Comprendere il cliente per migliorare: perché misurare la soddisfazione è cruciale – di Dott.ssa Anna Lisa Copetto

La soddisfazione del cliente in relazione ad un servizio ricevuto dallo studio notarile dipende dalla combinazione di una pluralità di fattori, che incidono con pesi diversi a seconda delle caratteristiche del cliente. 

C’è una dimensione di performance tecnico giuridica, sulla quale lo studio tende a investire moltissimo e che il cliente dà per imprescindibile e scontata. Tutti gli altri fattori (relazionali, organizzativi, informativi, ecc.)  tendono ad essere trascurati perché considerati in qualche modo accessori, secondari rispetto al fine ultimo, perfino superflui. Ma è proprio su questi che lo studio può invece costruire un elemento di vantaggio competitivo.

Prendiamo ad esempio la stipula di un atto di compravendita, un servizio tutto sommato standardizzabile, almeno in buona parte del  suo processo di realizzazione. Quali sono gi elementi che possono deliziare il cliente a tal punto da essere disposto a rivolgersi nuovamente allo studio o addirittura a suggerire ad altri di rivolgersi allo studio? Non certo il contenuto impeccabile dell’atto che egli dà per scontato.  A seconda delle sue sensibilità (funzionali, economiche, relazionali, emotive, razionali) potranno essere: la facilità di accesso allo studio, la velocità nel ricevere delle risposte, la capacità dello studio di comprendere quelle esigenze che nemmeno lui riusciva ad esplicitare, la capacità dello studio di risolvere con competenza e celerità un eventuale problema sorto in corso d’opera, la cortesia e l’empatia del personale di contatto, la cura dell’ambiente nel quale viene accolto, l’informatizzazione di alcuni passaggi, l’ubicazione dello studio, la disponibilità del Notaio, l’onorario,  e chi più ne ha più ne metta.

Ci sono alcuni elementi sui quali lo studio difficilmente potrà intervenire ma altri sui quali è opportuno interrogarsi rispetto alla effettiva possibilità di fare di più e meglio all’occhio esterno del mercato. A volte bisogna proprio cambiare prospettiva e indossare i panni del cliente per capire quali sono davvero i punti di forza dello studio che meritano di essere ulteriormente valorizzati e i punti di debolezza sui quali lavorare.

Stante le risorse non illimitate dello studio, vale la pena coinvolgere direttamente il cliente in questa analisi, anche per non rischiarare di fare i conti senza l’oste e ritrovarsi poi un caro prezzo da pagare, foss’anche solo di immagine.

L’indagine sulla soddisfazione del cliente si può collocare in diverse fasi del servizio:

  1. nella fase di avvio del rapporto, utile per comprendere le reali aspettative, raccogliere informazioni essenziali a costruire un’offerta mirata e allocare in modo efficiente risorse, energie e mezzi,
  2. in itinere, per riconoscere tempestivamente segnali di insoddisfazione e intervenire prontamente per risolverli
  3. nella fase successiva all’erogazione del servizio per comprendere gli aspetti che hanno in definitiva soddisfatto o deluso il cliente, cosi da poter pianificare una strategia di miglioramento

La soddisfazione del cliente può essere rilevata attraverso una osservazione diretta dei comportanti del cliente nella sua interazione con lo staff, attraverso dei questionari strutturati (utilizzando anche strumenti come Google Forms o SurveyMonkey che facilitano la raccolta di opinioni in forma anonima) oppure attraverso dei più informali colloqui post-stipula che, oltre alla raccolta dei feedback,  comunica al cliente la sua centralità nell’attenzione del Notaio.

I vantaggi di un’analisi accurata della soddisfazione sono ormai chiari:

  1. Miglioramento continuo: il feedback permette di affinare tanto l’offerta tecnica quanto l’esperienza relazionale
  2. Fidelizzazione della clientela:  un cliente soddisfatto non solo ritorna, ma diventa un interlocutore stabile e affidabile, riducendo i costi di lavorazione delle pratiche
  3. Migliore clima interno: minori reclami, minori grattacapi, lavorazioni più efficienti rendono il personale più sereno e produttivo
  4. Marketing gratuito: clienti appagati condividono la loro esperienza, contribuendo a consolidare la reputazione dello studio e a generare nuove opportunità
  5. Vantaggio competitivo: in un contesto nel quale la competenza tecnica è spesso data per scontata, eccellere nella relazione con il cliente costituisce un elemento distintivo e strategico.
  6. Prevenzione delle criticità: individuare tempestivamente potenziali insoddisfazioni consente di neutralizzarle, evitando che si trasformino in reclami o danni di immagine
  7. Orientamento strategico: comprendere le aspettative e i desideri della clientela permette di definire con precisione le priorità operative e di allocare le risorse in modo mirato ed efficace.

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network

 

Le difficili scelte del Notaio di prima nomina – di Dott. Michele D’Agnolo

Le difficili scelte del Notaio di prima nomina: Pro e Contro delle Diverse Modalità di Inizio dell’Esercizio Professionale

Diventare notaio di prima nomina rappresenta un traguardo importante e il coronamento di un lungo percorso formativo. Tuttavia, una volta superato il concorso, il neo notaio si trova di fronte a una delle scelte più delicate e cruciali per la propria carriera: come avviare l’esercizio della professione?

Le opzioni principali si dividono tra l’avvio di uno studio individuale e la scelta di un’associazione professionale. In quest’ultima, le possibilità ulteriori includono associarsi con altri notai di prima nomina o entrare in studi notarili già avviati. Ognuna di queste modalità presenta vantaggi e svantaggi che il neo notaio deve valutare con attenzione, tenendo conto delle proprie aspirazioni professionali, delle risorse a disposizione e del contesto del mercato notarile.

Esercizio della Professione in Forma Individuale: Pro e Contro

L’apertura di uno studio notarile individuale è l’opzione tradizionale per molti notai di prima nomina. Questa scelta comporta un alto grado di autonomia, ma anche notevoli responsabilità e rischi.

 I Pro:

  1. Massima autonomia decisionale: Aprire uno studio individuale consente al neo notaio di esercitare un controllo completo su ogni aspetto della propria attività, dalla gestione del personale alle relazioni con i clienti, passando per la selezione degli incarichi e la definizione delle tariffe.
  1. Costruzione del proprio brand professionale: Essere il titolare di uno studio significa potersi costruire una reputazione personale e una clientela direttamente legata al proprio nome, il che può rappresentare un vantaggio competitivo nel lungo periodo.
  1. Sviluppo indipendente della carriera: La gestione di uno studio individuale permette al notaio di crescere secondo i propri ritmi e di sviluppare una visione imprenditoriale della professione, creando un’attività che riflette pienamente i propri valori e obiettivi.

I Contro:

  1. Elevati costi iniziali: L’apertura di uno studio individuale richiede un investimento considerevole per l’acquisto o il leasing degli spazi, l’arredamento e l’attrezzatura, oltre alla gestione delle spese correnti come stipendi, utenze e forniture. Questi costi possono essere difficili da sostenere per un neo notaio senza una clientela consolidata.
  1. Isolamento professionale: Operare da soli può comportare un senso di isolamento, poiché manca il confronto continuo con altri professionisti. Questo può limitare l’apprendimento e lo sviluppo delle competenze, soprattutto nelle fasi iniziali della carriera.
  1. Responsabilità totale nella gestione operativa: Il neo notaio che avvia uno studio individuale deve occuparsi di tutti gli aspetti gestionali e operativi, dalle pratiche amministrative alla contabilità, fino alla gestione dei rapporti con i dipendenti e i fornitori. Questo può sottrarre tempo e risorse all’attività notarile vera e propria, creando pressioni e stress aggiuntivi.

Associazione con altri Notai di Prima Nomina: Pro e Contro

Una seconda opzione è quella di associarsi con altri notai di prima nomina. Si tratta di una forma di collaborazione che permette di condividere risorse e responsabilità, mantenendo una certa indipendenza.

 I Pro:

  1. Condivisione dei costi: L’associazione con altri notai di prima nomina consente di dividere i costi operativi, come l’affitto degli spazi, le spese per il personale e l’acquisto di attrezzature. Questo riduce il peso economico su ciascun notaio, rendendo l’avvio della professione più sostenibile.
  1. Sinergie professionali: Lavorare con colleghi di pari livello permette di scambiarsi idee, condividere esperienze e affrontare insieme le sfide della professione. Questa sinergia può portare a una crescita più rapida, in quanto ogni notaio può apprendere dalle esperienze degli altri.
  1. Maggiore potenziale di attrazione dei clienti: L’associazione con altri notai può offrire una più ampia gamma di competenze e servizi, aumentando così l’attrattiva dello studio per i potenziali clienti. La presenza di più notai permette anche di gestire un maggior numero di incarichi e di accrescere la visibilità sul mercato.

 I Contro:

  1. Condivisione delle decisioni: Associarsi con altri notai implica dover condividere decisioni strategiche e operative. Questo può portare a divergenze di opinione e conflitti, soprattutto se i partner non hanno una visione comune sugli obiettivi dello studio o sulle modalità di lavoro.
  1. Equilibrio di competenze ed esperienze: Essendo tutti notai di prima nomina, nessuno dei soci possiede ancora una significativa esperienza professionale. Questo può essere un limite nel trattare pratiche complesse o nell’affrontare questioni legali più sofisticate, dove la consulenza di un notaio più esperto sarebbe preziosa.
  1. Distribuzione dei profitti: L’associazione implica una suddivisione degli introiti tra i soci. Questo può rappresentare un limite economico, soprattutto nelle fasi iniziali, in cui il volume di lavoro potrebbe non essere sufficiente per garantire guadagni soddisfacenti a ciascun notaio.

Associazione con Studi Notarili Avviati: Pro e Contro

Infine, una terza possibilità per il neo notaio è quella di associarsi con uno studio notarile già avviato. Questa opzione presenta vantaggi significativi in termini di supporto professionale e accesso a una clientela consolidata, ma comporta anche alcune limitazioni.

