fatto che la concessione del mutuo dipende anche, ma non esclusivamente, dal comportamento del promissario acquirente. Deve quindi ritenersi valido il preliminare condizionato sospensivamente alla concessione del finanziamento.

Può sostenersi che colui da cui dipende l’avveramento della condizione mista abbia l’obbligo giuridico di attivarsi per la realizzazione di tale condizione? Contrariamente a quanto affermato in passato, la Cassazione sostiene l’esistenza di un obbligo giuridico anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo della condizione mista, richiamando l’art. 1358 c.c. – che impone a colui che ha acquistato sotto condizione sospensiva di comportarsi secondo buona fede, in pendenza di condizione, per conservare integre le ragioni dell’altra parte – e sottolineando come il dovere di comportarsi secondo buona fede ha ragion d’essere proprio per far si che la discrezionalità contrattualmente attribuita alla parte venga esercitata nel rispetto del paradigma della correttezza.

È in ogni caso consigliabile che le parti, per rafforzare la tutela giuridica in favore del promittente venditore, prevedano espressamente che l’attività dedotta in condizione, finalizzata al perfezionamento del mutuo, sia oggetto di una specifica obbligazione, al fine di vincolare il promissario acquirente a porre in essere tutti quei comportamenti funzionali alla conclusione del mutuo.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, SEZ. II, N. 22046 – 2018

Monica Rita Scaravelli,  Notaio in Milano.

Art 177 del T.U.I.R. Grimaldello per passaggio generazionale!? – a cura Notaio Roberto Santarpia

Mi accingo a scrivere queste righe relative a un tema particolarmente complicato inerente al passaggio generazionale di beni e in particolar modo di partecipazioni societarie utilizzando uno strumento quale quello del regime della neutralità indotta ex art. 177 2° comma del TUIR. Ancor più complicato è scrivere di tal tema cercando di non essere prolisso e ridondante facendo così perdere “la pazienza” o peggio il “fil rouge” al lettore.

Ciò in quanto mille potrebbero essere gli incisi necessari affinchè un pubblico non aduso alla materia possa comprendere  l’informazione sottesa all’elaborato, ma l’ essere esaustivo comporterebbe il rischio di esaurire la pazienza del lettore e quindi,  considerando che il fruitore di quanto in oggetto è un pubblico “adulto” e informato di diritto, cercherò di emulare il sintetismo che adoperavano e adoperano  grandi maestri, sicuramente lungi dal poter solo far sorgere il dubbio di loro somigliare, autori che riuscivano ad essere sintetici al fine di propugnare il pensiero cardine dell’ elaborato senza soffermarsi su principi e teorie del diritto già note e quindi solo a richiamarsi.

Entrando in medias res, quindi, qualora un pater familias intendesse trasferire la proprietà di quote di partecipazioni societarie ai propri figli perché costoro possano proseguire l’attività di gestione collettiva dell’azienda paterna, si troverebbe nella possibilità di raggiungere tale scopo attraverso il trasferimento a titolo oneroso o a titolo gratuito delle dette partecipazioni. Spesso il trasferimento a titolo gratuito viene espunto dalle possibili vie per raggiungere lo scopo, per le note complicazioni che possono derivare, una volta apertasi la successione del donante/disponente, dalla possibile impugnazione da parte di eredi legittimari lesi o pretermessi e quindi per i possibili problemi di circolazione delle partecipazioni stesse dai donatari ai terzi, vivente il donante. Quindi l’altra via che rimane è il trasferimento a titolo oneroso delle dette partecipazioni che, a prescindere dal tipo di causa tecnico giuridica che connoterebbe il negozio di trasferimento, comporta il rischio di dover sopportare un rilevante esborso di denaro da parte del disponente qualora il valore fiscale delle dette partecipazioni fosse inferiore al valore “normale” delle stesse, realizzandosi una plusvalenza tassabile, anche se il cedente non operasse in regime di impresa (vedi art. 9 comma 2, secondo periodo del TUIR).

Alternativamente a ciò si potrebbe procedere con permuta di partecipazioni e applicando quindi la normativa dell’art. 177 comma 2 del TUIR che prevede che le azioni o quote ricevute a seguito di conferimenti in società, sempre che la società conferitaria acquisisca il controllo della società delle cui partecipazioni si tratta (cd. scambiata), controllo quale definito dal disposto dell’art. 2359 1° comma num. 1 del cod. civ. ovvero incrementi la percentuale di controllo, “sono valutate, ai fini della determinazione del reddito del conferente, in base alla corrispondente quota delle voci di patrimonio netto formato dalla società conferitaria per effetto del conferimento.” Questo articolo 177 TUIR (come precisato dalla A.E. con circolare 17/6/2010 num. 33/E) definisce un criterio di valutazione delle partecipazioni ricevute a seguito del conferimento che rimane realizzativo ai fini della determinazione del reddito del conferente ma a realizzo controllato. Quindi in questo caso, a differenza di quanto accade se si ricorresse al criterio di realizzo a valore normale (art. 9 del TUIR), può non emergere alcuna plusvalenza nel caso in cui il valore di iscrizione del valore delle partecipazioni conferite e il conseguente incremento del patrimonio netto della società conferitaria risulti equivalente all’ultimo valore fiscale delle partecipazioni conferite (neutralità indotta).

