Imposta di successione in caso di eredità giacente – di Notaio Barbara Bosso de Cardona

SENTENZA DEL 27/09/2023 N. 2867/1 – CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA DI SECONDO GRADO DELLA LOMBARDIA

Massima

Il curatore dell’eredità giacente può essere considerato esclusivamente detentore dei beni dell’asse ereditario al fine di adempiere a una serie di obblighi amministrativi e dichiarativi, ma non possessore nemmeno temporaneo degli stessi. Di conseguenza difetta a monte, in capo al curatore dell’eredità giacente, il “presupposto impositivo diretto”. In base a tale ragionamento la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia ha respinto l’appello dell’Ufficio e ritenuto non dovuta l’imposta di successione. Nel caso di specie, peraltro, pur volendo aderire alla tesi prospettata dall’Amministrazione finanziaria, il de cuius era privo di eredi e l’asse ereditario aveva valore negativo per cui non era dovuta alcuna imposta.

Sentenza

Testo:

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il contenzioso ha ad oggetto un avviso di liquidazione emesso per imposte di successione (ipotecaria, catastale, bollo) a seguito del decesso di xxxx e subentro della curatela dell’eredità giacente (con nomina del Tribunale, sez. Volontaria Giurisdizione).

Il merito della questione (tralasciando una serie di eccezioni preliminari pure poste) è che la curatela ritiene non dovuto alcunché perché non ci sono eredi e l’asse ereditario è negativo per ? 217.000; per di più il curatore si limita alla amministrazione dei beni ma non ne ha il possesso sicché manca, a suo dire, il presupposto impositivo. L’Ufficio sostiene invece che se è vero che i soggetti passivi dell’imposta siano gli eredi e chi presenta la dichiarazione di successione, è altrettanto vero che i curatori dell’eredità giacente sono immessi nel possesso temporaneo dei beni sicché, dal punto di vista fiscale, il curatore è nel possesso dei beni che amministra.

La CTP ha accolto il ricorso ritenendo che il curatore dell’eredità giacente non possa essere ritenuto responsabile del pagamento delle imposte di successione, bollo, ipotecarie e catastali o di tutti i tributi riferibili alla massa ereditaria in attesa di assegnazione. Ciò perché: si limita ad amministrare i beni, non è nel possesso dei beni, nessun trasferimento di ricchezza si è verificato a suo favore. Ne consegue che manca la soggettività passiva di imposta. Le spese sono state compensate.

Propone appello l’ufficio. Ripercorre e analizza l’istituto della curatela dell’eredità giacente e sottolinea che i curatori hanno specifici obblighi anche fiscali fra cui il pagamento dell’imposta di successione, in quanto il curatore è obbligato e presentare la dichiarazione di successione ed è indicato ex lege come responsabile solidale dell’imposta, anche se non è propriamente il soggetto passivo che è invece l’erede che accetta. A dire dell’ufficio l’inesistenza di chiamati all’eredità e l’avere indicato nella dichiarazione di successione lo Stato come beneficiario non comporta l’automatico esonero dal versamento perché ciò può ritenersi definitivo solo alla scadenza del termine di 10 anni dall’apertura della successione. Si richiama una sentenza della CTP di Milano che ha confermato che il curatore deve pagare anche se è indicato lo Stato come beneficiario (n. 1499/2022). Quanto al presupposto impositivo, in ambito tributario il curatore deve intendersi fiscalmente possessore dei bei che amministra.

Si è costituita la curatela dell’eredità giacente chiedendo la conferma della sentenza di primo grado.

Ha depositato successiva memoria l’ufficio per evidenziare ulteriore giurisprudenza di merito a sé favorevole anche di secondo grado di questa Corte di II (2488/2023).

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’appello dell’Ufficio è infondato e, pertanto, non merita accoglimento, con conseguente doverosa conferma della decisione di primo grado.

Anzitutto occorre ricordare che, per consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, il giudice, nel motivare “concisamente” la sentenza secondo i dettami di cui all’art. 118 disp. att. cpc, non è tenuto ad esaminare specificamente ed analiticamente tutte le questioni sollevate dalle parti, ben potendosi limitare alla trattazione delle sole questioni, di fatto e di diritto, considerate rilevanti ai fini della decisione concretamente adottata. Ne consegue che quelle residue, non trattate in modo esplicito, non devono necessariamente essere ritenute come “omesse”, per effetto di “error in procedendo”, ben potendo esse risultare semplicemente assorbite (ovvero superate) per incompatibilità logico- giuridica con quanto concretamente ritenuto provato. Alla luce di quanto appena ricordato, si deve quindi precisare che la trattazione sarà in questa sede limitata all’approfondimento delle sole questioni rilevanti e dirimenti ai fini del decidere; ritenendosi quindi assorbite tutte le altre eccezioni e questioni. E ciò in applicazione del principio della cosiddetta ‘ragione più liquida’ desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., ulteriormente valorizzato e confermato dalla Suprema Corte (Cass. Civ., ord. n. 26214/2022; Cass. Civ., ord. n. 9309/2020; Cass. Civ., ord. n. 363/2019; Cass. Civ., ord. n. 11458/2018; Cass. Civ. SSUU sentenza n. 24883/2008; Cass. Civ. n. 26242/2014 e Cass. Civ. n. 9936/2014).

Ai sensi dell’articolo 5 del D. Lgs. 31.10.1990, n. 346 (TUS), i soggetti passivi dell’imposta sono gli eredi; ai sensi del successivo articolo 28, comma 2, l’obbligo di presentazione della dichiarazione di successione grava sui soggetti chiamati all’eredità, i legatari, ovvero i loro rappresentanti legali, gli immessi nel possesso temporaneo dei beni dell’assente, gli amministratori dell’eredità, i curatori delle eredità giacenti, gli esecutori testamentari. Quanto al pagamento delle imposte di successione, l’articolo 36 del TUS stabilisce che “Fino a quando l’eredità non sia stata accettata, o non sia stata accettata da tutti i chiamati, i chiamati all’eredità, o quelli che non hanno ancora accettato, e gli altri soggetti obbligati alla dichiarazione della successione, esclusi i legatari, rispondono solidalmente dell’imposta nel limite del valore dei beni ereditari rispettivamente posseduti”.

A parere di questa Corte il curatore dell’eredità giacente può essere al massimo considerato un detentore dei beni dell’asse ereditario in funzione dell’adempimento di una serie di obblighi di amministrazione e dichiarativi, ma non un possessore nemmeno temporaneo dei beni stessi, con la conseguenza che difetta a monte il presupposto impositivo diretto. Né tale conclusione è smentita dal disposto dell’art. 36 TUS laddove considera ‘i soggetti obbligati alla dichiarazione di successione’ comunque responsabili in via solidale delle imposte dovute; è infatti evidente, anche dalla dizione letterale della norma, che una forma di responsabilità solidale presuppone l’esistenza di un obbligato in via principale e dunque la presenza e l’identificazione di eredi o almeno soggetti chiamati alla eredità. Condizione che difetta nel caso di specie non esistendo né eredi né chiamati alla eredità, come confermato dalla dichiarazione di successione che indica lo Stato come beneficiario.