 I Pro:

  1. Accesso immediato a una clientela consolidata: Entrare a far parte di uno studio notarile già avviato significa poter beneficiare da subito di una base di clienti già fidelizzati. Questo rappresenta un notevole vantaggio rispetto all’apertura di uno studio individuale, dove il neo notaio dovrebbe costruirsi da zero la propria reputazione.
  1. Supporto di notai esperti: Lavorare a fianco di notai più esperti consente al neo notaio di apprendere rapidamente le dinamiche della professione e di affrontare le pratiche più complesse con il supporto di colleghi navigati. Questo tipo di mentoring può accelerare lo sviluppo delle competenze e ridurre gli errori nelle fasi iniziali.
  1. Condivisione delle responsabilità gestionali: In uno studio avviato, molte delle responsabilità amministrative e gestionali sono già ben strutturate. Questo permette al giovane notaio di concentrarsi principalmente sull’attività notarile, evitando il peso della gestione operativa quotidiana.

 I Contro:

  1. Mancanza di autonomia: Associarsi a uno studio consolidato implica dover rispettare le regole e le dinamiche già stabilite dai notai titolari. Questo può limitare la libertà decisionale del neo notaio e la sua capacità di introdurre cambiamenti o innovazioni all’interno dello studio.
  1. Possibile difficoltà nel costruire una propria identità professionale: Lavorare all’interno di uno studio già affermato può portare il neo notaio a essere percepito come un collaboratore piuttosto che come un professionista indipendente. Questo potrebbe rallentare la costruzione di una propria identità professionale e della propria rete di contatti.
  1. Concorrenza interna: In un contesto in cui operano già notai esperti, il neo notaio potrebbe trovarsi a dover competere con i colleghi per l’assegnazione delle pratiche più importanti o per la costruzione di un proprio portafoglio clienti.

Conclusioni: Una Scelta da Ponderare con Attenzione

Per il notaio di prima nomina, la decisione su come avviare l’esercizio della professione è tutt’altro che semplice. L’avvio di uno studio individuale offre massima autonomia e la possibilità di costruire un brand personale, ma richiede risorse economiche significative e una grande capacità gestionale. L’associazione con altri notai di prima nomina consente di condividere i costi e le responsabilità, ma può comportare difficoltà di governance e mancanza di esperienza. Infine, l’ingresso in uno studio già avviato permette di beneficiare immediatamente di una clientela consolidata e di un supporto professionale, ma potrebbe limitare l’autonomia e la crescita indipendente.

In definitiva, la scelta giusta dipenderà dalle aspirazioni del singolo neo notaio, dalla sua attitudine all’imprenditorialità e dalla disponibilità di risorse economiche. In tutti i casi, una riflessione ponderata e una valutazione strategica delle opportunità offerte dal mercato sono essenziali per garantire un avvio di carriera solido e di successo.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Networ

La Transizione Generazionale negli Studi Notarili – di Dott. Michele D’Agnolo

La Transizione Generazionale negli Studi Notarili: Opportunità e Sfide per Giovani Notai e Studi Avviati

Il panorama notarile italiano sta vivendo una trasformazione significativa, caratterizzata da un ricambio generazionale sempre più accelerato. Questo fenomeno è determinato dall’aumento del numero di Notai che scelgono di ritirarsi anche prima del raggiungimento dei limiti di età previsti dalla legge, unito a una crescente frequenza ed estensione dei concorsi notarili e al conseguente incremento dei Notai di nuova nomina. In questo contesto, sia i giovani Notai sia i titolari di studi consolidati devono affrontare nuove sfide e opportunità che influenzeranno profondamente il futuro della professione notarile.

Un panorama in evoluzione: pensionamenti anticipati e concorsi più frequenti

Negli ultimi anni si è assistito a un aumento del numero di Notai che decidono di ritirarsi anticipatamente, spesso attratti da prospettive di pensionamento più flessibili o da un desiderio di passaggio del testimone alle nuove generazioni. Questa tendenza ha generato un effetto a catena: il maggior numero di concorsi notarili consente a giovani Notai di accedere alla professione in modo più rapido, ma al contempo espone il mercato notarile a una competizione sempre più serrata.

I Notai che si ritirano, sia per motivi personali che professionali, lasciano infatti spazio a nuove leve, con un impatto significativo sulla distribuzione degli incarichi e sulle modalità di accesso alla professione. Tuttavia, per i giovani Notai appena nominati, l’ingresso nel mondo professionale non è più garantito da un avvio indipendente della propria attività, come avveniva in passato, ma avviene sempre più spesso attraverso forme di associazione o affiliazione con studi notarili già avviati.

L’importanza di scegliere il mentore e lo studio giusto

Per i giovani Notai, la scelta del mentore e dello studio notarile in cui avviare la propria carriera diventa una decisione cruciale. In un mercato sempre più competitivo, associarsi a uno studio consolidato può rappresentare un’opportunità unica per acquisire competenze, costruire una rete di contatti e inserirsi progressivamente nella gestione dello studio. Tuttavia, è fondamentale che questa scelta venga effettuata con cura, valutando attentamente le condizioni del sodalizio e le prospettive di crescita all’interno dell’associazione.

Alcuni aspetti da considerare includono:

– La solidità dello studio: È importante valutare la posizione dello studio nel mercato locale, il volume di affari e la tipologia di clientela. Uno studio ben posizionato può garantire un flusso costante di incarichi e una maggiore visibilità.

– La compatibilità con il Notaio titolare: Il rapporto tra il giovane Notaio e il Notaio titolare deve basarsi su fiducia reciproca, rispetto e una visione comune del futuro dello studio. La capacità di apprendere dal titolare e, al contempo, di essere considerato come un potenziale successore, è fondamentale per una transizione fluida.

– Le condizioni economiche: Oltre agli aspetti formativi e professionali, è essenziale che le condizioni economiche del sodalizio siano trasparenti e giuste, con accordi chiari su compensi, ripartizione dei costi e prospettive di crescita all’interno dello studio.

La responsabilità dei Notai in uscita: garantire continuità e qualità

Dal lato opposto, i Notai che si apprestano a concludere la loro carriera professionale devono considerare con grande attenzione a chi affidare il proprio studio. Lasciare uno studio notarile non significa solo ritirarsi dalla professione, ma implica anche la responsabilità di assicurarsi che la clientela e gli assistenti notarili, che spesso rappresentano un patrimonio prezioso dello studio, vengano affidati a mani competenti e affidabili.

Il passaggio generazionale deve avvenire in modo pianificato e strutturato, evitando che la discontinuità possa danneggiare la reputazione dello studio o causare perdite di clientela. Alcuni aspetti che i Notai in uscita devono tenere in considerazione includono:

– La formazione del giovane Notaio: Il Notaio uscente ha il compito di trasmettere non solo le competenze tecniche, ma anche il patrimonio di conoscenze relazionali e gestionali che caratterizzano uno studio avviato. Questo processo di mentoring è fondamentale per garantire che il giovane Notaio possa prendere le redini dello studio in modo efficace.

– La gestione della clientela: Un avvicendamento ben riuscito richiede che la clientela venga progressivamente introdotta al nuovo Notaio, attraverso una fase di transizione in cui entrambi lavorano insieme. Questo processo deve essere gestito con tatto e attenzione, affinché la fiducia costruita negli anni non venga compromessa.

– Il coinvolgimento degli assistenti notarili: Lo staff notarile è spesso il cuore pulsante dello studio, e il loro coinvolgimento nel processo di transizione è fondamentale per mantenere la continuità operativa. Il Notaio uscente deve assicurarsi che anche il personale sia parte attiva del passaggio generazionale, garantendo così una continuità nel servizio ai clienti.

Aggregazioni tra neo Notai: una nuova forma di associazione

In alternativa all’affiliazione con studi avviati, si sta diffondendo la pratica delle aggregazioni tra neo Notai. Queste aggregazioni permettono ai giovani Notai di condividere risorse, competenze e costi, costituendo una struttura che può competere con gli studi più consolidati. Questa forma di collaborazione rappresenta una valida alternativa per chi preferisce mantenere una maggiore autonomia rispetto all’ingresso in studi già affermati, pur beneficiando delle sinergie derivanti da un lavoro di squadra.

Tuttavia, anche in questo caso, la scelta dei soci con cui aggregarsi è fondamentale. La condivisione di una visione comune del lavoro, la compatibilità professionale e una chiara definizione degli obiettivi comuni sono prerequisiti indispensabili per il successo di queste nuove strutture.

Conclusione: la transizione come opportunità

La transizione generazionale negli studi notarili rappresenta una sfida, ma anche una grande opportunità per il futuro della professione. Per i giovani Notai, associarsi a uno studio avviato o formare nuove aggregazioni può rappresentare un trampolino di lancio, purché si facciano scelte ponderate e si presti attenzione alle dinamiche interne dello studio.

Dall’altro lato, i Notai che si avviano verso la quiescenza sentono il dovere morale di assicurare che il proprio lascito professionale sia gestito con la stessa cura e dedizione che hanno impiegato nella loro carriera. Solo attraverso un passaggio generazionale ben pianificato e gestito sarà possibile mantenere elevati gli standard di qualità e professionalità che caratterizzano la professione notarile in Italia.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Networ

Equilibrio normativo tra riorganizzazione societaria e salvaguardia dei creditori: l’art. 2503 c.c. – di Notaio in attesa di nomina Antonio D’Ausilio

Equilibrio normativo tra riorganizzazione societaria e salvaguardia dei creditori: l’art. 2503 c.c.

L’art. 2503, comma 1, c.c. sancisce, in tema di fusione, che “1. La fusione può essere attuata solo dopo sessanta giorni dall’ultima delle iscrizioni previste dall’articolo 2502-bis”. Dunque, regola generale è che la fusione può essere attuata soltanto dopo il decorso di sessanta giorni dall’ultima delle iscrizioni previste dall’art. 2502-bis del codice civile[1].