Come detto la soc. conferitaria deve acquisire il controllo della società conferita e ciò può avvenire in seguito ad  un acquisto effettuato da un unico venditore o anche da più venditori che con un unico atto ed all’interno di un progetto unitario, (così sempreAg. Entrate)  trasferiscono una quota di partecipazione atta a conferire il controllo sulla società scambiata, quindi si al trasferimento di usufrutto e nuda proprietà contestualmente, si al trasferimento di proprietà e nuda proprietà (ma quota questa comunque dotata di diritto di voto), no a trasferimento di usufrutto da solo anche se con diritto di voto perché il soggetto conferente che ricevesse usufrutto su partecipazioni della (e dalla) conferitaria, non sarebbe (in quanto usufruttuario) socio e la norma pretende la qualità di socio del conferente nella conferitaria (vedi risposta ad interpello num. 147 della A.E.).           

Quindi il valore fiscale della partecipazione ricevuta dalla conferitaria è pari al valore del patrimonio netto formato dalla medesima società conferitaria, valore che potrebbe anche essere inferiore al valore effettivo delle quote di partecipazione trasferite,  per cui in caso di cessione a titolo oneroso successiva delle  partecipazioni “scambiate” (trasferite dalla conferitaria) si avrebbe plusvalenza tassabile solo nel caso di un corrispettivo maggiore rispetto al valore fiscale delle stesse che è equivalente a quello iscritto in bilancio della conferitaria, mentre nel  caso di pari valore non sorgerebbe plusvalenza  e si raggiungerebbe  il risultato che con il trasferimento delle stesse all’acquirente, costui controlla la società conferitaria che a sua volta controlla la conferente mentre in caso di trasferimento “diretto” di dette partecipazioni ad un terzo (senza operare la permuta delle partecipazioni ex art. 177 2° comma TUIR) si dovrebbe comunque pagare plusvalenza a prescindere dal corrispettivo pattuito in ossequio a quanto previsto dall’art. 9 comma 2, del TUIR.   

Unico dubbio che rimane è se si possa iscrivere in bilancio della conferitaria un valore inferiore a quello normale: la risposta è positiva in quanto la Agenzia delle Entrate nella circolare del 17/6/2010 num. 33/E,  ha chiarito che la minusvalenza (rispetto al valore fiscalmente riconosciuto delle partecipazione conferite relative alla società scambiata) non può generare alcun vantaggio fiscale nel senso che non può dare luogo a componenti negative del reddito -di impresa- imponibile ed anzi ritenendo in tal caso applicabile la regola generale prevista dall’art. 9 del TUIR, e sia esplicitamente dicendo che “con l’operazione in parola…. non si realizza alcun salto di imposta ….. anche nel caso in cui la società conferitaria incrementi il proprio patrimonio netto per un valore pari al costo fiscalmente riconosciuto delle partecipazioni presso i soggetti conferenti.”.

L’A.E. in una risposta ad interpello del 22 marzo 2021 n. 199, ha precisato che il conferimento di una partecipazione di controllo da parte di una persona fisica in regime di realizzo controllato (ex art. 177 2° comma del TUIR) deve essere escluso dall’ambito di applicazione della norma antielusiva specifica prevista dall’art. 175, 2° comma, del TUIR.  L’unico limite all’applicabilità della norma in oggetto è costituito da quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 177 che tende ad evitare che, attraverso tale meccanismo, si consenta di scambiare azioni o quote prive dei requisiti per beneficiare della PEX (disposta dall’art. 87 del TUIR) con partecipazioni (trasmesse dalla conferitaria) che decorso il periodo temporale minimo di possesso possano invece beneficiare della detta PEX.

Altra alternativa per il controllo della società scambiata risiede nel trasferimento delle partecipazioni acquisite dalla società conferitaria a terzi. Questa cessione, beneficiando della participation exemption  (ex art. 87 del Tuir secondo quanto ivi previsto) non integra gli estremi di una condotta in abuso del diritto ai sensi dell’art. 10 – bis della legge n. 212/2020.

Roberto Santarpia,  Notaio in Orzinuovi.

La spartizione dei pani e dei pesci nello Studio Notarile – a cura Dott. Michele D’Agnolo

Una delle situazioni più complesse da gestire all’interno di uno Studio Notarile è la suddivisione delle pratiche da svolgere tra i vari dipendenti e collaboratori.

Si tratta di una materia difficile da governare o regolamentare perché soggetta a variazioni difficili da prevedere.

Ci possono infatti essere picchi nella domanda sia dovuti alla stagionalità che dovuti alla imprevedibilità delle richieste della clientela, oltre che a ondate di lavoro dovute alla emanazione di specifici provvedimenti di legge. Inoltre le pratiche sono caratterizzate daonerosità sopravvenuta e quindi anche in corso d’opera una pratica facile può arenarsi ed una difficile risolversi prima e meglio del previsto.

Alle volte sono istituiti criteri automatici, ma se non sono monitorati possono portare a una distribuzione non proporzionata.

Ad esempio, un criterio di suddivisione per segnalatori può portare a squilibri in quanto ad esempio una singola agenzia immobiliare, banca o commercialista potrebbe proporre una pluralità di atti contemporaneamente oppure rimanere quiescente per molto tempo.

Puntare sulla buona volontà dei singoli nel ripartirsi il lavoro significa penalizzare le persone più timide e disponibili a vantaggio di quelle più abili nel mascherare i propri carichi.