Peraltro, la stessa Amministrazione Finanziaria che considera il curatore dell’eredità giacente un possessore dei beni, con la risposta ad interpello n. 587 del 15.09.2021 ha comunque affermato che il curatore è obbligato a versare l’imposta nei limiti del valore dei beni ereditari posseduti. Ora, nel caso in esame, da un lato, l’eredità è devoluta allo Stato non risultando neppure identificati chiamati all’eredità, sicché già per questo non possono essere pretese imposte di successione o catastali o ipotecarie; dall’altro, comunque, chi è nel possesso dei beni ereditari (e come detto non è tale il curatore dell’eredità giacente) fino alla accettazione dell’eredità non può essere chiamato a rispondere dell’imposta oltre il limite del valore dei beni posseduti che nel caso di specie non esiste perché l’asse ereditario è negativo. In altri termini, pur volendo aderire alla ricostruzione dell’Ufficio sulla qualità del curatore dell’eredità giacente (che comunque questa Corte non condivide), non può pretendersi nel caso di specie alcuna imposta a nessun titolo essendo l’asse ereditario devoluto allo Stato e di valore negativo.

La giurisprudenza di merito si è già espressa più volte in questa stessa direzione: CTP Milano, sez. 16, n.604/2022; CGT II grado Lombardia, sez. 22, n.4078/2022; CTG I grado Milano, sez. 5, n.2973/2022; CTG I grado Milano, sez. 20, n.3594/2022; CGT II grado Lombardia, sez.6, n.1626/2023; CTP Torino 545/3/2020; CTP Milano 725/2022, CGT I Milano 2973/2022); CTP Milano 945/2021; CTP Milano 1632/2021; CTP Milano 604/2022.

La condanna al pagamento delle spese di lite segue la soccombenza e le stesse si liquidano, tenuto conto della natura e del valore della controversia, nonché dei parametri tabellari di riferimento, in complessivi? 1.202; oltre al 15% a titolo di rimborso spese generali e accessori di legge ove dovuti.

P. Q. M.

La Corte di Giustizia Tributaria di II° per la Lombardia

RIGETTA

L’appello dell’Ufficio e per l’effetto conferma la sentenza di primo grado.

CONDANNA

L’Ufficio soccombente alla rifusione delle spese di lite che si liquidano, con riferimento a questo grado di giudizio, in complessivi? 1.202 oltre al 15% a titolo di rimborso forfettario spese generali e accessori di legge ove dovuti.

Barbara Bosso de Cardona,  Notaio.

EQUO COMPENSO: Prime riflessioni e spunti critici – di Notaio Veronica Ferraro

  1.   Introduzione

Il 20 maggio 2023 è entrata in vigore la legge 21 aprile 2023 n. 49 intitolata “Disposizioni in materia di equo compenso delle prestazioni professionali” volta, almeno sulla carta, a valorizzare il lavoro prestato da soggetti appartenenti alla categoria delle professioni intellettuali.

La normativa sull’equo compenso nasce dall’esigenza di voler assicurare ai professionisti una remunerazione adeguata rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, evitando che una concorrenza sleale leda il decoro e l’immagine delle professioni intellettuali.

Si potrebbe erroneamente pensare, quindi, che la normativa dettata in tema di equo compenso celi in realtà il ripristino delle tariffe professionali.

Nonostante ci siano alcuni aspetti sicuramente simili, tra cui la ratio della normativa, l’equo compenso si discosta profondamente dalle tariffe professionali perché da un lato non detta compensi fissi e obbligatori e dall’altro struttura la modalità di calcolo del compenso in modo diverso dalle tabelle delle tariffe professionali che prevedevano valori assoluti per ciascun scaglione di valore.

  1. Come si calcola l’equo compenso?

La determinazione quantitativa dei compensi è riportata nelle quattro tabelle allegate al Decreto Ministeriale attuativo della legge e precisamente: la tabella A che si riferisce agli atti immobiliari, la tabella B che si riferisce agli atti mobiliari; la tabella C che si riferisce agli atti societari e la tabella D che si riferisce agli altri atti privi di valore determinato.

Le tabelle A, B e C, riferendosi ad atti con valore determinato, sono strutturate in scaglioni con aliquote secche che variano a seconda del valore dell’atto.

L’onorario equo è determinato sulla base di percentuali che decrescono al crescere del valore dell’atto.

Ogni scaglione contiene un valore minimo, un valore massimo e un valore medio. Al valore medio è associata una percentuale che può essere aumentata proporzionalmente al decrescere del valore dell’atto ovvero può essere ridotta proporzionalmente al crescere del medesimo.

È fatta salva la possibilità per le imprese e per le pubbliche amministrazioni, cui si applica la normativa in commento, di stipulare eventuali accordi quadro con il Consiglio Nazionale del Notariato al fine di disciplinare in modo puntuale i compensi per singole prestazioni.

All’onorario risultante dalle tabelle devono essere aggiunti, oltre alle spese vive, le voci relative alla Cassa di Previdenza ed ai Contributi al Consiglio Notarile, al Consiglio Nazionale, al Fondo di Garanzia e al contributo per la messa a repertorio.

  1. Ambito di applicazione

Per quanto concerne l’ambito di applicazione della normativa sull’equo compenso occorre fare riferimento all’art. 2 della legge n. 49/2023.

In particolare, per quanto riguarda l’ambito di applicazione soggettivo, l’equo compenso si applica esclusivamente ai rapporti professionali aventi ad oggetto la prestazione d’opera intellettuale, svolta anche in forma associata o societaria, in favore:

       i) di imprese bancarie e assicurative nonché delle loro società controllate, delle loro mandatarie,

       ii) delle imprese che nell’anno precedente al conferimento dell’incarico hanno occupato alle proprie                   dipendenze più di cinquanta lavoratori o hanno presentato ricavi annui superiori a dieci milioni di                   euro,

       iii) della pubblica amministrazione e delle società disciplinate dal testo unico in materia di società a                   partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175.

Non trova invece applicazione in tutti gli altri casi, ivi comprese le prestazioni rese dai professionisti in favore di società veicolo di cartolarizzazione né in favore degli agenti della riscossione.

Dall’analisi di questa norma emergono principalmente due problemi.

Il primo riguarda la difficoltà nel reperire le informazioni relative al ricavato di un’impresa o al numero di lavoratori. Questo problema può essere tuttavia ovviato mediante l’analisi della visura camerale (da cui possono essere estrapolati i dati relativi al bilancio ed ai dipendenti della società) o, in subordine, mediante l’attestazione da parte del legale rappresentante della società sulla presenza o meno dei requisiti che impongono l’applicazione dell’equo compenso.

Il secondo problema, di più difficile soluzione, riguarda l’eccessiva ampiezza della delimitazione soggettiva del perimetro applicativo della riforma. Su questo aspetto la dottrina notarile è orientata nel senso di considerare l’ambito soggettivo di applicazione circoscritto sostanzialmente alle medie e grandi imprese, ma questo pare porsi in aperto contrasto con lo spirito della riforma.