I creditori delle società partecipanti alla fusione anteriori all’iscrizione prevista nel terzo comma dell’art. 2501-ter c.c., entro il termine di sessanta giorni, possono fare opposizione. Difatti, la fusione comporta una concentrazione di patrimoni e ciò potrebbe determinare un pregiudizio per i creditori delle società partecipanti alla stessa[2]. Si può pertanto sostenere, come si sostiene pacificamente, che l’art. 2503 c.c. fonda la sua ratio nella salvaguardia delle ragioni dei creditori delle società partecipanti alla fusione anteriori all’iscrizione di cui all’art. 2501-ter c.c.

Larga parte della dottrina sostiene che l’opposizione rientra tra i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale in quanto avente la funzione di evitare un pregiudizio per i creditori; più specificamente, in tema di fusione (e scissione), lo strumento oppositorio si fonda altresì sul principio generale in base al quale per ottenere il mutamento del debitore del rapporto obbligatorio occorre il consenso del creditore[3].

Occorre preliminarmente precisare che la problematica della fusione anticipata è diversa rispetto alla questione circa la possibilità di procedere al perfezionamento dell’atto di fusione prima del decorso dei sessanta giorni.

Al riguardo, una parte della dottrina sostiene che l’atto di fusione può essere stipulato anche prima dei sessanta giorni ma sarà da sottoporsi alla condizione sospensiva della mancata opposizione nei termini previsti dalla legge.

Di diverso avviso è la dottrina prevalente e la prassi notarile più prudente, le quali, sulla scorta della responsabilità penale degli amministratori in caso di danno ai creditori mediante un atto di fusione, di scissione o di riduzione del capitale ex art. 2629 c.c., sostengono che l’atto di fusione non possa essere perfezionato prima del decorso del termine previsto per l’opposizione[4].

Ritornando alla tematica in oggetto, il Legislatore, nello stesso comma 1 dell’art. 2503 c.c., così come fissa la regola generale determina anche i casi in cui è possibile procedere all’attuazione della fusione anticipatamente (c.d. fusione anticipata).

Tali casi sono caratterizzati dalla loro idoneità ex lege a salvaguardare le ragioni dei creditori e perciò consentono di procedere ad attuare la fusione prima del decorso dei sessanta giorni determinando, di conseguenza, il venir meno o la limitazione del diritto di opposizione.

La fusione anticipata, dunque, consente di non attendere il termine di sessanta giorni ma di procedere direttamente alla stipula dell’atto di fusione.

In ordine alle ipotesi in cui può procedersi in tale ultimo senso, l’art. 2503, comma 1, c.c. detta quattro ipotesi eccezionali di fusione anticipata, le quali ricorrono nei casi in cui consti:

  1. il consenso dei creditori anteriori all’iscrizione o alla pubblicazione prevista nel terzo comma dell’art. 2501 ter c.c.; o
  2. il pagamento dei creditori che non hanno prestato il proprio consenso; o
  3. il deposito delle somme corrispondenti presso una banca; oppure
  4. che la relazione di cui all’articolo 2501-sexies sia redatta, per tutte le società partecipanti alla fusione, da un’unica società di revisione, la quale asseveri, sotto la propria responsabilità ai sensi del sesto comma dell’articolo 2501-sexies, che la situazione patrimoniale e finanziaria delle società partecipanti alla fusione rende non necessarie garanzie a tutela dei suddetti creditori”.

Sotto altro profilo, tale norma assume altresì rilevanza in quanto essa prevede e consente una attuazione anticipata del negozio determinante la conclusione dell’operazione.

Ciò chiarito, ci si è chiesti se, sulla base dell’applicazione dell’art. 2503, comma 1, c.c., ritenendo la norma in esso contenuto come principio generale oppure applicando in via analogica la norma stessa alla riduzione reale del capitale, possa procedersi ad una sorta di riduzione reale del capitale anticipata[5].

La dottrina[6] e la giurisprudenza[7] prevalenti escludono la possibilità di anticipare la riduzione reale del capitale (art. 2445 c.c.).

Più in dettaglio, tale orientamento sostiene che il termine di 90 giorni dall’iscrizione della delibera, previsto a tutela dei creditori, non sia né diminuibile né derogabile, nemmeno con il consenso dei creditori stessi.

La dottrina, a sostegno di tale tesi, ritiene che la procedura della riduzione reale del capitale differisca da quella prevista in tema di fusione per la mancanza di una pubblicità preventiva che individui con certezza i creditori legittimati all’opposizione[8].

Passando alla trattazione della c.d. scissione anticipata, occorre premettere che la scissione, come regola generale, può essere attuata solo dopo il decorso di sessanta giorni dall’ultima delle iscrizioni di cui all’art. 2502-bis c.c.[9].

Difatti, l’operazione di scissione comporta una separazione del patrimonio della scissa, sicché ciò può determinare un pregiudizio sia per i creditori della scissa che per i creditori delle beneficiarie preesistenti[10].

Tuttavia, l’art, 2506 ter, comma 5, c.c. prevede l’applicazione alla scissione del già visto art. 2503 c.c., rubricato “Opposizione dei creditori”.

Dunque, il Legislatore ha consentito, anche in tema di scissione, di procedere anticipatamente alla sua attuazione predisponendo, a tutela dei creditori, le medesime misure di salvaguardia delle loro ragioni.

In altri termini, mediante il richiamo all’art. 2503 c.c., può aversi scissione anticipata nelle ipotesi subb. a), b), c) e d) di cui supra.

Più specificamente, con riguardo all’ipotesi sub. d), introdotta con la Riforma del diritto societario (D.Lgs. 6/2003), questa prevede, al fine di procedere all’attuazione anticipata della fusione o della scissione, che la relazione indicata all’art. 2501-sexies c.c. venga redatta da una sola società di revisione per tutte le società coinvolte nella fusione. Trattasi, in particolare, della relazione degli esperti sulla congruità del rapporto di cambio delle azioni o quote cui si aggiunge l’asseverazione “che la situazione patrimoniale e finanziaria delle società partecipanti alla fusione rende non necessarie garanzie a tutela dei suddetti creditori” (art. 2503, comma 1, ultima frase, c.c.)

In altre parole, la società di revisione deve attestare, sotto la propria responsabilità, come previsto dal sesto comma dell’art. 2501-sexies c.c., che la situazione patrimoniale e finanziaria delle società partecipanti alla fusione non richieda l’adozione di garanzie a tutela dei creditori interessati.

Al riguardo, al fine di realizzare una fusione o scissione anticipata, la dottrina prevalente sostiene che la relazione di cui all’art. 2501-sexies c.c. richiesta dall’art. 2503 c.c. (per la scissione, dal combinato disposto dagli artt. 2506-ter e 2503 c.c.) sarà pure necessaria in caso di scissione in cui non sia possibile e/o richiesto procedere alla stima del rapporto di cambio[11]; in tale ultimo caso, dunque, la relazione consisterà nella sola asseverazione di cui all’art. 2503, comma 1, ultima frase, c.c. vista supra.

Difatti, come chiarito dal Consiglio Notarile di Milano con la massima n. 60, “I compiti assegnati dalle citate norme all’esperto o alla società di revisione, in quanto fissati nell’interesse dei creditori, sono infatti logicamente e funzionalmente autonomi dal giudizio di congruità, di guisa che possono e debbono essere assolti, ove ne ricorrano i presupposti, anche indipendentemente dalla resa di un giudizio di congruità”.

Per completezza si rammenta che la relazione richiesta dall’art. 2503, comma 1, c.c. dovrà essere redatta da un unico esperto per tutte le società partecipanti alla fusione o scissione e che il perito dovrà essere una società di revisione e non una persona fisica[12].

In ordine alla problematica suesposta, la massima L.C. 3 del Comitato Triveneto dei Notai, in primo luogo, conferma che “Al fine di procedere ad una fusione o scissione anticipata è sempre ammissibile, anche nei casi semplificati in cui non si applica l’art. 2501-sexies c.c., che venga formata da un’unica società di revisione una relazione asseverante che la situazione patrimoniale e finanziaria delle società partecipanti alla fusione o scissione renda non necessarie garanzie a tutela dei creditori ai sensi dell’ultima parte del comma 1 dell’art. 2503 c.c.”; in secondo luogo, il Triveneto precisa che “La nomina dell’unica società di revisione spetta alle società partecipanti, salvo che la società incorporante, la società beneficiaria o la società risultante dalla fusione sia una SPA o SAPA, nel qual caso la nomina compete al tribunale”.

Sul tale ultimo punto, difatti, l’art. 2501-sexies c.c., richiamato dall’art. 2503, comma 1, c.c., al comma 3 precisa che “L’esperto o gli esperti sono scelti tra i soggetti di cui al primo comma dell’articolo 2409-bis e, se la società incorporante o la società risultante dalla fusione è una società per azioni o in accomandita per azioni, sono designati dal tribunale del luogo in cui ha sede la società”.

Dalla lettura testuale della norma si ricava che la designazione ad opera del Tribunale è necessaria soltanto se la società incorporante o risultante dalla fusione è una SPA o una SAPA, in caso contrario l’esperto potrà essere scelto di comune accordo dalle società partecipanti alla fusione[13].

Posto che la norma, così come la massima, trattano soltanto della fusione ci si è posti il problema della corretta applicazione dell’art. 2501-sexies, comma 3, c.c. nel caso in cui si tratti di scissione parziale con assegnazione ad una o più beneficiarie di nuova costituzione (c.d. scissione parziale in senso stretto) e la società scissa sia una SPA o una SAPA.

In tal caso, a parere di chi scrive, la circostanza per cui la scissa sia una SPA (o una SAPA) non determina che l’esperto debba essere designato dal Tribunale in quanto:

  • la società scissa non può ontologicamente equipararsi ad una società incorporante, visto che la scissa assegna parte del suo patrimonio e non incorpora alcuna società;
  • la società scissa non può ritenersi una società risultante dalla fusione o, meglio, dalla scissione. Difatti, si parla di “società risultante dalla scissione” con riferimento alla società di nuova costituzione, ovviamente nel caso in cui la scissione determini la costituzione di una nuova società (c.d. scissione in senso stretto).

Ciò detto deve ritenersi che nel caso in cui la società scissa sia una SPA o una SAPA l’esperto potrà essere scelto di comune accordo dalle società partecipanti alla scissione.

