Queste che seguono sono alcune brevi riflessioni sull’orientamento attuale della giurisprudenza su questo tema.
Partendo dalle origini, merita ricordare che la materia delle distanze tra fabbricati – e l’osservanza di una determinata distanza tra gli stessi – è stata regolata per la prima volta dal nostro legislatore con il codice civile vigente (come si sa, all’art. 873 C.C.).
Tuttavia, il legislatore ritenne di prevedere che una fonte normativa diversa e speciale – cioè i regolamenti edilizi – potesse aumentare la misura legale dell’arretramento tra edifici.
Infatti, l’art. 873 C.C. (rubricato DISTANZE NELLE COSTRUZIONI) recita che “Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.”
La Corte Costituzionale, in una decisione ormai risalente (16.6.2005), aveva precisato che la disciplina in tale tema “attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi” e rientra nella competenza legislativa statale esclusiva. Aveva poi aggiunto, però, che quando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri, per ragioni naturali e storiche, specifiche caratteristiche, allora la disciplina che li riguarda fuoriesce dai limiti propri dei rapporti privati e tocca anche interessi pubblici. Ciò legittimerebbe sia la competenza regionale concorrente, sia la competenza dei regolamenti locali, la legittimità dei quali si giustifica dunque soltanto nella misura in cui essa si collochi in maniera coerente nel quadro di interventi urbanistici pianificatori funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone dell’abitato.
Durante i lavori preparatori del codice civile si discusse parecchio circa la derogabilità delle distanze minime tra le costruzioni, tanto che nel progetto originario ne era prevista la totale inderogabilità per convenzione tra privati. Tuttavia, tale divieto fu giudicato eccessivo, dal momento che il regime delle distanze legali è dettato essenzialmente nell’interesse del privato e quindi risulta privo di quel carattere di ordine pubblico che ne giustifichi l’inderogabilità.
La giurisprudenza di legittimità, infatti, negli anni ha permesso di regolare le distanze per il tramite della costituzione di servitù, che altro non è se non una regolamentazione privata di rapporti di vicinato (il fondo dominante è quello che trae l’utilità dalla deroga ed il fondo servente è quello che subisce la costruzione a distanza inferiore).
La regolamentazione pattizia mediante la costituzione di servitù, dall’altro lato, non sarebbe ammessa qualora un regolamento edilizio imponesse un distacco maggiore nelle costruzioni rispetto al codice civile e ciò in ragione delle finalità d’interesse collettivo del regolamento stesso che ne imporrebbe l’inderogabilità.
Quanto detto non osta, poi, ad ammettere l’acquisto del diritto a titolo originario (usucapione), dal momento che il possesso continuato per venti anni da parte del titolare del fondo dominante risulterebbe prevalente ma comunque coerente col rispetto di interessi collettivi, quale la stabilità delle relazioni tra fondi vicini.
Quanto testé detto circa l’ammissibilità dell’usucapione della servitù consistente nel mantenere una costruzione a distanza inferiore a quella stabilita dal codice civile, o dalle fonti che lo integrano, si applica parimenti all’istituto della destinazione del padre di famiglia come fonte di quel diritto reale.
Nonostante vi siano state pronunce di legittimità di diverso avviso, deve ritenersi ora valida la transazione con la quale si dia origine alla servitù di mantenere costruzioni a distanza inferiore a quella stabilita dai regolamenti edilizi. Lo stesso dicasi per gli accordi di mediazione aventi un simile oggetto.
Alla luce di quanto detto, si ritiene che l’impostazione della giurisprudenza non sia condivisibile, in quanto in più pronunce vuole riconoscere il rango di norma primaria alla normativa regolamentare.
In conclusione, gli atti con i quali le parti costituiscono una servitù prediale, consistente nel mantenere la costruzione a distanza inferiore da quella legale, sono da ritenersi validi in quanto leciti, sia quando derogano la distanza di tre metri stabilita dal codice civile, sia quando derogano la maggior distanza stabilita dai regolamenti o dalle N.T.A. del piano regolatore o da altra fonte integratrice.
Sono validi tutte le volte in cui la norma regolamentare integri il codice civile; altrimenti, invalidi.
Il punto nodale dell’intera questione rimane comunque sull’art. 872 C.C. . La violazione della disciplina sulle distanze comporta infatti le conseguenze di carattere amministrativo che nessun contratto può impedire. La protezione degli interessi pubblici non può che competere esclusivamente al diritto pubblico.
Alessandra Magnocavallo, Notaio in Brescia.