Vige una generale incertezza anche per quanto riguarda l’ambito di applicazione oggettivo. Sulla base del fatto che il legislatore utilizza il termine “convenzioni” e l’espressione “accordo preparatorio o definitivo purché vincolante per il professionista”, l’equo compenso pare riferirsi a tutta la prestazione d’opera intellettuale del notaio successiva all’entrata in vigore della citata legge.

Ci si chiede, dunque, se l’attività di mera consulenza ed assistenza rientri o meno nell’ambito di applicazione della normativa in commento. Fino a quando non ci sarà un’integrazione legislativa in tal senso, pare consigliabile disciplinare in un apposito accordo anche il compenso relativo all’attività di mera consulenza.

  1. La violazione della norma sull’equo compenso

L’art. 3 della legge n. 49/2023 stabilisce che eventuali accordi o clausole successive all’entrata in vigore della legge che prevedono un compenso inferiore a quello considerato equo e proporzionato all’opera prestata sono, per espressa disposizione normativa, nulli e possono essere impugnati dal professionista innanzi al Tribunale competente (per i notai sembrerebbe competente il Tribunale del luogo in cui è fissata la sede del Notaio) al fine di far valere la nullità della pattuizione e di chiedere la rideterminazione giudiziale del compenso per l’attività professionale prestata.

  1. Conclusioni

La normativa sull’equo compenso è stata accolta dal mondo notarile con grande entusiasmo ma non possono essere nascoste le sue difficoltà applicative.

Rimane ferma la necessità che, anche con un sistema di determinazione del compenso basato sulle tabelle (eccessivamente generiche) e sul valore economico dell’atto, non ci sia un “appiattimento” degli atti, finendo sostanzialmente con il trattare in modo analogo prestazioni diverse in termini di tempo e di complessità. Occorre, quindi, che ci sia la possibilità di valorizzare le differenze di complessità tra un atto e l’altro, seppur all’interno della stessa categoria.

È inoltre auspicabile l’introduzione in tempi brevi, da parte degli organi competenti, di un sistema sanzionatorio per il professionista che viola la normativa sull’equo compenso.  

Fino a quanto non verranno stabilite delle norme deontologiche volte a garantire il rispetto della legge n. 49/2023, si pone un problema di concorrenza tra il notaio che applica l’equo compenso e quello che non lo applica perché il notaio che applica la normativa sull’equo compenso non è in alcun modo competitivo con il notaio che invece, nonostante sia obbligatorio, non la applica.

È forse opportuna, con riferimento ad alcune fattispecie, una migliore determinazione dell’ambito oggettivo di applicazione della riforma. Con riferimento, per esempio, alla surroga, ci si chiede, infatti, se rientri o meno nell’ambito applicativo della riforma e, in caso di risposta affermativa, in quale categoria tabellare rientri, se nella tabella A degli atti immobiliari o nella tabella B degli atti mobiliari, con conseguenze rilevanti in tema di determinazione del compenso. Questa problematicità diventa ancora più attuale e rilevante se si pensa al potenziale numero di surroghe che potranno essere richieste a seguito della decisione della Banca Centrale Europea di mantenere stabili i tassi di interesse dopo un anno caratterizzato da un innalzamento vertiginoso dei tassi.  

La normativa sull’equo compenso è, quindi, sulla carta, una normativa estremamente utile alla valorizzazione del nostro lavoro e serve ad evitare che ci sia una concorrenza sleale negli onorari che porti a una sottovalutazione del nostro ruolo e della nostra responsabilità per cui è necessario che vengano dati i relativi chiarimenti così da poter consentire ai notai la corretta applicazione della legge recentemente introdotta.

Veronica Ferraro, Notaio in Torino.

 

La selezione del personale nello studio notarile- di Dott.ssa Anna Lisa Copetto

Il principale asset strategico di uno studio notarile è rappresentato dalle persone, dalle competenze che esse possiedono e dalla loro capacità di tradurle in azioni e comportanti idonei a dare luogo ad una prestazione allineata alle esigenze del cliente, oltre che perfettamente conforme alle norme di legge. Ci si riferisce non solo al Notaio ma anche ai collaboratori che lo coadiuvano nelle diverse fasi del processo di produzione dell’atto. Un team preparato sul piano tecnico, capace di mettersi in relazione con il cliente, in grado di fare fronte alle complessità del quotidiano, che sa adattarsi velocemente ai cambiamenti, è ciò che può fare la differenza tra uno studio di successo e uno studio che sopravvive.

Se tutto ciò è vero, il tema della gestione delle risorse umane deve essere una priorità assoluta. Gestire le risorse umane però cosa significa? Potremmo sinterizzarlo nelle seguenti fasi:

  1. Reclutare e selezionare le risorse più idonee per caratteristiche e competenze;
  2. Collocarle nelle posizioni più opportune per sfruttarne appieno le potenzialità;
  3. Garantire con continuità la giusta formazione rispetto al ruolo assegnato;
  4. Guidare e incentivare buoni comportamenti;
  5. Valutarne con costanza le performance per intervenire tempestivamente con eventuali aggiustamenti;
  6. Offrire un luogo in cui sentirsi appagati e realizzati.

Soffermiamoci sulle primissime fasi di avvio della relazione. Innanzitutto, occorre avere le idee chiare riguardo al profilo da ricercare e ai requisiti specifici che si renderanno necessari, per restringere la platea dei candidati e centrare in tempi brevi l’obiettivo dell’inserimento. Si tratta di costruire l’identikit della persona che desideriamo inserire nello staff, identikit che dovrebbe includere almeno le seguenti informazioni:

  • Responsabilità principali;
  • Requisiti dell’istruzione e dell’esperienza;
  • Competenze tecniche;
  • Competenze trasversali.

Solo con un’idea molto chiara e preferibilmente documentata ha senso avviare la fase successiva di reclutamento, ovvero la ricerca di possibili candidati alla posizione vacante. I canali attivabili sono molteplici. Si può avviare un reclutamento interno, che guarda alle risorse già presenti in studio alle quali offrire l’opportunità di un cambio di casacca. Diversamente, lo studio può attingere da fonti esterne, autonomamente con il supporto degli strumenti di ricerca oggi in uso (ormai quasi esclusivamente tramite il web) oppure affidando il reclutamento in outsourcing a consulenti specializzati. La scelta è strettamente legata al tempo che si ha a disposizione e alle risorse che si intende o ci si può permette di investire.

Segue quindi la fase vera e propria di selezione, in cui si va a individuare all’interno della rosa di candidati intercettati la risorsa che meglio risponde alle esigenze espresse dallo studio. L’obiettivo è duplice: trovare la persona che possieda tutte le caratteristiche necessarie per ricoprire con successo una specifica posizione e che più verosimilmente permarrà all’interno dello studio. Quali sono allora gli elementi da sottoporre a valutazione in questa fase? Certamente le conoscenze già acquisite ma anche le potenzialità, le attitudini, le aspirazioni/aspettative, i tratti di personalità, il set valoriale. Attività tutt’latro che banale ma che purtroppo spesso si esaurisce con una sbrigativa chiacchierata guidata dalla fretta di concludere e che porta talvolta all’instaurarsi di un rapporto reciprocamente insoddisfacente.