Teniamo presenti i differenti criteri con cui il dipendente giudica il notaio e viceversa. Per il dipendente il criteri è solo quello dell’ equità, mentre per il datore di lavoro le variabili sono efficacia, efficienza, tempestività, riduzione dei rischi, cortesia nei confronti del cliente, ecc…

Tra l’altro, non tutti i collaboratori sono ugualmente generosi nel mettere a disposizione il proprio tempo. Rarissimo ad esempio il collaboratore che venga a chiedere altro lavoro dichiarando di averne troppo poco. E certamente non è un bel segnale se se ne accorge lui e non noi. 

Comportamenti mimetici, spesso accompagnati da lamento.

Eccessiva generosità chi vuole veramente far contento,  e accentramento da parte di workaholics e altri bulimici dell’atto notarile spesso profondamente insicuri, con conseguenti rischi di ritardi, errori e di burnout.

Il compito di assegnare i carichi di lavoro è molto difficile da delegare. E’ un compito che difficilmente si accetta venga gestito dai propri pari, a meno di non avere in studio delle persone particolarmente autorevoli professionalmente e per carattere che vengano riconosciute come dei leader naturali. 

Non è facile “fare i mucchietti” in modo equo. I carichi dovrebbero infatti essere proporzionati alle skills, alla seniority e all’orario di lavoro prestato dai singoli collaboratori. Inoltre le pratiche assegnate dovrebbero essere anche volte a sfidare la persona con compiti nuovi per consentirle un percorso di crescita carrierale.

La cosa migliore è che vi provveda direttamente il Notaio più senior. Alle volte già i notai junior possono trovarsi in difficoltà soprattutto nei confronti di collaboratori di lungo corso.

Quando si affida l’incarico a qualcun altro è indispensabile che il notaio condivida e chiarisca i criteri di assegnazione e riassegnazione e che il notaio controlli periodicamente che la gestione dei carichi di lavoro sia svolta correttamente dalla persona cui è stata delegata. L’assegnazione gestita in gruppo sembra la più problematica perché può riflettere più la diversa personalità dei partecipanti al tavolo delle trattative che la loro effettiva capacità di assorbire il lavoro.

Uno dei motivi per cui la “spartizione dei pani e dei pesci” risulta particolarmente ardua è dovuta al fatto che è difficile tenere traccia del carico di lavoro perché è dinamico. È come i problemi di fisica della vasca da bagno. Non c’è solo il rubinetto da controllare ma anche il tubo di scarico e talvolta i collaboratori per far vedere come sono impegnati mettono volutamente il tappo.

Fortunatamente esistono oggi strumenti di assegnazione, gestione e monitoraggio dei task per lo studio notarile anche più sofisticati del classico foglio excel e di agevole introduzione in studio.

Una parte del problema è dovuta al fatto che nei paesi latini sono le pratiche che vengono assegnate alle persone mentre nel mondo anglosassone sono le persone che vengono assegnate alle pratiche.

La distinzione non è solo semantica, ma costituisce un vero e proprio ribaltamento di prospettive.

Nei grandi studi legali e commerciali internazionali, se vuoi far carriera e prendere i premi devi metterti in evidenza e riuscire a farti assegnare ai team dei lavori migliori e a lavorare con i partner più in vista.

Da noi invece quando il Notaio entra in studio con un nuovo lavoro da fare tutti si scansano come se fosse una puzzola morta. Si parla in questo caso di marketing interno non inteso come abilità di promuovere l’immagine dello studio agli occhi dei collaboratori ma proprio come capacità di “vendere” il lavoro ai collaboratori, di convincerli a svolgerlo.

L’opera di persuasione a volte si rende necessaria in quanto la persona non sempre riesce a valutare compiutamente il suo carico di lavoro e quindi può non essere ben disposta mentalmente ad accettare un nuovo compito.

Un efficace sistema di assegnazione delle pratiche può consentire allo studio notarile di raggiungere obiettivi di equità, efficienza e di soddisfazione dei clienti, riducendo simultaneamente anche il tempo medio necessario ad arrivare a stipula.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

Si vis pacem para bellum – a cura Dott. Michele D’Agnolo

Il rapporto tra il Notaio e i propri dipendenti è spesso molto diverso da quello che lega l’imprenditore alle maestranze nelle aziende. Generalmente negli studi i dipendenti hanno finora goduto di grande indipendenza, da un certo punto di vista forse anche troppa, perché il Notaio essendo impegnato ha una limitata possibilità di monitorare continuativamente la quantità e la qualità del lavoro svolto, di cui ha contezza di solito ex post quando le minute sono predisposte o gli adempimenti gli vengono proposti per la firma.

A una straordinaria autonomia nella scelta dei metodi di lavoro e nella gestione del proprio tempo spesso si accompagna una molta maggiore dipendenza dal punto di vista professionale: ogni scelta di un qualche rilievo è rimessa al Notaio, talvolta non per necessità ma semplicemente a scanso di responsabilità.

Al Notaio piace pensare che i suoi dipendenti e collaboratori facciano tutti parte di una grande famiglia. Sicuramente soprattutto nelle realtà di minori dimensioni il rapporto è connotato da una certa affabilità e familiarità reciproca. Occorre peraltro considerare che al di là della cordialità e della affabilità, nel rapporto di lavoro – come in tutte le relazioni di tipo contrattuale – ognuno persegue il proprio interesse.

Purtroppo non tutti sono casti e puri, quindi dell’ampia libertà nella gestione del proprio tempo qualcuno potrebbe approfittarsi. E se il monitoraggio è ridotto, come dice il vecchio adagio, l’occasione fa la persona ladra.