Dunque, può affermarsi che la normativa in tema di fusione e scissione, in particolare l’art. 2503 c.c., rappresenta un bilanciamento tra la necessità di consentire alle imprese di riorganizzarsi e l’esigenza di salvaguardare i creditori da eventuali pregiudizi patrimoniali. L’opposizione dei creditori, prevista come misura di tutela, si pone come meccanismo di salvaguardia dei loro diritti, fondamentale soprattutto nei casi in cui il mutamento della struttura societaria possa compromettere la garanzia del credito.

Tuttavia, consapevole delle esigenze di dinamicità delle operazioni societarie, il Legislatore ha introdotto eccezioni che consentono di anticipare la fusione nei casi di cui all’art. 2503, comma 1, c.c.

In quest’ottica, l’art. 2501-sexies c.c. prevede che la relazione asseverata di una società di revisione, che attesti la solidità patrimoniale e finanziaria delle società,  consente di procedere senza attendere i 60 giorni previsti dall’art. 2503 c.c. Questa misura, insieme con le altre previste dalla normativa, permette di ridurre i tempi delle operazioni, senza compromettere le tutele essenziali.

Per quanto riguarda operazioni simili, come la riduzione reale del capitale ex art. 2445 c.c., la dottrina prevalente ritiene che non vi sia la stessa flessibilità garantita dalla legge per le fusioni, principalmente a causa dell’assenza di una pubblicità preventiva. La diversità di struttura tra queste operazioni evidenzia la particolare attenzione riservata alla pubblicità nelle fusioni e la differente tutela dei creditori.

Un aspetto rilevante è che le disposizioni relative alla fusione si applicano anche alle scissioni, come stabilito dall’art. 2506-ter c.c., il quale estende i meccanismi di opposizione e le garanzie anche a tali operazioni. Questo conferma la coerenza del sistema giuridico nell’assicurare la tutela dei creditori in tutte le operazioni societarie che incidono sulla loro posizione.

A tal proposito, la massima L.C. 3 del Comitato Triveneto dei Notai ha chiarito che è sempre possibile, anche nei casi semplificati che non richiedono l’applicazione dell’art. 2501-sexies c.c., procedere con una fusione o scissione anticipata, purché una relazione asseverante, redatta da un’unica società di revisione, attesti che la situazione patrimoniale delle società partecipanti renda non necessarie ulteriori garanzie per i creditori. Tale previsione è rilevante anche in materia di scissione, ove si è discusso dell’applicabilità dell’art. 2501-sexies, comma 3, c.c. nel caso di scissione parziale con assegnazione a nuove società beneficiarie. In questi casi, la designazione dell’esperto non deve necessariamente essere fatta dal Tribunale se la società scissa è una SPA o SAPA, poiché essa non può essere equiparata né a una società incorporante né a una risultante dalla fusione.

In conclusione, il quadro normativo in materia di fusioni e scissioni, con l’introduzione di strumenti come la relazione asseverante, riflette un bilanciamento efficace tra la necessità di favorire la riorganizzazione aziendale e la tutela dei creditori. L’evoluzione legislativa ha saputo rispondere alle esigenze di maggiore efficienza nei casi di operazioni di riorganizzazione societaria, senza rinunciare a garantire la protezione del patrimonio sociale e la sicurezza del sistema economico.

[1] Genghini, soc. cap., pp. 1625

[2] Genghini, soc. cap., pp. 1625

[3] Guerrera, trasformazione, fusione e scissione, … p. 429.

[4] Genghini, soc. cap., pp. 1631

[5] Al riguardo, occorre rammentare che l’art. 2445, commi 3 e 4, c.c. prevede che “La deliberazione (di riduzione del capitale) può essere eseguita soltanto dopo novanta giorni dal giorno dell’iscrizione nel registro delle imprese, purché entro questo termine nessun creditore sociale anteriore all’iscrizione abbia fatto opposizione.

Il tribunale, quando ritenga infondato il pericolo di pregiudizio per i creditori oppure la società abbia prestato idonea garanzia, dispone che l’operazione abbia luogo nonostante l’opposizione”.

Dunque, anche in caso di riduzione reale del capitale, l’operazione può essere eseguita (o, meglio, “attuata” secondo i più) “soltanto dopo novanta giorni dal giorno dell’iscrizione nel registro delle imprese”.

In tema di riduzione reale anticipata, alcuni autori e sentenze di merito, sostengono la possibilità di anticipare la riduzione reale, purché vi sia il consenso dei creditori anteriori all’iscrizione della delibera (vedi A. Mazzoni, “Il nuovo diritto societario: commento al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6”, Giuffrè, Milano, 2004, p. 322-324) o siano stati saldati i creditori dissenzienti (vedi Tribunale di Milano, 12 febbraio 1988, in Giur. Comm., 1988, p. 1124).

Il CNN Studio n. 41-2016/I, Riduzione reale e attuazione anticipata con il consenso dei creditori, di Ruotolo-Boggiali ha chiarito che tale possibilità sarebbe giustificata dalla ratio delle norme di opposizione, tra cui rientra proprio l’art. 2503 c.c. previsto in tema di fusione, che mirano alla tutela dei creditori, anche mediante l’utilizzo di strumenti di tutela alternativi all’opposizione.

Più in dettaglio, in tutti questi casi, anche la ratio sottostante all’art. 2445 c.c. sarebbe quella di garantire che i creditori non subiscano un pregiudizio per via delle modifiche alla struttura patrimoniale della società e, di conseguenza, posto che il Legislatore ha previsto strumenti alternativi tutelanti i creditori all’art. 2503 c.c., tale orientamento sostiene che si potrebbe applicare in via analogica quest’ultimo articolo, consentendo, di conseguenza, di attuare anticipatamente la riduzione reale del capitale.

[6] G.F. Campobasso, “Diritto commerciale. Diritto delle società”, Utet, Torino, 2018, p. 460-462; M. Irrera, “Le operazioni sul capitale sociale”, Giuffrè, Milano, 2006, p. 214-216.

[7] Cass., 17 luglio 2006, n. 16347, in Giur. Comm., 2006, p. 876.

[8] In effetti, il Legislatore, nel caso di fusione, ha previsto una pubblicità preventiva legata all’iscrizione del progetto di fusione nel Registro delle Imprese, che consente ai creditori di opporsi entro un certo termine. Nel caso della riduzione del capitale, invece, non è prevista alcuna iscrizione simile a quella prevista, appunto, per il progetto di fusione.

In aggiunta, a parere di chi scrive, il fatto che il Legislatore abbia previsto, come si vedrà infra, un espresso richiamo della normativa regolante la fusione anticipata nelle norme previste in tema di scissione, significa che quello fissato all’art. 2503, comma 1, c.c. non possa ritenersi un principio generale, altrimenti tale richiamo alle norme della fusione non sarebbe stato necessario.

In altri termini, il richiamo dell’art, 2506 ter, comma 5, c.c. alle norme della fusione è stato ritenuto dal Legislatore quale doveroso in quanto, in caso contrario, l’operatore non avrebbe potuto applicare gli specifici strumenti di cui all’art. 2503, comma 1, c.c.

[9] Federico Magliuolo, La scissione delle società, p. 566

[10] Genghini, soc cap., pp. 1736-1737

[11] Federico Magliuolo, La scissione delle società, p. 573

[12] Federico Magliuolo, La scissione delle società, p. 573

[13] Genghini, soc cap., pp. 1609

Antonio D’Ausilio, Notaio in attesa di nomina

Il business plan nello Studio Notarile: strumento strategico per la crescita e il successo – di Dott. Michele D’Agnolo

Il business plan è uno strumento strategico e gestionale utilizzato in molteplici ambiti professionali per pianificare lo sviluppo di un’attività, definirne gli obiettivi e strutturare le risorse necessarie per il raggiungimento dei risultati desiderati. Negli ultimi anni, l’importanza di questo strumento si è estesa anche ad ambiti che tradizionalmente erano meno orientati alla gestione aziendale in senso stretto, come quello degli studi notarili.

Il business plan è un documento strategico di natura in parte contabile in parte descrittiva che delinea in modo dettagliato gli obiettivi di un’attività e le modalità con cui si intende raggiungerli. In sostanza, rappresenta una guida strutturata per gestire e sviluppare un’impresa, delineando gli aspetti finanziari, operativi, organizzativi e di mercato. Esso include solitamente un’analisi del contesto competitivo, una previsione economica e finanziaria, un piano di marketing e una strategia di crescita. Oltre a essere utile per pianificare le attività interne, il business plan è spesso richiesto dagli istituti di credito per valutare la sostenibilità economica di un progetto o di un’attività già avviata. Negli studi notarili, pur non trattandosi di imprese, il business plan fornisce una visione chiara e strategica per l’organizzazione dello studio e per il suo sviluppo futuro.

Invero, uno studio notarile si differenzia nettamente dalle imprese sia per la natura giuridica dell’attività svolta che per il tipo di relazioni con la clientela. Il notaio è un pubblico ufficiale, il cui ruolo è regolato dal diritto e la cui funzione primaria è garantire la certezza giuridica degli atti. Tuttavia, lo studio notarile è anche un’organizzazione economica che deve comunque garantire l’efficienza operativa, la sostenibilità economica e la qualità dei servizi erogati.

Gli studi notarili operano oggi in un mercato altamente competitivo, caratterizzato da una crescente richiesta di innovazione tecnologica e organizzativa. Di conseguenza, i notai sono chiamati non solo a svolgere il loro ruolo istituzionale, ma anche a gestire in modo efficace le risorse umane, i costi operativi e la strategia di crescita dello studio.

In questo contesto, il business plan assume un’importanza cruciale, sia per gli studi di nuova costituzione che per quelli già avviati.

Quando si avvia uno studio notarile, il business plan rappresenta uno strumento essenziale per delineare le strategie di posizionamento e per gestire i primi passi dell’attività. In un mercato regolamentato e particolarmente competitivo come quello notarile, la pianificazione accurata può fare la differenza tra un avvio di successo e un percorso accidentato.