Una volta scelto il candidato ideale inizia la fase di inserimento della persona all’interno del team di lavoro. Un processo di onboarding ben strutturato ed efficace si tradurrà molto più facilmente in un rapporto di reciproco beneficio. Diversamente, un onboarding disorganizzato, non guidato innalzerà il rischio che i nuovi talenti abbandonino presto lo studio. È in questa fase, infatti, che i neoassunti acquisiscono le conoscenze, le abilità e i comportamenti necessari per diventare membri efficaci dello staff.

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network

 

La copia dell’atto che scontenta il cliente – di Dott. Michele D’Agnolo

I clienti di uno studio notarile non sono tutti uguali. Per l’uomo della strada, spesso l’unica occasione della vita in cui entra in contatto con uno studio notarile è rappresentata dall’acquisto della prima casa. Avendo poche informazioni sia in merito al ruolo del Notaio che all’iter che devono seguire gli atti notarili, il cliente occasionale si fa delle attese tutte sue sul come dovrebbe avvenire l’interazione con lo studio notarile. Diverso il caso degli imprenditori e dei costruttori, clienti abituali dello studio che conoscono a menadito le regole del gioco.

Una delle più grandi delusioni dei clienti privati dello studio notarile, di solito occasionali e poco avvezzi alla prassi notarile, è di non poter acquisire al termine della stipula l’originale dell’atto.

D’altronde è comprensibile che il cliente consideri suo qualcosa che ritiene di aver comprato, a suo modo di vedere anche a caro prezzo, e che tra l’altro gli serve per dimostrare l’esito della transazione economica della quale è stato parte.

Il cliente non sa (e lo studio notarile non sempre glielo comunica) ciò che avviene dietro le quinte dello studio in tutte le attività propedeutiche e successive alla stipula e quindi pensa che l’iter dell’atto sia molto più semplice di quanto in realta non sia.

Inoltre, dopo l’acquisto di una casa, le parti hanno di solito la necessità di un qualche documento ufficiale utile a volturare utenze, informare l’amministrazione condominiale, denunciare la variazione per il pagamento delle imposte locali, e così via.

Una delle regole base del marketing è che per aumentare il valore percepito di un servizio occorre in qualche modo materializzarlo. E’ per questo motivo ad esempio che l’involucro esterno di un DVD è più grande di quello di un CD, anche se il disco contenuto all’interno della confezione è di dimensioni sostanzialmente identiche. Lo spreco di spazio e di materiale di imballaggio serve a far capire al consumatore che quel prodotto vale di più dell’altro e quindi che è giustificato un prezzo più alto.

Com’è arcinoto al nostro uditorio, il notaio ha invece precisi obblighi di legge in base ai quali deve conservare gli originali della maggior parte degli atti che stipula nella propria raccolta. Anche l’emissione di copie durante o subito dopo la stipula è sostanzialmente impedita dall’altro obbligo in capo al Notaio di preventiva registrazione degli atti. E’ molto difficile organizzare una registrazione immediata di tutti gli atti stipulati dallo studio, anche per la necessità di repertoriare l’atto e di svolgere alcuni importanti controlli.

E, in ogni caso, visto che di solito le parti di un atto notarile sono più d’una, l’agognato originale alla fine non riuscirebbe a soddisfarle tutte.

Per questi motivi, gli studi notarili hanno dovuto immaginare e sperimentare soluzioni diverse per accontentare il bisogno di materializzazione della prestazione dei clienti.

Alcuni studi, ad esempio, si sono attrezzati per la erogazione di un certificato di avvenuta stipula, mentre altri stanno privilegiando l’emissione di copie digitali con valore legale.

Per quella che è la mia esperienza, la maggior parte degli studi notarili vive l’emissione di copie come un fastidio, e ritiene che l’erogazione di questi documenti debba avvenire soltanto a precisa richiesta delle parti. Personalmente ritengo sia utile per enfatizzare la soddisfazione dei clienti che le parti ricevano qualcosa possibilmente durante la stipula o poco dopo e senza doverlo chiedere espressamente. Si tratta di una occasione per contattare il cliente anche dopo l’acquisto che potrebbe ulteriormente fidelizzarlo.

Le varie opzioni sul tavolo hanno implicazioni organizzative molto diverse tra loro.

La trasmissione delle copie digitali richiede banalmente di conoscere l’indirizzo mail non solo del cliente, che di solito è noto allo studio, ma anche della controparte, e quindi questa informazione va chiesta al massimo in sede di stipula.

La trasmissione delle copie digitali sarà tanto più apprezzata quanto più sarà tempestiva, il che dipende da quanto rapido sarà l’invio del Modello Unico Informatico.

La predisposizione dei documenti digitali e l’invio via mail possono essere fortemente automatizzati e i documenti messi a disposizione in un repository digitale a disposizione del cliente 24 ore al giorno e 365 giorni all’anno.

La tradizionale modalità di predisposizione delle copie cartacee dell’atto su richiesta del cliente richiede invece tempi più lunghi in quanto la copia va stampata, sigillata e firmata dal notaio e spedita per posta o conservata fino al ritiro da parte del cliente. L’aggravio di lavoro può essere notevole anche a livello di segreteria per gestire le chiamate di chi chiede le copie magari ritenendo di dover disturbare il Notaio, o chiede informazioni se le copie sono pronte, o che chiede ulteriori copie. Il documento digitale può invece essere replicato all’infinito direttamente dalla parte e ogni replica mantiene lo stesso valore legale del primo documento.  

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

La comunicazione del titolare effettivo alla luce del Decreto MiMIT – di Notaio Barbara Bosso de Cardona

Il 9 ottobre 2023 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il c.d. “MiMIT” ( Decreto del Ministero delle Imprese e del Made in Italy del 29 settembre 2023) che ha reso operativo il Registro dei titolari effettivi.

Dal 10 ottobre 2023, quindi, le imprese hanno 60 giorni di tempo per comunicare al Registro delle Imprese i loro “titolari effettivi”.

Con il termine titolare effettivo si intende “la persona fisica o le persone fisiche cui, in ultima istanza, è attribuibile la proprietà diretta o indiretta dell’ente ovvero il relativo controllo”.

I criteri da utilizzare per individuare il titolare effettivo sono indicati nella normativa in oggetto e chiariti nelle linee guida di Unioncamere, dove è stabilito che:

“Nel caso in cui il cliente sia una società di capitali:

 a) costituisce indicazione di proprietà diretta la titolarità di una partecipazione superiore al 25 per cento del capitale del cliente, detenuta da una persona fisica;

 b) costituisce indicazione di proprietà indiretta la titolarità di una percentuale di partecipazioni superiore al 25 per cento del capitale del cliente, posseduto per il tramite di società controllate, società fiduciarie o per interposta persona”.