Inoltre, la deriva anarchica è sempre in agguato e non sempre le persone hanno il senso della misura. Con la tecnica del carciofo, un po’ alla volta il dipendente si allarga e così ad esempio acquisti in autonomia di materiale di cancelleria sono diventati in qualche caso – nello stupore del Notaio – acquisti in autonomia di beni ammortizzabili. Magari pertinenti alla gestione ma probabilmente da autorizzare. Mentre la gestione autonoma della cancelleria solleva il professionista da incombenze probabilmente poco utili, la fuga in avanti su macchine e mobilio tendenzialmente non lo fa felice. Ma gli esempi tratti dalla frequentazione ventennale di studi professionali potrebbero essere molteplici. Prestazioni effettuate ma non passate in fatturazione per favorire il cliente amico. Prestazioni che nel database dello studio cambiano stranamente autore in funzione dell’ottenimento di un premio di produzione. Fascicoli che traslano nottetempo da una scrivania all’altra.

I dipendenti non vanno colpevolizzati in quanto spesso manca il management. Pochi obiettivi misurabili, poco o nessun feedback costruttivo. Comportamenti virtuosi non sempre identificati e premiati e comportamenti viziosi altrettanto non sempre tempestivamente stigmatizzati e corretti.

In ogni caso, in azienda quando i comportamenti del dipendente non sono adeguati scatta immediatamente una sanzione disciplinare. E dopo un certo numero di sanzioni disciplinari, scatta il licenziamento.

È rarissimo invece riscontrare provvedimenti disciplinari all’interno degli Studi Notarili non solo per la riluttanza del Notaio ad irrogarli ma anche per la assenza di un codice disciplinare che lo consenta. Purtroppo però, date le spinte competitive, il buonismo all’interno degli studi professionali ha le ore contate.

Oggi che serve avere collaboratori più disciplinati per ridurre i rischi e fare efficienza, è spesso difficile per i titolari di studio far capire che “è finita la ricreazione”.

Ecco allora che dotare lo studio del codice disciplinare ed affiggerlo a norma di Statuto dei Lavoratori può costituire un importante deterrente a comportamenti border-line altrimenti difficili da correggere. In assenza di codice disciplinare si possono infatti sanzionare solo comportamenti macroscopici come il furto di beni dello studio o una aggressione fisica ad un altro dipendente. In altre parole soltanto quei comportamenti che per la Corte di Cassazione corrispondono alla violazione di regole universali. Con la conseguenza che rimangono impuniti e impunibili invece proprio quegli episodi forse meno eclatanti ma non meno importanti che si vorrebbe andare a correggere.

Il codice disciplinare è un documento composto da un estratto del CCNL applicato, di solito quello degli Studi Professionali stipulato per i Notai dalla confederazione datoriale Confprofessioni cui appartiene Federnotai, e da un estratto del codice civile e dello Statuto dei Lavoratori. L’art. 138 del CCNL stabilisce la graduazione delle sanzioni in funzione dei comportamenti del dipendente. Il codice disciplinare va affisso in luogo visibile da tutti i lavoratori a nulla valendo a fini legali eventuali altre forme di conoscenza. Il procedimento prevede che a fronte di una violazione disciplinare, il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo poi sentito a sua difesa.

Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.

Fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni. In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.

Il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell’associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal Direttore dell’ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio.

Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall’invito rivoltogli dall’ufficio del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al camma precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto.

Se il datore di lavoro adisce l’ autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio.

Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione.

La prima introduzione nello studio dello strumento del Codice disciplinare andrà utilmente preceduta da una riunione esplicativa, precisando che la correttezza che si persegue va a vantaggio non del Notaio ma di tutto il team.

Le sanzioni disciplinari vanno soprattutto utilizzate come deterrente, vanno minacciate più che comminate. Conviene ricorrervi con grande parsimonia in quanto va valutato l’effetto spesso dirompente e definitivo che possono avere sulla motivazione del dipendente che ne viene colpito. Tuttavia, in alcuni momenti della vita dello studio può rendersi indispensabile creare un precedente in modo da comunicare a tutto lo staff una cesura rispetto al passato. 

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

Problemi in materia di deroghe alle distanze legali- a cura Notaio Alessandra Magnocavallo

Queste che seguono sono alcune brevi riflessioni sull’orientamento attuale della giurisprudenza su questo tema.

Partendo dalle origini, merita ricordare che la materia delle distanze tra fabbricati – e l’osservanza di una determinata distanza tra gli stessi – è stata regolata per la prima volta dal nostro legislatore con il codice civile vigente (come si sa, all’art. 873 C.C.).

Tuttavia, il legislatore ritenne di prevedere che una fonte normativa diversa e speciale – cioè i regolamenti edilizi – potesse aumentare la misura legale dell’arretramento tra edifici.

Infatti, l’art. 873 C.C. (rubricato DISTANZE NELLE COSTRUZIONI) recita che “Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.”

La Corte Costituzionale, in una decisione ormai risalente (16.6.2005), aveva precisato che la disciplina in tale tema “attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi” e rientra nella competenza legislativa statale esclusiva. Aveva poi aggiunto, però, che quando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri, per ragioni naturali e storiche, specifiche caratteristiche, allora la disciplina che li riguarda fuoriesce dai limiti propri dei rapporti privati e tocca anche interessi pubblici. Ciò legittimerebbe sia la competenza regionale concorrente, sia la competenza dei regolamenti locali, la legittimità dei quali si giustifica dunque soltanto nella misura in cui essa si collochi in maniera coerente nel quadro di interventi urbanistici pianificatori funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone dell’abitato.