Il business plan per un nuovo studio notarile dovrebbe includere:

– Analisi di mercato: valutare il territorio in cui si intende operare, la presenza di altri studi notarili, la domanda potenziale di servizi notarili, il tipo di clientela (privati, imprese, enti pubblici) anche per scegliere consapevolmente una adeguata collocazione geografica per lo studio.

– Piano finanziario: prevedere i costi iniziali, come l’allestimento dello studio, l’acquisto di strumenti tecnologici, la pubblicità e il personale. È inoltre importante stimare i ricavi previsti e il punto di pareggio (break-even point).

– Obiettivi strategici: definire gli obiettivi a breve e lungo termine, come il numero di atti da stipulare mensilmente, il consolidamento della base clienti e l’incremento del fatturato.

– Struttura organizzativa: pianificare la gestione delle risorse umane e il sistema di organizzazione interna, inclusi i ruoli del personale e la gestione dei processi operativi.

Avere un business plan ben strutturato consente ai notai di nuova nomina di avere una visione chiara su come gestire i primi anni di attività, riducendo i rischi e aumentando la possibilità di raggiungere stabilità economica in tempi più brevi.

Anche negli studi notarili già operativi, il business plan si rivela uno strumento fondamentale per il continuo sviluppo e miglioramento delle performance. In questo caso, il focus del piano non sarà tanto l’avvio dell’attività quanto la sua ottimizzazione e crescita.

Per uno studio già avviato, il business plan può concentrarsi su:

– Miglioramento dell’efficienza operativa: individuare aree di inefficienza o sprechi di risorse e proporre soluzioni per ottimizzare il tempo e i costi operativi. Questo può includere l’automazione di alcuni processi, l’introduzione di nuove tecnologie e la formazione del personale.

– Espansione dei servizi: identificare nuove opportunità di mercato, come l’introduzione di servizi innovativi che rispondano a cambiamenti normativi o nuove richieste della clientela.

– Pianificazione finanziaria e fiscale: monitorare costantemente le performance finanziarie dello studio e pianificare il futuro attraverso una gestione attenta delle risorse finanziarie e l’ottimizzazione fiscale.

– Sviluppo della clientela e marketing: il business plan può includere strategie di marketing mirate, volte a fidelizzare la clientela esistente e acquisire nuovi clienti. Questo può passare attraverso attività di networking, partecipazione a eventi professionali o collaborazioni con altri professionisti.

Un business plan aggiornato regolarmente aiuta il notaio già avviato a mantenere la direzione giusta e a operare con obiettivi chiari e formalizzati. È uno strumento di autovalutazione, che permette di verificare se lo studio sta andando nella direzione prevista e, in caso contrario, di intervenire tempestivamente per correggere eventuali deviazioni.

Come abbiamo visto, uno dei principali vantaggi del business plan, sia per uno studio di nuova costituzione che per uno già avviato, è la possibilità di operare con obiettivi pianificati e formalizzati. Questo permette di evitare l’improvvisazione, tipica di chi non ha una visione a lungo termine, e di operare invece con un approccio consapevole e strategico.

Tra i vantaggi specifici possiamo elencare:

– Approccio proattivo: lo studio notarile non accetta passivamente ciò che gli accade ma agisce in maniera coerente e focalizzata per ottenere i risultati desiderati.

– Chiarezza degli obiettivi: definire in modo chiaro quali sono gli obiettivi economici, operativi e strategici dello studio, consentendo al notaio di orientare le proprie decisioni e azioni quotidiane verso il loro raggiungimento.

– Gestione delle risorse: con un business plan è possibile allocare in modo più efficiente le risorse dello studio (finanziarie, tecnologiche, umane), riducendo gli sprechi e migliorando i risultati.

– Monitoraggio dei risultati: un piano d’azione dettagliato consente di monitorare costantemente i progressi dello studio e di apportare eventuali correzioni in corsa.

– Pianificazione economica e finanziaria: un aspetto cruciale per evitare crisi di liquidità o inefficienze nella gestione dei flussi finanziari.

– Previsione dei rischi: attraverso un’analisi accurata del mercato e della propria situazione, il business plan permette di identificare e prevenire eventuali rischi, gestendoli con piani di emergenza adeguati.

In conclusione, il business plan rappresenta uno strumento indispensabile per chiunque gestisca uno studio notarile, sia esso di nuova costituzione o già avviato. Pianificare in anticipo e con metodo consente di affrontare con maggiore sicurezza le sfide del mercato, di operare con obiettivi chiari e di garantire la crescita e la sostenibilità dello studio nel tempo. Lo studio notarile, benché inserito in un ambito fortemente regolato e caratterizzato da specificità giuridiche, può trarre notevoli benefici da un approccio manageriale strutturato, e il business plan è la chiave per tradurre questa visione in pratica.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Networ

Le agevolazioni fiscali per l’acquisto di fondi rustici- a cura Notaio Alessandra Magnocavallo

L’acquisto di terreni agricoli da parte di una persona (fisica o giuridica) che non gode di agevolazioni è soggetta all’imposta di registro del 15% (con un minimo di 1.000,00 euro) e alle imposte catastale e ipotecaria in misura fissa di euro 50,00 ciascuna.

La legge prevede alcune agevolazioni fiscali per l’acquisto di fondi agricoli da parte di coltivatori diretti e di imprenditori agricoli professionali, tutte riconducibili alla Piccola Proprietà Contadina (PPC) che, nonostante la definizione, oggi può essere utilizzata anche per l’acquisto di fondi di grande estensione.

L’agevolazione consente di effettuare trasferimenti a titolo oneroso di terreni agricoli pagando “solo” l’imposta catastale con l’aliquota dell’1% sul prezzo pattuito e di applicare le imposte di registro e ipotecaria nella misura fissa di 200,00 euro ciascuna; inoltre, vi è l’esenzione dall’imposta di bollo.

Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate ha stabilito che l’acquisto di terreni agricoli da parte di coltivatore diretto o IAP senza richiesta di agevolazione, pur avendone diritto, sconta l’imposta del 9% di registro (anziché del 15%).

Sono ammessi a godere delle agevolazioni gli atti di acquisto a titolo oneroso di terreni e di relative pertinenze, purché qualificati agricoli in base agli strumenti urbanistici. L’agevolazione si applica anche ai fabbricati, solo se situati sul medesimo terreno oggetto di acquisto.

L’agevolazione PPC compete a diversi soggetti, ovvero:

-a coltivatori diretti e ad imprenditori agricoli iscritti all’INPS nella relativa gestione previdenziale;

-al coniuge o ai parenti in linea retta di coltivatore diretto o imprenditore agricolo, purché già proprietari di terreni agricoli e conviventi con lui;

-ai familiari coadiuvanti del coltivatore diretto e appartenenti al suo nucleo familiare ed iscritti nella previdenza agricola come coltivatori diretti.

Con la legge di bilancio per il 2023 il legislatore ha stabilito che le agevolazioni previste per gli atti di trasferimento a titolo oneroso di terreni e relative pertinenze si applicano anche a favore di persone fisiche di età inferiore a quaranta anni che dichiarino nell’atto di trasferimento di voler conseguire, entro il termine di 24 mesi, l’iscrizione nell’apposita gestione previdenziale e assistenziale prevista per i coltivatori diretti e gli imprenditori agricoli professionali.

Si ricorda che per l’imprenditore agricolo professionale il legislatore nel 2004 ha stabilito che possono accedere ai trattamenti di favore previsti per l’imprenditore agricolo professionale anche i soggetti che tale qualifica non hanno ancora conseguito, a condizione che si iscrivano subito nella gestione previdenziale e assistenziale e presentino istanza di riconoscimento IAP e la conseguano nel biennio successivo.

Ora, il legislatore concede l’accesso ai benefici PPC anche ai soggetti di età inferiore ai 40 anni che intendano intraprendere l’attività agricola in qualità di coltivatore diretto e imprenditore agricolo e che conseguano l’iscrizione entro i successivi 24 mesi nella gestione previdenziale e assistenziale.

In sostanza, l’aspirante IAP under 40 può usufruire immediatamente delle agevolazioni e conseguire entro i successivi 24 mesi tanto i requisiti, quanto l’iscrizione nella gestione previdenziale.

Allo stesso modo per l’aspirante coltivatore under 40 la sussistenza dei requisiti di disponibilità del fondo e di forza lavoro (condizioni da dimostrare per l’iscrizione all’INPS) è posticipabile a 24 mesi dall’acquisto agevolato.

L’agevolazione comporta l’obbligo di condurre il fondo acquisito per almeno 5 anni e l’obbligo di mantenere la proprietà per almeno 5 anni.

L’inosservanza agli obblighi comporta la decadenza dalle agevolazioni con recupero dell’imposta e delle relative sanzioni.

Il legislatore, tuttavia, concede la possibilità di trasferire o affittare il terreno prima che siano decorsi 5 anni purché la cessione sia effettuata a favore del coniuge, di parenti entro il terzo grado o di affini che esercitino l’attività di imprenditore agricolo.

Peraltro, è doveroso ricordare che in caso di impedimenti giuridici alla coltivazione che non dipendono dalla volontà dell’acquirente (es: espropriazione per pubblica utilità – successione) non si decade dall’agevolazione.

Ci si chiede, ulteriormente, se possa usufruire dell’agevolazione colui che acquista un fondo ad esito di una procedura di esecuzione immobiliare in cui il fondo è già locato con affitto ultranovennale (contratto stipulato prima del pignoramento e scadente ben oltre i 5 anni dall’acquisto): l’impedimento giuridico alla coltivazione del fondo è, in tale fattispecie, preesistente all’acquisto e – quindi – alla richiesta di agevolazione. Pertanto, l’aggiudicatario non potrà di fatto coltivare il fondo e, dunque, non gli è consentito chiedere l’agevolazione (ma potrà, essendo IAP, scontare l’imposta del 9% e non la maggior imposta del 15%).

Alessandra Magnocavallo, Notaio in Brescia.

L’allegazione di un APE scaduto : talvolta (forse) si può fare – di Notaio Ugo Bechini

Si potrebbe sospettare che io sia ossessionato dalle scadenze, visto che ripetutamente mi sono già occupato, anche su queste pagine, della scadenza dei documenti firmati digitalmente. Può essere; mi incuriosisce in effetti come un fenomeno apparentemente così semplice possa celare logiche anche relativamente complesse.