“Nelle ipotesi in cui l’esame dell’assetto proprietario non consenta di individuare in maniera univoca la persona fisica o le persone fisiche cui è attribuibile la proprietà diretta o indiretta dell’ente, il titolare effettivo coincide con la persona fisica o le persone fisiche cui, in ultima istanza, è attribuibile il controllo del medesimo in forza: a) del controllo della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria; b) del controllo di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante in assemblea ordinaria; c) dell’esistenza di particolari vincoli contrattuali che consentano di esercitare un’influenza dominante”.

“Qualora l’applicazione dei criteri di cui ai precedenti commi non consenta di individuare univocamente uno o più titolari effettivi, il titolare effettivo coincide con la persona fisica o le persone fisiche titolari, conformemente ai rispettivi assetti organizzativi o statutari, di poteri di rappresentanza legale, amministrazione o direzione della società o del cliente comunque diverso dalla persona fisica”.

Sulla tematica, si segnala anche lo Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 1_2023 B – LA RICERCA DEL TITOLARE EFFETTIVO – che prende in esame anche alcune fattispecie non espressamente indicate nel testo normativo.

Tra queste, di evidente interesse “pratico” appare la questione relativa all’ipotesi in cui vi siano partecipazioni sociali detenute per una percentuale superiore al 25% in nuda proprietà da un soggetto e sulle quali grava l’usufrutto a favore di altro soggetto al quale spetta il diritto di voto.

In tale caso, applicando il criterio del controllo il titolare effettivo andrebbe identificato con l’usufruttuario ma solo ove si ritenesse che con il termine “proprietà” (diretta o indiretta che sia) il legislatore abbia voluto riferirsi solo al pieno proprietario e non anche al nudo proprietario.

Se, invece, per “proprietà” si intende anche il nudo proprietario allora il titolare effettivo dovrebbe essere sia il nudo proprietario che l’usufruttuario, quantomeno nelle ipotesi in cui quest’ultimo abbia il diritto di voto tale da esercitare il controllo sulla società.

Naturalmente, vi potranno essere fattispecie non sempre di evidente risoluzione pratica, soprattutto nelle ipotesi di società molto composite, per cui  si ritiene prudente nei casi dubbi attenersi quanto più possibile al dato testuale della norme e delle linee guida ufficiali.

Studio: LA RICERCA DEL TITOLARE EFFETTIVO

Titolare Effettivo – Manuale operativo per l’invio telematico

Barbara Bosso de Cardona,  Notaio.

Gli onorari di repertorio nelle compravendite con le agevolazioni “under 36”- di Notaio Barbara Bosso de Cardona

Il Ministero della Giustizia – Ufficio Centrale degli Archivi Notarili in data 16 agosto 2023 si è espresso in merito ai parametri da indicare a repertorio per gli atti di cui ai commi 6-10 dell’art. 64 del D.L. 25 maggio 2021 n. 73 (cd. Decreto Sostegni – bis), come modificato dalla legge di conversione 23 luglio 2021 n. 106.

Secondo il Ministero, in linea con quanto già affermato dall’Avvocatura dello Stato con il parere del 26 luglio 2023, alle compravendite poste in essere con le c.d. “agevolazioni under 36” non si applica la riduzione degli onorari notarili (e, conseguentemente, di tassa archivio e contributi) prevista dall’art. 1, comma 487, della L. 266/2005 (c.d. “prezzo-valore”).

L’argomentazione posta a sostegno di tale parere consiste nella circostanza che il Decreto Sostegni – bis (a differenza della L. 266/2005) non ha previsto espressamente la riduzione degli onorari repertoriali per cui non sarebbe possibile applicare analogicamente la medesima disciplina.

E ciò anche qualora nell’atto la parte abbia richiesto cautelativamente di beneficiare della disciplina del prezzo valore.

La Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 12/E del 2021, sul punto, precisa che “il criterio del prezzo-valore, tecnicamente, non costituisce un’agevolazione fiscale, ma rappresenta solo una diversa modalità di determinazione della base imponibile a cui applicare le aliquote di legge”, per cui la medesima Agenzia delle Entrate ritiene opportuno che negli atti di compravendita con le “agevolazioni under 36”, la parte, cautelativamente, manifesti espressamente l’opzione per la disciplina del prezzo-valore, al fine di poterne beneficiare qualora fosse accertata l’insussistenza dei requisiti per godere delle “agevolazioni under 36”.

Ebbene, Ufficio Centrale ha stabilito che anche in tali ipotesi “Non si ritiene che quanto espresso dall’Agenzia in via subordinata e del tutto eventuale ai fini fiscali giustifichi una riduzione di onorari non prevista”.

Conseguentemente, per le compravendite “agevolate under 36” gli onorari notarili non sono ridotti del 30% bensì sono calcolati nella misura ordinaria al 100%.

Approfondimento

Barbara Bosso de Cardona,  Notaio.

Rinuncia del diritto di abitazione con corrispettivo – di Notaio Chiara Mistretta

1 Inquadramento

1.1 Il diritto di abitazione consiste nell’utilizzo di una casa quale alloggio per il titolare del diritto di abitazione e della sua famiglia, limitatamente ai loro bisogni (art. 1022 c.c.).

Con il termine “casa” è da intendersi, non solo l’abitazione, bensì qualsiasi immobile e sue pertinenze idoneo a soddisfare le normali esigenze di vita domestica e di alloggio familiare, a prescindere dalla destinazione d’uso dell’immobile stesso.

Come enunciato dall’art. 1021 ultimo comma c.c., i bisogni del titolare del diritto e della sua famiglia, a cui si riferisce il legislatore, devono essere rapportati alla condizione sociale del titolare del diritto stesso, adeguata anche al progresso tecnico ed ai moderni orientamenti sociali. Con il mutamento dei bisogni varia anche il contenuto del diritto di abitazione.

L’evoluzione del diritto di famiglia nel nostro ordinamento ridefinisce i confini della “famiglia” del titolare del diritto di abitazione (di cui all’art 1023 c.c.) includendo in essa oltre ai genitori, fratelli, affini, coniuge e figli nati in costanza e non di matrimonio, anche i figli nati dopo che si è costituito il diritto di abitazione e le persone che convivono con il titolare del diritto stesso per prestare a lui o alla sua famiglia i loro servizi.

1.2 Il titolare, o i titolari del diritto di abitazione (habitator) possono essere solo persone fisiche che utilizzano in via diretta il bene. Non è possibile far abitare l’immobile solo dai familiari del titolare del diritto mentre quest’ultimo abita stabilmente altrove.

L’immobile oggetto del diritto di abitazione può essere utilizzato solo come alloggio e pertanto è esclusa la possibilità di trarne frutti: quanto ai frutti naturali quanto a quelli civili. Il divieto deriva, nel primo caso, dalla natura intrinseca del bene e nel secondo caso, dalla inammissibilità di un godimento indiretto del bene stesso.