Durante i lavori preparatori del codice civile si discusse parecchio circa la derogabilità delle distanze minime tra le costruzioni, tanto che nel progetto originario ne era prevista la totale inderogabilità per convenzione tra privati. Tuttavia, tale divieto fu giudicato eccessivo, dal momento che il regime delle distanze legali è dettato essenzialmente nell’interesse del privato e quindi risulta privo di quel carattere di ordine pubblico che ne giustifichi l’inderogabilità.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, negli anni ha permesso di regolare le distanze per il tramite della costituzione di servitù, che altro non è se non una regolamentazione privata di rapporti di vicinato (il fondo dominante è quello che trae l’utilità dalla deroga ed il fondo servente è quello che subisce la costruzione a distanza inferiore).

La regolamentazione pattizia mediante la costituzione di servitù, dall’altro lato, non sarebbe ammessa qualora un regolamento edilizio imponesse un distacco maggiore nelle costruzioni rispetto al codice civile e ciò in ragione delle finalità d’interesse collettivo del regolamento stesso che ne imporrebbe l’inderogabilità.

Quanto detto non osta, poi, ad ammettere l’acquisto del diritto a titolo originario (usucapione), dal momento che il possesso continuato per venti anni da parte del titolare del fondo dominante risulterebbe prevalente ma comunque coerente col rispetto di interessi collettivi, quale la stabilità delle relazioni tra fondi vicini.

Quanto testé detto circa l’ammissibilità dell’usucapione della servitù consistente nel mantenere una costruzione a distanza inferiore a quella stabilita dal codice civile, o dalle fonti che lo integrano, si applica parimenti all’istituto della destinazione del padre di famiglia come fonte di quel diritto reale.

Nonostante vi siano state pronunce di legittimità di diverso avviso, deve ritenersi ora valida la transazione con la quale si dia origine alla servitù di mantenere costruzioni a distanza inferiore a quella stabilita dai regolamenti edilizi. Lo stesso dicasi per gli accordi di mediazione aventi un simile oggetto.

Alla luce di quanto detto, si ritiene che l’impostazione della giurisprudenza non sia condivisibile, in quanto in più pronunce vuole riconoscere il rango di norma primaria alla normativa regolamentare.

In conclusione, gli atti con i quali le parti costituiscono una servitù prediale, consistente nel mantenere la costruzione a distanza inferiore da quella legale, sono da ritenersi validi in quanto leciti, sia quando derogano la distanza di tre metri stabilita dal codice civile, sia quando derogano la maggior distanza stabilita dai regolamenti o dalle N.T.A. del piano regolatore o da altra fonte integratrice.

Sono validi tutte le volte in cui la norma regolamentare integri il codice civile; altrimenti, invalidi.

Il punto nodale dell’intera questione rimane comunque sull’art. 872 C.C. . La violazione della disciplina sulle distanze comporta infatti le conseguenze di carattere amministrativo che nessun contratto può impedire. La protezione degli interessi pubblici non può che competere esclusivamente al diritto pubblico.

Alessandra Magnocavallo, Notaio in Brescia.

e-Cujus – a cura Notaio Ugo Bechini

La natura giuridica di alcuni beni digitali è oggetto di animato dibattito. Ho ripetutamente espresso la mia opinione, da ultimo in un articolo dedicato alla memoria di Mario Miccoli pubblicato su Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, fascicolo 2/2022 pagina 503. In sintesi è la seguente.

  1. I beni digitali sono innanzitutto beni, e quindi sono vendibili, permutabili, donabili, legabili, conferibili in società, trasmissibili in via ereditaria e quant’altro. Le eccezioni sono da dimostrarsi caso per caso sulla base dei medesimi parametri che possono fondare un giudizio di intrasferibilità di beni tradizionali. Vent’anni fa si poteva forse ancora argomentare che il materiale digitale possedesse una natura intrinsecamente personale: in effetti anche la posta elettronica, all’epoca, aveva un che di goliardico. Materiale d’ogni livello di rilevanza giuridica viaggia oggi via mail, per tacere della PEC.
  2. La password non è un bene, come non lo è il codice che consente l’apertura della porta di un appartamento: se si vuole, si legherà l’immobile od i suoi arredi, non il codice. La situazione non mi pare troppo diversa da quella del legato di cosa da prendersi in un certo luogo (655cc). In un luogo digitale, come uno spazio cloud, possono trovarsi beni dallo status dominicale eterogeneo. Per riprendere un esempio che ho già proposto: un medico potrà conservare nel medesimo spazio digitale dati dei pazienti, i conti di casa, le foto del viaggio di nozze, la lista dei soci di un’associazione di cui è presidente e la corrispondenza con l’amante. Mi pare non si possa configurare, in alcun senso giuridicamente significativo, un unitario legato della relativa password d’accesso. Si potrà certamente conferire mandato post mortem ad un amico fidato (molto fidato) perché usi la password per accedere allo spazio e venire a capo della situazione, inoltrando a ciascun avente diritto i dati che gli competono (e distruggendone, si immagina, alcuni). Ma, è evidente, siamo ben lontani dal concetto di legato.

In sede di pianificazione successoria il da farsi mi pare lineare. Da un lato si identificheranno i destinatari dei beni digitali, tenuti concettualmente ben distinti dall’involucro che li ospita; dall’altro si individueranno gli strumenti pratici più adeguati per far pervenire i beni a destinazione in modo fluido e soprattutto sicuro. Sotto questo secondo profilo iI mandato post mortem è a mio avviso il coltellino svizzero della situazione, anche se non mancano le difficoltà pratiche, legate soprattutto alla buona regola di sicurezza informatica secondo la quale le password dovrebbero variare nel tempo. E’ importante che il mandato sia scritto, onde proteggere il mandatario da contestazioni dei (contro) interessati. Resta esclusa l’idea di inserire le password nel testamento, ove (difficoltà d’aggiornamento a parte) sarebbero alla mercé del più lesto a domandare la pubblicazione.