L’APE, dunque. La funzione dell’attestato in sede di compravendita è ben identificabile: permettere ai potenziali acquirenti di confrontare gli immobili offerti (l’articolo 11 della direttiva 31 del 2010 parla espressamente di raffronto). L’obiettivo è quello di incentivare gli acquirenti a preferire gli immobili a migliore prestazione energetica, spingendo così il mercato in una direzione virtuosa. Di qui l’obbligo di inserire la classe energetica nella pubblicità, di porre a disposizione dei potenziali acquirenti l’attestato all’inizio delle trattative e di consegnarlo alla fine delle medesime.

Immaginiamo dunque che l’attestato scada tra il preliminare (che indiscutibilmente rappresenta la fine delle trattative) ed il definitivo. Ipotesi non più così improbabile: se qualcuno pone sul mercato un immobile acquistato 9 anni e mezzo fa, facilissimo che accada. Che fare?

A me sembra che l’attestato abbia ultimato la sua funzione. Deve guidare l’acquirente verso una scelta informata; a decisione presa, functus est munere suo. Se il preliminare ha data certa, e l’attestato era in quel momento valido, non vedo perché non si possa allegarlo al definitivo anche se successivamente scaduto: si documenterà così, molto semplicemente, che il certificato c’era quando doveva esserci. D’altronde, non ci si può certo rifiutare di saldare gli addebiti su una carta di credito solo perché nel frattempo è scaduta.

L’alternativa? Far predisporre un nuovo attestato, tra preliminare e definitivo. Xe pèso el tacòn del buso, per dirla alla veneta. Come si può onestamente sostenere che l’acquirente sia guidato nella sua scelta da un nuovo attestato emesso a preliminare firmato, caparra versata, articolo 2932 pronto a far fuoco? È uno sterile rituale. Intendiamoci: non mi voglio mettere di traverso. Visto che solo la mancata allegazione è sanzionata, che rituale sia, anche se sono dell’opinione che se ne potrebbe fare a meno (s’intende: se l’attestato c’era, durante le trattative, e chiudo qui l’accenno).

Di questo tema si è molto brevemente discusso nella lista di discussione dei notai genovesi, Notai Ponte, che sono felice ed onorato di aver a suo tempo tenuto a battesimo, da presidente del Distretto. Come si conviene, nessuno ha approvato la mia idea. Nemo propheta.

Un argomento che mi è stato autorevolmente opposto è che l’attestato contribuisce a meglio descrivere l’oggetto del contratto, funzione che trova il suo massimo rilievo proprio al definitivo. Secondo la buona tecnica legislativa europea la Direttiva, che come ben sappiamo domina l’interpretazione delle norme attuative, rende trasparenti i propri obiettivi nei Considerando iniziali; non vi scorgo alcun indizio di tale ulteriore funzione. Non mi sembra, per altro verso, che gli attestati aggiungano granché all’identificazione dell’immobile trasferito, designazione precisa delle cose che formano oggetto dell’atto, in modo da non potersi scambiare con altre, per dirla con la cara vecchia legge del 1913. Ne indicano una qualità, certo, ma la normativa è più che limpida sul fatto che tale qualità rilevi in fase di trattativa.

La Direttiva 31 del 2010, articolo 12, prevede che l’attestato sia mostrato al potenziale acquirente o nuovo locatario e consegnato all’acquirente o al nuovo locatario; non parla di allegazione. Per amor di discussione, ammettiamo pure che il legislatore nazionale l’abbia disposta non solo (come invece credo) quale strumento ausiliario di enforcement, ma anche per rendere più completa la descrizione dei beni. Sarebbe però davvero difficile spiegare perché restino escluse dall’obbligo di allegazione le donazioni, relativamente alle quali l’ordinamento mi pare manifesti (778/782 cc, ad esempio) un’attenzione rinforzata (e comunque certo non attenuata) al profilo dell’identificazione e descrizione dei beni. L’esclusione delle donazioni testimonia semmai come tutta la faccenda dell’Attestato sia a presidio di un meccanismo puramente economico, che per sua natura attiene alla fase delle trattative e non al definitivo.

Ugo Bechini, Notaio in Genova

Progettare il sistema di valutazione del personale nello studio notarile – di Dott.ssa Anna Lisa Copetto

In un contesto così complesso e delicato come quello dello studio notarile, dove precisione, competenza e affidabilità sono fondamentali ai fini della qualità del servizio erogato, le persone e le competenze sono il principale asset strategico principale. Avere una policy di gestione delle risorse umane che contempli un sistema di valutazione del personale efficace è imprescindibile.

Cos’è la valutazione del personale.

La valutazione del personale è un processo sistemico finalizzato a individuare eventuali scostamenti tra la performance della persona e ciò che lo studio desidera o necessita da quella persona. Lo scostamento, positivo o negativo, indirizzerà le risorse dello studio verso una strategia mirata di miglioramento e di valorizzazione della persona e dello studio nel suo complesso.

Gli obiettivi valutazione del personale

La progettazione di un buon sistema di valutazione del personale passa da una chiara definizione degli obiettivi che ci si vuole porre.  Gli obiettivi perseguibili possono essere molteplici e combinabili tra loro: migliorare le prestazioni, mappare le competenze per verificare eventuali opportunità di sviluppo di nuovi servizi, pianificare piani di crescita interna, favorire il passaggio generazionale, ridurre il turnover, aumentare la produttività, ecc.

L’oggetto della valutazione

In funzione degli obiettivi, andrà definito l’oggetto della valutazione: competenze, prestazioni, comportamenti, potenziale, attitudini, ecc. Ad esempio, se l’obiettivo è di vagliare la possibilità di sviluppare l’area societaria, l’oggetto della valutazione potrà essere la competenza posseduta (ancorché non esercitata).

Frequenza di valutazione

Occorrerò quindi decidere in merito alla frequenza con cui effettuare le valutazioni. Si potrà scegliere tra valutazioni annuali, semestrali, mensili, fino ad arrivare a valutazioni quotidiane, con molte possibilità intermedie. La scelta dipenderà molto dalle disponibilità di risorse e tempo che lo studio potrà dedicare alla raccolta e analisi dei dati. Valutazioni più frequenti sono più costose ma permettono di intercettare tempestivamente eventuali problemi e di intervenire più rapidamente. Viceversa, valutazioni meno frequenti favoriscono una più ampia visione d’insieme.

Valutato e valutatore

Un altro tema riguarda la scelta del valutato e del valutatore. La valutazione potrà riguardare indistintamente tutto lo staff dello studio, solo alcune aree (area atti immobiliari, ad esempio), oppure ancora solo categorie specifiche di lavoratori (solo i dipendenti, ad esempio), solo singole persone. Per quanto concerne il ruolo di valutatore, solitamente è assegnato al Notaio stesso oppure ad una figura responsabile. Possono tuttavia essere esplorate altre possibilità: colleghi, subordinati e perfino i clienti e il valutato stesso.

Criteri di valutazione

Per monitorare il risultato delle valutazioni potrebbe essere utile stabilire dei KPI coerenti con l’oggetto dell’assesment. Ad esempio, se voglio monitorare la produttività dell’area “adempimenti post stipula”, potrebbe essere utile calcolare il tempo medio di esecuzione degli adempimenti per ciascun atto nell’anno. Oppure si potrebbe ragionare in termini di obiettivi da assegnare al personale, andando quindi a valutare se e in che misura sono stati raggiunti.

Feedback

Il risultato della valutazione e le azioni che lo studio intende avviare in funzione di esso devono essere il più possibile condiviso con le persone interessate, per farle sentire parte attiva di un percorso di miglioramento più ampio. È importante quindi definire come (colloqui individuali, riunioni plenarie, de visu, per iscritto, ecc.), quando (costantemente, periodicamente, annualmente) e da chi (Notaio o suo delegato).

Attenzione!

Affinché possa essere efficace, il sistema di valutazione del personale deve essere percepito come vantaggioso per tutti. È importante quindi non prestare il fianco a fraintendimenti: non dovrà essere interpretata dal valutatore come strumento per stanare e punire i nullafacenti né dal valutato come uno strumento di controllo e ritorsione. Il rischio è che si trasformi in un boomerang. Una valutazione percepita come ingiusta può essere infatti motivo di abbandono dello studio da parte della risorsa interessata. Al contrario, sentire che lo studio valuta equamente il proprio lavoro e che si mette a disposizione per superare eventuali difficoltà (con delle azioni formative mirate, ad esempio) o che valorizza e premia i comportamenti virtuosi (con dei premi, ad esempio) favorisce la permanenza dei talenti migliori. Che sappiamo essere sempre più rari.

 

La progettazione di un sistema di valutazione del personale

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network

 

Assicurazione sulla vita a favore di terzo e designazione del beneficiario- a cura Notaio Vincenzo Spadola

In generale.

Il contraente di un’assicurazione sulla vita può stipulare a proprio favore, riservando a sé o al proprio patrimonio il diritto all’indennità assicurativa, anche nell’assicurazione per il caso di morte nel qual caso l’indennità assicurativa incrementa il patrimonio ereditario.

Tuttavia l’assicurazione può essere validamente stipulata anche a favore di terzo (articolo 1920 Codice Civile); in questa ipotesi l’indennità spetta al terzo beneficiario in applicazione del generale principio della validità del contratto a favore di terzo sempre che il terzo riceva solo un vantaggio.

Qualunque soggetto diverso dal contraente può essere designato quale beneficiario.

L’acquisto del diritto da parte del terzo discende dalla designazione pur avendo fonte contrattuale.

Quando il contraente ha omesso di fare la designazione o ha revocato una designazione già fatta senza sostituirla oppure manca una valida designazione o il terzo rifiuta il beneficio, il diritto alla somma assicurata entra a far parte del patrimonio del contraente e si trasferisce ai suoi eredi.

La stipulazione assicurativa a favore di terzo può avere causa gratuita od onerosa (per esempio corrispettivo di un più ampio assetto negoziale oppure solutoria di una pregressa passività).