1.3 Il diritto di abitazione può essere esercitato dall’habitator solo personalmente e direttamente, di conseguenza, il diritto di abitazione non può essere ceduto o dato in locazione, come si evince dall’art. 1024 c.c. L’habitator, pertanto, non è legittimato a costituire diritti di pegno o di ipoteca sul diritto di abitazione, a concedere diritti reali di godimento ovvero costituire a favore di terzi diritti personali di godimento diversi dalla locazione. Analogamente i beni oggetto del diritto di abitazione non possono essere sottoposti a sequestro o pignoramento, nemmeno dal proprietario creditore del titolare del diritto di abitazione.

1.4 Ai sensi del combinato disposto degli artt. 1026 e 979 c.c. la durata del diritto di abitazione non può eccedere la vita dell’habitator, bensì è possibile prevedere pattiziamente un termine inferiore alla durata della vita del titolare del diritto stesso, e i familiari dell’habitator possono beneficiare dell’alloggio fino all’esistenza del diritto di abitazione.

2 Qualificazione giuridica ed effetti

2.1 Il diritto di abitazione, che ha le sue origini nell’usus domus del diritto romano classico, ha natura reale: è un diritto reale su cosa altrui (ius in re aliena) avente ad oggetto un bene immobile. Si distingue dalla locazione per la realità del godimento del bene stesso e dal diritto d’uso in quanto non è portatore di frutti civili o naturali.

La natura reale del diritto di abitazione conferisce allo stesso il carattere dell’assolutezza (può essere fatto valere erga omnes), dell’immediatezza del potere dell’habitator sulla cosa, della tipicità (ossia il diritto è previsto dalla legge), e della patrimonialità (perché il contenuto del diritto è prevalentemente economico).

2.2 Il diritto di abitazione si può costituire mediante testamento, o contratto con la forma scritta (mediante il quale il proprietario costituisce il diritto di abitazione a favore di un altro soggetto ovvero trasferisce la nuda proprietà riservandosi il diritto di abitazione stesso) e deve essere trascritto nei registri immobiliari affinchè sia opponibile erga omnes ai terzi, a norma dell’art. 2653, n. 4 c.c. Il diritto di abitazione si estingue per morte dell’habitator, per scadenza del termine o per sua rinuncia. La morte o la dismissione del diritto da parte dell’habitator permette il consolidamento della piena proprietà.

2.3 Stante il divieto di trasferimento o locazione del diritto di abitazione sancito dall’art. 1024 c.c. si discute se la volontà delle parti possa derogare a tale divieto prevedendo, nell’atto costitutivo del diritto di abitazione, una eventuale clausola di cedibilità.

La dottrina che ricostruisce il fondamento storico del diritto di abitazione (De Martino, Palermo) ritiene che il divieto di cessione sia norma imperativa e non derogabile, in quanto posta a tutela di interessi di ordine pubblico e di coerenza sistematica del codice civile. Se il legislatore avesse voluto permettere una deroga pattizia a tale divieto, avrebbe previsto espressamente la cedibilità del diritto di abitazione, salvo patto contrario, come già sancito dall’art. 980 c.c. per il diritto di usufrutto. Secondo tale ricostruzione qualora il negozio costitutivo del diritto di abitazione preveda espressamente la cedibilità del diritto a terzi, la relativa clausola sarebbe nulla ovvero potrebbe enunciare, in sede di interpretazione, che le parti abbiano voluto in realtà costituire un diverso diritto di natura reale (usufrutto) od obbligatoria (comodato, locazione).

Tale interpretazione del divieto di cessione non impedisce al titolare del diritto di abitazione, congiuntamente al proprietario del bene, il trasferimento della piena proprietà del bene stesso. L’effetto del trasferimento della piena proprietà può avvenire o con la rinuncia da parte del titolare del diritto ovvero con un trasferimento congiunto da parte del titolare del diritto di abitazione e del nudo proprietario del bene, della piena proprietà e non meramente del diritto di abitazione.

La dottrina (Bianca, Scaliti) e la giurisprudenza (Cass Civ 2006/4599 e 2015/8507) che ritengono derogabile il divieto posto dalla norma di cui all’art. 1024 c.c., pone a fondamento della propria tesi l’evoluzione del diritto di abitazione: da istituto avente una funzione strettamente alimentaria per soddisfare i bisogni primari del titolare e della sua famiglia, a sottocategoria del diritto di usufrutto, avente ad oggetto un diritto patrimoniale disponibile.

Tale ricostruzione dottrinaria e giurisprudenziale ritiene che il divieto non tuteli l’ordine pubblico, bensì l’interesse del nudo proprietario affinchè non venga mutata la titolarità del diritto di abitazione. Il contenuto del diritto di abitazione è connesso ai bisogni del titolare del diritto e della sua famiglia, mutando il titolare del diritto muterebbero anche i bisogni dello stesso e il diritto del nudo proprietario verrebbe compromesso da nuovi e differenti bisogni. Nulla vieta al nudo proprietario, dopo aver analizzato le conseguenze del mutamento del titolare del diritto di abitazione, di acconsentire alla cessione.

E’ necessario precisare che coloro che aderiscono alla tesi della derogabilità del divieto di cessione del diritto di abitazione in sede di costituzione del diritto stesso, ritengono che non sia possibile prevedere tale derogabilità in un momento successivo alla costituzione, ovvero che la derogabilità si realizzi per fatti concludenti mediante la cessione da parte dell’habitator del proprio diritto a terzi.

2.4 Pur aderendo alla tesi che ammette la deroga pattizia al divieto di cessione del diritto di abitazione, sovente lo stesso si è già costituito per successione o per contratto senza che vi sia stata apposta deroga al divieto stesso. Si rende, pertanto, necessario poter assecondare la volontà delle parti di trasferire (a titolo gratuito o oneroso) la piena proprietà del bene gravato dal diritto di abitazione ad un terzo soggetto utilizzando lo strumento giuridico più adatto alla tutela dell’acquirente.

Se la volontà è quella di far acquistare al terzo la piena proprietà del bene gravato dal diritto di abitazione è possibile procedere ad un contratto di cessione contestuale da parte del nudo proprietario e del titolare del diritto di abitazione della piena proprietà. Oggetto del negozio di cessione non è il mero diritto di abitazione, bensì la piena proprietà da parte di due soggetti: l’uno titolare del diritto di abitazione e l’altro del diritto di nuda proprietà e pertanto non si violerebbe il divieto di cessione del diritto di abitazione di cui all’art 1024 c.c.

Più prudente sarebbe far trasferire la nuda proprietà con contestuale rinuncia del titolare del diritto di abitazione, al fine di far acquisire al terzo acquirente la piena proprietà del bene. L’onerosità dell’operazione potrebbe riguardare solo la cessione della nuda proprietà, prevedendo una donazione indiretta per la rinuncia al diritto di abitazione, ovvero entrambi i due negozi, quello di cessione e quello di rinuncia. Si ritiene che anche la rinuncia al diritto di abitazione, quale negozio consistente nella dismissione di un diritto, possa avere causa onerosa o gratuita, stante la sua natura abdicativa o traslativa della riserva stessa.