Si trovano online servizi che offrono soluzioni in questo campo. Se si preferisce come mandatario post mortem una società californiana rispetto ad un amico di Rovigo, non ho nulla da obiettare, ma meglio non farsi ingannare dallo hype: la natura della funzione non cambia. L’accertamento online della morte dell’interessato rischia di essere operazione alquanto farraginosa, piuttosto, e rallentare l’esecuzione di quanto disposto dal De Cujus, il che talvolta può rappresentare un serio problema.

Una ventata di (apparente) novità è stata introdotta dal sempre maggior numero di Clienti che detengono criptovalute od NFT: “gettoni” digitali che incorporano diritti vari, per lo più la proprietà di beni immateriali, soprattutto opere d’arte (anche una canzone di Morgan, ho appreso, impregiudicata ogni valutazione sulla sua sussumibilità nella categoria “opere d’arte”). Non spetta certo al notaio discettare della rischiosità di tali investimenti, ma almeno due altri profili sono (ancorché in modo diverso) di sua competenza. E’ forse sufficiente porre un paio di domande, e non è sempre indispensabile ascoltare le risposte: una volta che i problemi sono stati posti il Cliente potrà in più di un caso far da sé.

  1. Se l’exchange od il wallet ove sono depositate le criptovalute va in malora (l’exchange fallisce, il wallet viene smarrito o va in crash …) qual è il piano per impedire che l’investimento vada perduto? E’ un problema tecnico e non sta a noi elaborare soluzioni, ma attirare l’attenzione del Cliente sì.
  2. Se Ti capita qualcosa, caro Cliente, a chi va il Tuo investimento e come? Ve benissimo che una persona riceva gli strumenti per accedere, si tratti del mandatario post mortem o direttamente del beneficiario. Ma il passaggio difficile, nella mia modesta esperienza, è spiegare che anche in questo secondo caso occorre, contrariamente a quel che pensa la maggioranza dei Clienti, che il beneficiario ne abbia civilisticamente titolo. Se il Cliente desidera che i Bitcoins pervengano legalmente alla signorina Samantha, password o non password, wallet o non wallet, exchange o non exchange, sarà proprio il caso che faccia testamento, e rispettando il dettato del caro vecchio Codice Civile.

Ugo Bechini, Notaio in Genova

Anche gli studi notarili a volte sono startup – a cura Dott. Michele D’Agnolo

Anche gli studi notarili hanno le loro startup. Il caso classico è rappresentato dal giovane Notaio, fresco di prima nomina, che deve attrezzarsi per prendere possesso della sede assegnata.

Altre casistiche possono essere rappresentate dal Notaio che cambia volontariamente sede o città chiedendo un trasferimento, per motivi personali oppure confidando che l’area adita sia più florida rispetto alla precedente. Un altro caso sempre più frequente è quello di Notai che decidono di collaborare assieme fondando uno studio associato e che quindi devono far convergere le loro strutture in un’unica e più complessa organizzazione.

Quasi sempre, a meno che non si trovi a sostituire un unico collega in una zona piuttosto isolata, il Notaio startupper si troverà a competere con altri colleghi. Pensiamo al Notaio che apre un nuovo studio in una grande città come Milano, dove ci sono già centinaia di studi, tutti molto ben avviati.

Un primo dilemma nell’affrontare la questione è se iniziare presso altro studio collaborando con un collega già presente sul territorio o iniziare da soli.

Altro dilemma sarà quello di scegliere se nell’affrontare la nuova apertura si vorrà andare da soli o creare uno studio associato.

Occorre innanzitutto organizzarsi molto bene in termini logistici.

Trovare un ufficio, scegliere la forma di acquisizione, ristrutturarlo, arredarlo, ottenere gli allacciamenti alle utilities, ai telefoni e a internet. L’ufficio non potrà essere uno qualsiasi. Dovremo scegliere con attenzione la location, e inoltre la struttura interna dovrà essere adatta all’attività notarile: non potremo certo tenere gli originali degli atti nel sottoscala. Il passaggio successivo è di solito quello di selezionare e reclutare del personale, almeno una persona per la segreteria. Difficilissimo trovarne, e ancora più difficile trovare persone volenterose e preparate. Si procede poi a scegliere il software e l’infrastruttura tecnologica, dovendo anche decidere se comprarla o prenderla in affitto. E no, i software non sono tutti uguali e l’assistenza fa davvero la differenza.

Ma l’aspetto più importante (oggi poco curato) sarà quello di far sapere al mondo che lo studio esiste, e possibilmente attirare l’attenzione dei clienti e degli intermediari (banche, agenzie immobiliari, ediltecnici, commercialisti, avvocati, ecc…) differenziandosi in qualche modo dagli altri studi. Il tutto dovrà essere realizzato nel pieno rispetto della deontologia professionale.

Occorre partire dal business canvas, un documento di sintesi che descrive visivamente in una sola pagina e aiuta a validare l’”idea di business” dello studio. Il canvas spiega la proposizione di valore dello studio, cioè il perché qualcuno dovrebbe avvalersene e quali vantaggi ne ritrarrebbe. Sempre il canvas descrive a quali particolari nicchie di clienti lo studio cercherà di rivolgersi, come sarà organizzato il servizio e cosa ci si attende di ottenere anche a livello economico.