La designazione donandi causa ha natura di donazione indiretta: mediante il pagamento dei premi si perviene alla corresponsione della somma assicurata al beneficiario.

In quanto donazione indiretta essa è suscettibile di riduzione (articolo 1923): la relativa azione ha per oggetto non l’indennità pagata al beneficiario (non è questa la somma uscita dal patrimonio del donante) bensì l’ammontare complessivo dei premi assicurativi pagati in vita, i quali soli costituiscono l’unico depauperamento che si verifica nel patrimonio del contraente (Tribunale Bologna 23.5.2001, Tribunale Padova 19 settembre 2014; Cassazione 6531/2006).

Nel rapporto tra beneficiario e assicuratore l’attribuzione della somma assicurata ha sempre luogo a titolo oneroso quale corrispettivo dei premi erogati.

La designazione del beneficiario.

La designazione può essere contestuale alla stipula del contratto o successiva purché anteriore alla verificazione dell’evento assicurato.

La designazione successiva può essere fatta:

  • con dichiarazione scritta comunicata all’assicuratore;
  • per testamento; equivale a designazione l’attribuzione della somma assicurata fatta per testamento a favore di persona determinata.

Le forme predette sono tassative ma le parti nel contratto possono liberamente modificarne la previsione escludendo taluna delle forme previste o aggiungendone di nuove.

La designazione è:

  1.  negozio unilaterale; non necessita di accettazione da parte dell’assicuratore o del beneficiario; per Cassazione 4833/1978 è sufficiente che l’atto sia stato indirizzato inequivocabilmente all’assicuratore e sia concretamente pervenuto a quest’ultimo, anche se dopo la morte del primo e pure ad opera di terzi;
  2.  non recettizia; è valida anche se non comunicata all’assicuratore o al beneficiario (la comunicazione è requisito di efficacia e non di validità del negozio); è efficace anche la comunicazione successiva alla morte del contraente; il Tribunale di Bologna con sentenza 17.3.1964 ha stabilito che la designazione del beneficiario, effettuata in sede di separazione coniugale, costituisce designazione irrevocabile anche se il relativo verbale non venga notificato all’assicuratore; il Tribunale di Roma con sentenza 27.3.1946 ha precisato che la comunicazione all’assicuratore della designazione, successiva alla conclusione del contratto, rappresenta esclusivamente una condizione per il conseguimento da parte del beneficiario dei vantaggi derivanti dal rapporto assicurativo; in senso opposto si è pronunciato il Tribunale di Roma con sentenza 31.7.1970 per il quale la designazione acquista rilevanza giuridica esterna solo tramite la comunicazione all’assicuratore; comunicazione da compiersi ad iniziativa del dichiarante;
  3. negozio inter vivos (pur se contenuta in un testamento), in quanto atto con cui il contraente individua il beneficiario di un contratto tra vivi senza disporre di un proprio diritto a titolo di eredità o di legato.

Per la Cassazione 93/1953 è valida la designazione in un testamento olografo contenente quale unica disposizione la designazione del beneficiario.

Il Tribunale di La Spezia con sentenza 26.6.1953 ha ritenuto valida la designazione contenuta in una lettera indirizzata all’assicuratore, tanto più quando la lettera presenti tutti i requisiti formali dell’olografo.

Il Tribunale di Palermo 22.1.2003, decidendo un caso di designazione testamentaria successiva a designazione contrattuale e con essa contrastante, ha stabilito che in caso di pluralità di designazioni successive non tutte comunicate va accordata prevalenza a quella cronologicamente successiva.

Per Cassazione 6062/1998 il fatto che il beneficiario non abbia avuto conoscenza della designazione non è idoneo a sospendere la prescrizione breve annuale; né l’assicuratore è tenuto a notificare al beneficiario la maturazione del suo diritto.

Contenuto della designazione.

E’ consentita la designazione generica: è sufficiente che il beneficiario possa essere individuato per relationem, quindi costituisce valida designazione l’uso delle ricorrenti espressioni “agli eredi”, “agli eredi legittimi”, “agli eredi testamentari”.

         In tali casi la somma assicurata spetta a chi, alla morte dell’assicurato, risulti erede per legge o per testamento; il riferimento alla qualità di erede vale solo al fine di individuare la persona del beneficiario ed è irrilevante l’acquisto o meno dell’eredità nel caso concreto trattandosi, con riferimento al diritto del beneficiario, di un diritto avente fonte contrattuale e non ereditaria.

A tale proposito le sentenze della Cassazione 4484/1996, 25.635/2018, Sezioni Unite 11421/2021 hanno precisato che la designazione generica degli “eredi” come beneficiari comporta l’acquisto del diritto da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione. Non rileva se il chiamato accetta o rinuncia al fine della determinazione concreta dell’avente diritto. Inoltre, in difetto di una diversa volontà del contraente, la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto avviene in parti uguali e non secondo le quote ereditarie.

Quest’ultimo assunto si rinviene già nelle sentenze della Cassazione 9388/1994 e dei Tribunali di Lamezia Terme 24.7.1978 e di Roma 18.3.2004,  per le quali, in presenza di una pluralità di beneficiari, dovrà farsi luogo alla ripartizione della somma assicurata per quote eguali e non secondo i criteri ereditari.

Il Tribunale di Lamezia Terme 24.7.1978 ha escluso la legittimazione attiva della curatela dell’eredità giacente a percepire il capitale spettante agli eredi beneficiari.

I Tribunali di Torino con sentenza 21.5.1959 e di Alba con sentenza 15.2.1967 hanno escluso che l’espressione eredi legittimi, da intendersi nel suo preciso significato tecnico, possa comprendere i legatari.

Quanto alle formule “ai miei figli” oppure “a mia moglie”, esse sono prevalentemente interpretate nel senso che occorra avere riguardo a chi rivestiva le rispettive qualità all’epoca della designazione e non della morte.

La designazione del proprio coniuge quale beneficiario deve intendersi riferibile all’unito civilmente che, nella sostanza, riveste lo stesso ruolo di un coniuge.

Il diritto del terzo beneficiario.

Il beneficiario acquista, senza necessità di accettazione, un diritto proprio e autonomo.

         Di conseguenza, in caso di morte di uno dei beneficiari, il diritto all’indennizzo si trasmette ai suoi eredi e non si accresce agli altri beneficiari (Cassazione 4851/1980; Cassazione 9388/1994; Cassazione 4484/1996; Cassazione 9948/2021; Cassazione 11101/2023).

         L’autonomia del diritto del beneficiario e la sua estraneità rispetto al patrimonio del contraente comportano talune rilevanti conseguenze:

  • la somma assicurata non può essere aggredita dai creditori e dagli eredi del contraente;
  • la capacità del beneficiario deve sussistere al momento della realizzazione del diritto;
  • l’azione di adempimento contrattuale deve essere esperita dal beneficiario (non dal contraente o dai suoi eredi);
  • l’assicuratore può opporre al terzo le eccezioni personali al terzo medesimo e quelle obiettivamente fondate sul contratto, mai le eccezioni personali al contraente.

Non possono essere imposti obblighi primari a carico del beneficiario ma solo oneri e obblighi secondari o previsti per legge. Pertanto:

  • il diritto del beneficiario è soggetto al termine prescrizionale di due anni e non all’ordinario termine decennale (articolo 2952 Codice Civile);
  • sono opponibili al beneficiario: clausola derogativa del foro territoriale; l’annullabilità del contratto conseguente a dichiarazioni inesatte o reticenti (Cassazione 1779/77); in generale le eccezioni e le altre clausole limitative previste dal contratto.

Casi particolari:

il contratto è originariamente stipulato a favore dello stesso contraente o del suo patrimonio; il terzo, successivamente designato nel testamento, acquista un diritto non originario e autonomo bensì derivato dal patrimonio del contraente e a titolo successorio.

La premorienza o commorienza del beneficiario rispetto al contraente comporta la trasmissione del diritto al capitale assicurato a favore degli eredi dello stesso beneficiario (Cassazione 948/21).

La revoca della designazione.

La designazione è sempre revocabile (articolo 1921 Codice Civile), sia espressamente sia implicitamente mediante nuova e diversa designazione incompatibile con la precedente.

La designazione, anche se irrevocabile, non ha effetto qualora il beneficiario attenti alla vita del beneficiario. L’assicuratore dovrà pagare agli altri beneficiari, se designati, o agli eredi del contraente.

Per attentato deve intendersi il tentativo di omicidio volontario; non rileva l’atto colposo con cui il beneficiario abbia messo in pericolo la vita dell’assicurato

La designazione irrevocabile può essere revocata se fatta a titolo di liberalità e se ricorrono i casi, previsti in tema di donazione, di ingratitudine e sopravvenienza di figli.

Vincenzo Spadola,  Notaio in Parma.

Tassazione di “eventuali” conguagli nella divisione ereditaria in funzione dell’istituto della collazione – di Notaio Roberto Santarpia

Il contenuto del presente articolo scaturisce, come sempre, da riflessioni che occorre a noi notai effettuare, in modo anche “ossessivo”, pressati dall’esigenza di compiere al meglio la nostra professione lì dove, come sempre, i dubbi maggiori riguardano la tassazione dell’atto da parte di una ondivaga Amministrazione Finanziaria che a volte esegue “revirement” pretendendo imposte quando in altri casi omogenei non ha preteso.

Il caso consiste nel dover procedere ad una divisione ereditaria tra condividenti con obbligo di collazione di quanto donato dall’eriditando ad uno di loro, poiché facente parte della schiera di soggetti che il codice civile indica essere tenuti alla stessa (art. 737 c.c.), in mancanza di dispensa dalla medesima collazione da parte del donante.

Ora l’istituto della collazione ha lo scopo ravvisabile nell’intento di condurre, in sede di divisione ereditaria, ad una equiparazione tra le posizioni giuridico patrimoniali dei figli e discendenti del de cuius e quindi l’effetto di assicurare la parità di trattamento tra questi soggetti.