Nel caso in cui colui che intenda divenire pieno proprietario del bene non è un terzo acquirente bensì l’attuale nudo proprietario gravato dal diritto di abitazione, il negozio giuridico della rinuncia al diritto di abitazione assolve interamente l’interesse dell’acquirente. Mediante la rinuncia al diritto di abitazione, a titolo gratuito o oneroso, il nudo proprietario, come conseguenza del principio della vis espansiva del diritto di proprietà, diviene pieno proprietario. In tal caso il corrispettivo avviene per la rinuncia al diritto di abitazione e non per il trasferimento dello stesso, non incorrendo nella violazione del divieto di cessione del diritto di abitazione di cui all’art 1024 c.c.. 

3 Profili pratici: pubblicità e fiscalità

Nel caso di trasferimento contestuale da parte del nudo proprietario e del titolare del diritto di abitazione a titolo oneroso della piena proprietà:

 – l’atto viene trascritto nei registri immobiliari come compravendita indicando nella nota di trascrizione quali soggetti contro il nudo proprietario e il titolare del diritto di abitazione,

 – dal punto di vista fiscale si applicano l’imposta di registro proporzionale (2% se per l’acquirente è prima casa, 9% se per l’acquirente non è prima casa o 15% per immobili agricoli) imposta ipotecaria e catastale in misura fissa di euro 50 ciascuna. 

Nel caso di trasferimento da parte del nudo proprietario e rinuncia, contestuale, del titolare del diritto di abitazione dietro corrispettivo:

-l’atto viene trascritto nei registri immobiliari come compravendita indicando nella nota di trascrizione quali soggetti contro il nudo proprietario e il titolare del diritto di abitazione,

-dal punto di vista fiscale si applicano l’imposta di registro proporzionale (2% se per l’acquirente è prima casa, 9% se per l’acquirente non è prima casa o 15% per immobili agricoli) imposta ipotecaria e catastale in misura fissa di euro 50 ciascuna.

Nel caso di rinuncia con corrispettivo a favore del nudo proprietario al fine di far acquisire a quest’ultimo la piena proprietà:

 – l’atto viene trascritto nei registri immobiliari come compravendita indicando nella nota di trascrizione quale soggetto contro il titolare del diritto di abitazione,

 – dal punto di vista fiscale si applicano l’imposta di registro proporzionale (2% se per l’acquirente è prima casa, 9% se per l’acquirente non è prima casa o 15% per immobili agricoli) imposta ipotecaria e catastale in misura fissa di euro 50 ciascuna.

Bibliografia:

Bianca, La proprietà, in Diritto civile, VI, Milano, 1999

Bigliazzi Geri, Usufrutto, uso e abitazione, in EG, XXXII, Roma, 1994; Id., Usufrutto, uso e abitazione, in Tratt. Cicu, Messineo, XI, 1, Milano, 1979

De Martino, Dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 978-1026, Bologna-Roma, 1978

Palermo A., Palermo G., Usufrutto, Uso, Abitazione, in Giur. sist. Bigiavi, Torino,1978

Scaliti, Dell’uso e dell’abitazione, in Commentario Cendon, 2008

Cass. civ., Sez. II, 02/03/2006, n. 4599

Cass. civ., Sez. II, Sentenza, 27/04/2015, n. 8507

Chiara Mistretta,  Notaio in Brescia.

La stagionalità dell’attività notarile – di Dott. Michele D’Agnolo

Un aspetto che incide profondamente sul piano organizzativo dell’attività notarile, spesso sottovalutato e che merita quindi maggiore attenzione, è rappresentato dalla stagionalità.

La stagionalità dell’attività notarile si presenta generalmente su due piani temporali diversi, talvolta sovrapposti.

La prima variazione nella domanda, la più evidente, è quella annuale, caratterizzata da un picco di attività verso la fine dell’anno e da un incremento minore, ma comunque significativo, poco prima del periodo estivo. La seconda forma di stagionalità, meno appariscente ma altrettanto impattante, è quella mensile, che tende a manifestare un aumento dell’attività di stipula verso la fine di ciascun mese.

Il picco di attività notarile che si realizza verso la fine di ciascun anno è attribuibile a diverse ragioni. Una delle più importanti è la necessità di finalizzare transazioni e accordi legali in tempo per l’inizio del nuovo anno. Questo è particolarmente rilevante in relazione a questioni fiscali e pianificazione patrimoniale. Molti individui e imprese cercano di concludere accordi in modo che gli effetti giuridici o fiscali entrino in vigore all’inizio del nuovo anno finanziario. Questo comportamento è evidente in operazioni di compravendita immobiliare, donazioni, ma più ancora nelle operazioni straordinarie aziendali quali cessioni di quote o di aziende, fusioni, scissioni.

Ad esempio, molte persone cercano di chiudere accordi immobiliari entro la fine dell’anno per poter beneficiare delle detrazioni fiscali. Le imprese, d’altro canto, possono voler finalizzare fusioni o acquisizioni in tempo per bilanciare i loro libri contabili prima della fine dell’anno fiscale. Questa pressione temporale spinge molti clienti a cercare i servizi di uno studio notarile proprio nei mesi di novembre e dicembre, creando così notevoli ingorghi. Di conseguenza il mese di gennaio appare abbastanza scarico per le stipule, soprattutto nella prima parte del mese, mentre lo staff addetto alle formalità successive lavora a pieno ritmo anche nei primi giorni dell’anno per smaltire gli adempimenti legati alla grande quantità di atti stipulata negli ultimi giorni dell’anno appena trascorso.

Meno spiegabile in termini razionali appare invece il picco annuale estivo, che generalmente interessa i mesi di giugno e luglio. Non sono pochi infatti gli studi notarili che rimangono aperti anche in agosto, pertanto la necessità di anticipare la stipula di accordi appare più legata ad aspetti psicologici, quali la necessità di concludere le transazioni prima di andare in vacanza smarcandola dall’elenco delle cose da fare e sentendosi così liberi di un peso. Vero è che molte attività si fermano in agosto e quindi “saltare” quel mese potrebbe voler dire prolungare di qualche mese importanti progetti causa l’assenza del mediatore, del funzionario di banca, della controparte, impegnati a godersi il sole sotto l’ombrellone.

La stagionalità mensile nell’attività degli studi notarili ha un’origine altrettanto interessante. Questo picco mensile è spesso dovuto alla tradizione di fissare nei contratti preliminari una data di fine mese come termine ultimo per la stipula del contratto definitivo. Questa pratica è radicata nella cultura delle agenzie immobiliari ma anche dei compromessi stipulati dagli stessi Notai.  

Ciò porta ad un aumento dell’attività nei giorni precedenti la scadenza, poiché le parti cercano di rispettare il termine stabilito. Questa pratica è particolarmente comune nelle transazioni immobiliari, ma può applicarsi anche ad altre tipologie di contratti. Un altro aspetto che contribuisce all’affastellarsi delle stipule a fine mese è legato all’aggiornamento delle condizioni bancarie e quindi al potenziale rincaro dei mutui quando la stipula slittasse da un mese all’altro.