Una volta validata l’idea di business, scendendo nei dettagli, dal canvas si va ad elaborare un vero e proprio “piano industriale” dello studio notarile. Sarà importante ad esempio studiare il posizionamento dello studio inteso come livello di offerta e modo di presentarsi al pubblico. Ad esempio nell’area geografica di riferimento potrebbe esserci una rilevante comunità straniera che non viene servita e di conseguenza potrebbe essere interessante rendere disponibile un assistente notarile madrelingua e un sito web opportunamente tradotto.

Il business plan dello studio notarile comprenderà innanzitutto una descrizione del mercato di riferimento e dei principali competitor, la descrizione della strategia che il nuovo studio vorrà adottare. Ebbene si, nonostante l’obbligo di ministero, lo studio notarile ha un certo margine di manovra nello scegliere che clienti servire e in che prestazioni specializzarsi. Il plan è accompagnato da un budget economico e finanziario di solito triennale o quinquennale che metterà in evidenza gli obiettivi desiderati anche in termini di costi, spese, utili e incassi.  

In questo modo i notai promotori della nuova startup saranno in grado di valutare l’investimento da fare (o il debito in banca…) e i ritorni attesi.

Il business plan dovrebbe comprendere anche un piano di progetto, cioè un elenco dettagliato con tempi, costi e responsabilità delle attività da fare prima, durante e dopo l’inaugurazione del nuovo studio. È molto importante utilizzare delle checklist perché la quantità di cose da fare quando si avvia uno studio è davvero soverchiante, e c’è il concreto rischio di dimenticare qualcosa. Inoltre, i primi passi dello studio sono molto importanti perché influenzano in modo molto rilevante quelli successivi. Ad esempio se si sceglie male il primo assistente notarile, tutto lo studio crescerà “storto” perché l’assistente “sbagliato” influenzerà anche tutti i successivi assunti.

Il piano sarà utilissimo per seguire lo stato di avanzamento del progetto e poter operare quanto prima i necessari correttivi in caso di scostamenti.  

Come si è potuto constatare, l’avvio di un nuovo studio notarile richiede molto tempo e pazienza, e l’utilizzo degli strumenti indicati permette di ottimizzare e razionalizzare questa fase così importante.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

L’evoluzione del linguaggio nella comunicazione e nella tecnica giuridica – a cura Notaio Luca Sioni

Vi è mai capitato, durante la stipula di un atto notarile, di provare una sensazione di difficoltà nel seguire la lettura e nel mantenere la concentrazione, se non, addirittura, un insopprimibile senso di noia unito, magari, ad una scarsa comprensione del contenuto?

Certo le difficoltà insite nella materia e, talora, la non sempre chiara intellegibilità delle parole del notaio non aiutano il povero cliente, ma credo sia un dato di fatto che i testi dei nostri atti siano nella maggior parte dei casi un po’ involuti, infarciti di riferimenti a norme di legge che per le parti sono prive di significato, strutturati secondo modelli decisamente superati.

Il linguaggio è uno strumento in continua evoluzione e altrettanto lo sono le tecniche della comunicazione che, soprattutto in questi ultimi anni, hanno guadagnato un ruolo centrale anche in ambiti diversi da quelli tradizionale: oramai si parla quotidianamente, anche nel mondo delle aziende e delle professioni, di concetti quali comunicazione interna ed esterna, marketing narrativo, storytelling. Il modo di comunicare si è arricchito di nuovi strumenti e il racconto è sempre più spesso costituito da molteplici elementi: video, audio, immagini, testi, mappe, infografiche. Sull’onda di quanto accade nei social media si tende sempre più a creare vere e proprie storie finalizzate a produrre e veicolare contenuti (content marketing) allo scopo di rafforzare l’identità di un marchio.

Da qualche tempo questi concetti hanno cominciato a farsi largo anche nel campo delle professioni giuridiche e non solo gli studi più affermati e strutturati ma anche quelli di dimensioni e aree di operatività geografica più limitati utilizzano correntemente queste tecniche per costruire e rafforzare un proprio brand.

Ma se è un dato di fatto che  l’utilizzo di queste tecniche comunicative si stia diffondendo progressivamente anche nell’ambito delle professioni giuridiche, la questione del linguaggio degli atti e della sua semplificazione nell’ottica di una maggiore comprensibilità, almeno qui in Italia, è ancora agli inizi, e in tal senso va ricordata la lodevole iniziativa che ha portato a siglare, non più tardi di un paio d’anni fa, un protocollo d’intesa tra  Ministero della Pubblica Amministrazione e Accademia della Crusca per l’avvio di un programma di studio e promozione volto a favorire una comunicazione corretta e chiara in ambito istituzionale

Negli USA, invece, già dalla metà degli anni ’70 è andato sviluppandosi un vero e proprio movimento finalizzato alla semplificazione della lingua utilizzata dagli avvocati americani, il “Plain English Movement”, con l’obiettivo di sfrondare il linguaggio giuridico dalle complessità di una terminologia, spesso arcaica, riservata agli addetti ai lavori e poco comprensibile al cittadino comune.

Un po’ alla volta si sono moltiplicate iniziative destinate a inserirsi in questo filone. Varie ricerche sono state condotte, principalmente negli USA, sottoponendo ad un campione di avvocati e giudici alcuni documenti in due versioni, una nello stile legale tradizionale ed una seconda in un linguaggio chiaro e maggiormente comprensibile (“plain language”, appunto) e la stragrande maggioranza degli intervistati ha ritenuto preferibile la versione in plain language.