Quindi in buona sostanza chi è tenuto alla collazione deve conferire alla massa ereditaria quanto a lui donato al fine di realizzare l’uguaglianza tra coeredi in sede divisoria e quindi ad apporzionare loro in sede divisoria con beni il cui valore sia tale che, addizionato a quanto già ricevuto con liberalità inter vivos, detto valore sia ragguagliato alla di loro quota ideale quali compartecipi della comunione ereditaria.

Valga un esempio a miglior chiarimento: eredi ab intestato: tre figli (il cui nome tanto per cambiare è) Primo, Secondo e Terzo; quota di diritto: un terzo ciascuno; massa relitta valore euro 900.000; quota di fatto a ciascuno spettante in sede divisoria pari ad euro 300.000 ciascuno. Nel caso però in cui uno dei figli (Primo) abbia ricevuto una donazione dall’ereditando il cui valore è pari ad euro 300.000, senza dispensa dalla collazione, il valore della massa ereditaria a dividersi deve essere assunto in euro 1.200.000, la quota di un terzo di diritto spettante a ciascuno è quindi pari a euro 400.000, per cui al figlio Primo spetteranno in sede divisoria beni il cui valore sia pari a 100.000 e non pari a 300.000 ed agli altri due figli beni il cui valore sia pari ad euro 400.000 per ciascuno; il tutto senza dimenticare che la dispensa da collazione ha effetto solo per la quota disponibile come peraltro nel nostro caso.

Piccolo prologo propedeutico per la tassazione: L’art. 34 del TUR stabilisce che: «La massa comune è costituita nelle comunioni ereditarie dal valore, riferito alla data della divisione, dell’asse ereditario netto determinato a norma dell’imposta di successione…» quindi l’istituto della collazione non rileva in alcun modo nella determinazione del valore imponibile dell’asse ereditario (che rimane 1% della massa relitta) in quanto finalizzato ad una corretta applicazione delle imposte da liquidare in relazione alla connessa e consequenziale fattispecie divisoria (conguaglio esistente o meno). Quindi non bisogna sovrapporre due concetti affatto diversi, quali quello di ‘massa di computo’ (vedi 900.000 o 1.200.000) da un lato e di ‘base imponibile’ dall’altro (sempre 900.000) perché i 300.000 della donazione hanno già precedentemente scontato imposta.

Ora qualora i tre eredi avessero intenzione di attribuirsi i beni relitti in misura non paritetica (ad es per i valori sopra menzionati: a Primo 100.000 e a Secondo e Terzo euro 400.000 ciascuno) sarà addirittura necessario che il bravo notaio evidenzi la donazione a collazionarsi suddetta per evitare che la Amministrazione finanziaria tassi con aliquota proporzionale, propria dei trasferimenti immobiliari, la differenza di valore avuta (apparentemente) in meno da Primo a beneficio degli altri due condividenti, facendo computo solo con i beni relitti. Ma se i tre soggetti condividenti volessero invece attribuirsi tra loro comunque i beni relitti per un valore paritetico (300.000 euro per ciascuno) e non  menzionassero a tale scopo la donazione fatta a Primo, priva di dispensa da collazione, mostrando apparentemente equivalenza tra quota di diritto e quota di fatto, allora l’amministrazione finanziaria, se si avvedesse dell’esistenza della detta donazione, potrebbe far valere -ex converso- questa differenza di valore delle attribuzioni patrimoniali rispetto al valore della quota di diritto che sarebbe comunque pari a 400.000 euro (infatti Primo riceve 600.000 euro poiché prende 300.000 dai beni relitti e 300.000 dal bene donato) in relazione al fatto che a Primo comunque doveva essere attribuito bene di valore minore (100.000 a cui doveva addizionare i 300.000 già ricevuti in donazione). Il tutto sorprenderebbe, immagino, noi operatori del diritto che spesso abbiamo effettuato (io per primo) divisioni senza evidenziare la precedente donazione soggetta a collazione, se non altro (senza mala fede), perché ci era sfuggito che esisteva precedente donazione a collazionarsi e la cosa a dire il vero è sempre andata per il giusto verso.

Tutto quanto detto ha lo scopo di porre un alert, di richiamare, cioè, l’attenzione di noi notai richiesti di effettuare divisioni ereditarie, di verificare se sussistano o meno donazioni con le caratteristiche sopra evidenziate per evitare inaspettate e spiacevoli sorprese di tassazione proporzionale (sul montante di 200.000 euro costituente la differenza che Primo ha avuto in più) casi che sino ad oggi fortunatamente si sono rivelati rari.

Ora si potrebbe pensare di ovviare alla possibile tassazione del conguaglio (scaturente dal fatto che Primo ha preso 600.000 invece di 400.000) pensando ad una possibile rinuncia alla collazione da parte dei condividenti (non donatari) a cui beneficio andava la mancata dispensa da collazione, come sicuramente possibile e come ammesso da Cassazione (29 sett. 2017 num. 22911) con la conseguenza che la massa a dividersi torna ad essere 900.000 e non più 1.200.000, ognuno prende beni per 300.000 euro (pariteticità tra quota di fatto e di diritto) e Primo trattiene per sé il bene donato che vale 300.000 euro non dovendolo collazionare alla massa.

Ma a questo punto mi sorge il dubbio (più tartassante di quello amletico come accennavo nell’incipit del presente scritto) che si possa legittimamente associare e parificare sul piano degli effetti la rinuncia a valersi della collazione (da parte di Secondo e Terzo) (secondo Burdese, infatti, si tratterebbe di un diritto potestativo) con la rinuncia a valersi del conguaglio che gli stessi potrebbero effettuare in sede divisoria. Difatti abbiamo i medesimi presupposti per la divisione: tre fratelli, assenza di testamento, beni relitti per 900.000 euro, bene donato a Primo senza dispensa da collazione per euro 300.000 e quindi -sunteggiando vedi sopra- a Primo dovrebbero andare beni per 100.000 e a Secondo e Terzo beni per 400.000 ciascuno al fine di evitare differenze di valore tra quote di fatto e quota di diritto e quindi evitare conguagli con conseguente tassazione al 9% per la differenza. Se dividessero comunque, d’accordo tra loro, assegnandosi beni per 300.000 euro per ciascuno, Primo andrebbe a prendere 600.000 euro invece di 400.000 euro e dovrebbe di conseguenza elargire euro 200.000 (100.000 per ciascuno) a Secondo e Terzo per parificare le quote di fatto con la quota di diritto di tutti. La rinuncia a percepire conguaglio da parte di Secondo e Terzo, non eviterebbe però, per costante dottrina e giurisprudenza, la tassazione del medesimo al 9%. Infatti, NELLA DIVISIONE IL COGUAGLIO E’ TASSATO COME VENDITA ANCHE SE VI E’ RINUNZIA COME LIBERALITA’. Secondo la Cassazione (ordinanza 1 dicembre 2020, n. 27409, sez. V) l’eccedenza di valore dei beni assegnati rispetto alla quota sulla massa comune (c.d. conguaglio) è invariabilmente sottoposta al trattamento tributario della compravendita, non rilevando che i condividenti che ricevono di più rinunzino, per spirito di liberalità, verso un corrispettivo o a scopo di adempimento, a ricevere una prestazione pecuniaria in quanto l’art.34 del T.U.R., pone una presunzione assoluta (iuris et de iure), in forza della quale l’eccedenza “è considerata vendita limitatamente alla parte eccedente”.

E ancora: “Ai fini dell’imposta di registro Il conguaglio scaturente da una divisione immobiliare deve essere tassato, con le aliquote previste per i trasferimenti, anche se il soggetto, avente diritto al conguaglio, rinuncia a riceverlo per spirito di liberalità”. Principio confermato dalla Corte di cassazione con le sentenze n. 4858, 4871, 4878 e 4884 tutte del 23 febbraio 2024.

Ancora vedasi Risposta ad interpello A. E.  452 / 2021 che riprende cass 28 marzo 2018, n. 7606: Inoltre, con citata la sentenza della Cassazione n. 20119 del 2012, è stato affermato che “Le assegnazioni che hanno luogo nella divisione di beni mobili o immobili non sono considerate traslative di proprietà dei beni assegnati se il condividente riceva una quota corrispondente ai suoi diritti; se, invece, vi è conguaglio, o la quota assegnata è superiore a quella spettante, la divisione, in relazione al conguaglio o al maggiore assegno, è considerata a carattere traslativo e come tale soggetta al tributo proporzionale. Ne deriva che l’Ufficio del Registro, al fine di procedere all’accertamento del tributo, debba sottoporre a giudizio di valore l’intero compendio oggetto della divisione per effettuare il raffronto proporzionale della quota assegnata rispetto al tutto, in relazione alla quota di comproprietà spettante.

Allora se i tre condividenti decidessero di evitare l’insorgere del conguaglio a monte e non a valle e cioè rinunciando alla (agli effetti della) collazione che parificherebbe in sede divisoria le quote di fatto (300.000 euro per ciascuno) con le quote di diritto non dovendosi più prendere in considerazione nella massa divisoria il bene donato, non equivarrebbe ciò in toto a rinunciare alla attribuzione della differenza di valore loro spettante (a Secondo e a Terzo) come se stessero rinunciando al conguaglio che sorgerebbe invece a valle se non rinunciassero alla collazione e quindi con massa computata includendo il bene donato?

Conseguenza: rinunciano alla collazione (Secondo e Terzo) ma non evitano che questa rinuncia possa evitare la tassazione del plusvalore avuto in più da Primo, cosa che non avverrebbe nel caso in cui la collazione non sorgesse affatto per dispensa fatta dal donante in vita: qui la collazione sorge ex lege al momento della apertura della successione e viene rinunciata (negli effetti) dai beneficiari della stessa.

Spero che tutte queste mie considerazioni rimangano di interesse puramente tecnico giuridico e non ricadano mai in casi pratici, ma visti i tempi correnti nei quali l’Amministrazione Finanziaria sta cercando (mi si passi la licenza partenopea che rappresenta più che mai una adeguatissima metafora) “paglia per cento cavalli” mi soccorre l’esigenza di accendere questo faro sul tema divisione ereditaria.

Roberto Santarpia,  Notaio in Orzinuovi.