La pragmaticità degli americani ha fatto sì che si arrivasse, nel 2010, a promulgare addirittura una legge federale ad hoc, il Plain Writing Act.

Periodi lunghi e involuti, frasi poco scorrevoli, l’utilizzo di vocaboli ormai desueti nel linguaggio comune influisce sulla fluenza, cioè sulla facilità o meno di processare le informazioni.

Oggi più che mai, nell’era di internet, caratterizzata da un vero e proprio bombardamento di stimoli comunicativi da metabolizzare velocemente, leggere e comprendere agevolmente le informazioni ricevute ne agevola l’assorbimento e ingenera nel lettore un atteggiamento positivo.

Se ciò vale per chi è esperto in un settore (come detto, il campione degli intervistati era composto da giudici e avvocati), è facile comprendere come sia tanto più importante per chi esperto non è.

E qui si torna al tema, posto inizialmente, del linguaggio utilizzato nell’atto notarile, il cui destinatario, nella stragrande maggioranza dei casi, non è un esperto del settore ma una persona comune.

Quanto più apprezzato sarebbe un atto notarile scritto in plain language, e quanto più apprezzato sarebbe il notaio che si rivolge al cliente in modo chiaro e comprensibile, sottraendosi ai trabocchetti del “legalese”?

E’ risaputo che dopo pochi minuti la soglia di attenzione di chi ascolta si abbassa in modo graduale, fino a sconfinare nella disattenzione. L’obiettivo a cui tendere dovrebbe quindi essere quello di organizzare le informazioni in modo efficace, riducendo i tempi di fruizione e, al contempo, agevolandone la comprensione, ciò che, sempre stando agli studi condotti, consente di accrescere notevolmente la credibilità e autorevolezza di chi fornisce l’informazione.

Gli atti notarili sono spesso eccessivamente lunghi, con troppi riferimenti a norme di legge che non solo non è indispensabile citare ma la cui presenza complica la fluenza da parte di chi ascolta o legge l’atto, con il risultato di rendere poco fluida la costruzione del periodo, complicando la comprensione dei testi e mettendo il più delle volte in una situazione di sudditanza psicologica il cliente che di tali norme, nella stragrande maggioranza dei casi, nulla sa.

Occorrere riflettere sul fatto che il cliente medio non esiste, esiste invece una tipologia di clienti estremamente varia per età, livello di istruzione, soglia media di attenzione, capacità di comprensione, padronanza del linguaggio di base e settoriale ecc. e tutto ciò, se vogliamo adeguare i nostri standard linguistici e di comunicazione, va tenuto in debita considerazione.

Il nostro linguaggio non deve essere autoreferenziale ma deve essere volto a raggiungere l’obiettivo di rendere comprensibili, anche a chi non è un tecnico del diritto, concetti tutt’altro che semplici.

E’ superfluo puntualizzare che una revisione dei testi finalizzata ad una più immediata comprensione dei concetti espressi nell’atto nulla deve concedere in termini di rigore scientifico e appropriatezza dell’espressione. Il punto, la vera sfida, è proprio coniugare comprensibilità e specificità del testo giuridico, di per sé tecnico e disseminato di menzioni cui il notaio è tenuto per legge e alle quali non può sottrarsi.

Ciò su cui si può operare è sicuramente:

  • il periodo, che deve essere più breve e possibilmente privo di (o con pochissime) incidentali;
  • l’uso dei vocaboli, eliminando quelli arcaici o eccessivamente ricercati;
  • l’utilizzo dei riferimenti normativi, che deve essere limitato a quei riferimenti che sono essenziali, magari concentrati in un’apposita sezione;
  • la struttura dell’atto, facendo ricorso, ove possibile, a schematizzazioni; inserendo per ogni articolo un titolo che faciliti la ricerca di determinate clausole; raggruppando, ove possibile, gli articoli in titoli e sezioni;
  • la grafica, utilizzando grassetti, sottolineature, corsivi ed elenchi puntati.

Questi sono solo alcuni degli accorgimenti che possono essere utilizzati. Sarà poi la sensibilità di ciascun notaio a guidarlo nella revisione dei testi, utilizzando la tecnica redazionale più affine al proprio modo di esprimersi ma sempre tenendo ben presente l’obiettivo finale di una più agevole comprensione del testo nell’ottica di una piena fruizione dei contenuti.

A metà degli anni ’60 Italo Calvino, in un celebre articolo scritto per il quotidiano Il Giorno, con la sottile ironia che gli era propria, lanciava i suoi strali contro quella che lui aveva ribattezzato “l’antilingua”, ma già molto prima, nei Promessi Sposi, Manzoni tracciava il ritratto mirabile dell’avvocato Azzeccagarbugli, del quale una delle principali caratteristiche era proprio il ricorso ad un linguaggio, quello dell’uomo di legge, artificiosamente complicato e del tutto incomprensibile al povero Renzo.

Ecco, se provassimo ogni tanto a metterci nei panni del Renzo di turno, cercando di fare uno sforzo che ci renda, nel linguaggio parlato e in quello scritto, più chiari e comprensibili, senza che ciò si traduca in un impoverimento della nostra lingua, renderemmo un gran servizio al cliente e guadagneremmo molto in termini di apprezzamento e credibilità.

Luca Sioni,  Notaio in San Vito al Tagliamento.