La combinazione di una stagionalità annuale dovuta a motivi fiscali e di pianificazione con una stagionalità mensile basata su tradizioni contrattuali crea notevoli sbalzi nella esecuzione del lavoro. Questa situazione richiede una gestione organizzativa molto attenta da parte dei Notai e dei loro team, che devono cercare di bilanciare i picchi di lavoro con periodi di minore attività. Adottando strategie di pianificazione e organizzazione intelligente, gli studi notarili possono gestire con successo questa stagionalità e continuare a fornire servizi professionali di alta qualità ai loro clienti durante tutto l’anno.

In particolare, l’applicazione dell’ottica Lean a situazioni come i picchi di lavoro negli studi notarili può essere molto utile per gestire in modo più efficiente le fluttuazioni di carico di lavoro. In un contesto Lean, si definisce mura la variabilità del processo produttivo. Concetto che si contrappone a quello di standard, ovvero “il miglior metodo conosciuto e condiviso oggi per eseguire un’attività”. Ciò che causa sprechi e abbassa il livello di efficienza del processo, allontanando quest’ultimo dal suo standard, è da considerare parte della variabilità. Attenzione che il concetto di standard si riferisce qui al processo di erogazione della prestazione professionale cioè al corretto iter dell’atto e non al suo contenuto, che invece deve rimanere altamente personalizzato.

In questo quadro, lo studio notarile può reagire efficacemente alle fluttuazioni stagionali della domanda sia cercando di aumentare la capacità produttiva in corrispondenza dei picchi della domanda stessa (ad esempio aumentando il numero degli addetti), sia lavorando per  “appiattire” la domanda rendendola più costante (cercando ad esempio di orientare i clienti che non hanno urgenze), oppure dotando lo studio di una capacità produttiva in linea con i picchi previsti e gestendo poi i periodi di minore impiego del personale rivolgendolo ad altre occupazioni.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

Il project management nello studio notarile – di Dott.ssa Anna Lisa Copetto

L’ISIPM (Istituto Italiano di Project Management) definisce il Project Management come “l’applicazione di conoscenze, capacità professionali e personali, metodi, tecniche e strumenti alle attività di gestione di un progetto, al fine di soddisfarne i requisiti”. Definisce inoltre il progetto come una “attività temporanea intesa a realizzare un prodotto, un servizio o un risultato unico con vincoli di tempo, costi (risorse disponibili), e qualità”.

Quindi, in sostanza, il project management è una metodologia che si basa sulla pianificazione, l’esecuzione e il controllo di tutte le attività necessarie a raggiungere specifici obiettivi sottostando a vincoli interdipendenti di costi, tempi e livelli di performance.

Molti pensano che il PM sia applicabile solo a obiettivi grandi e tipicamente aziendalistici. È vero che nasce in ambiente ingegneristico ma la logica che vi sta alla base lo rende applicabile a contesti di varia natura, compreso lo studio notarile.

La peculiarità dello studio notarile richiede evidentemente un adattamento concettuale, affinché le caratteristiche tipiche del project management possano essere adottate in modo non solo efficace ma funzionale alle reali esigenze dello studio e dei clienti che vi si rivolgono.

Potenzialmente, il PM potrebbe essere applicato ad ogni pratica; lo scopo non è quello di aggiungere complessità con inutili sovrastrutture ma di fornire uno strumento che possa rendere anzi più agevole il lavoro. Ecco perché conviene ricorrere al PM per una attività di consulenza particolarmente complessa, particolarmente innovativa rispetto allo standard dello studio, molto protratta nel tempo o che coinvolge una pluralità di interlocutori distinti. Non solo mette lo studio al riparo dal rischio di lasciarsi sfuggire qualcosa (non per incapacità ma per la difficoltà di dover coordinare competenze, professionalità e sensibilità spesso diverse), ma consente anche di capitalizzare il know how acquisito strada facendo, mettendolo a servizio di progetti futuri.

 

Come si applica il project management?

La gestione di una pratica secondo i principi del Project Management prevede le seguenti fasi:

  1. Definire obiettivi chiari, specifici, misurabili, realizzabili, rilevanti e limitati nel tempo
  2. Pianificare le attività, le risorse, le tempistiche, le responsabilità
  3. Dare esecuzione a quanto pianificato
  4. Controllare e, ove necessario, aggiustare il tiro
  5. Garantire e controllare la comunicazione tra i soggetti interni o esterni interessati
  6. Allocare e ottimizzare le risorse umane, materiali e finanziarie
  7. Identificare, valutare e scegliere il trattamento dei rischi del progetto.
  8. Valutare i risultati del progetto

 

Quali strumenti utilizzare?

Esistono numerosi strumenti e software disponibili per il project management, ciascuno con le proprie caratteristiche e vantaggi. Tra i più popolari citiamo Microsoft Project, Trello, Asana, Basecamp, Smartsheet, Airtable. Molto utili anche i Mind Mapping che forniscono una rappresentazione grafica molto intuitiva e di semplice lettura/utilizzo per pianificare, eseguire e controllare un progetto.

In conclusione

L’applicazione del PM consente allo studio una gestione più consapevole delle pratiche più complesse e rischiose. Non va vissuto come un adempimento burocratico ma come un’opportunità di fare ancora meglio ciò che già si sa fare.

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network

 

Capitalizzare il Know-How: una strategia necessaria per gli Studi Notarili – di Dott.ssa Anna Lisa Copetto

Gli studi notarili sono spesso considerati come istituzioni tradizionali, pilastri della giustizia e della sicurezza legale nel paese. Tuttavia, nel mondo in rapida evoluzione di oggi, anche questi venerabili luoghi di lavoro devono adattarsi ai cambiamenti tecnologici e gestionali per rimanere rilevanti ed efficienti. La gestione del know-how, inteso come il complesso delle conoscenze e delle competenze maturate  nel tempo, rappresenta una parte cruciale di questa sfida. In questo articolo, esploreremo l’importanza della gestione del know-how all’interno degli studi notarili e come può contribuire ad un loro maggiore successo.

Il Know-How come risorsa strategica. Il patrimonio di conoscenze – implicite ed esplicite –  sviluppato e posseduto dalle singole persone che a vario titolo operano all’interno dello studio è, per ragioni del tutto ovvie, il principale asset strategico dello studio. Tuttavia, trascinati dagli ingranaggi operativi della quotidianità, si rischia spesso di trascurare ciò che è la vera ricchezza dello studio notarile, che non può e non deve essere disperso.

Come preservare e condividere queste competenze in un’epoca in cui la tecnologia sta cambiando anche il volto del settore degli studi notarili? Vediamo, in estrema sintesi, gli aspetti salienti sui quali fare una riflessione.

La formazione. La questione non riguarda tanto la formazione continua alla quale i Notai prestano già la dovuta attenzione, quanto piuttosto una cultura nuova dell’apprendimento che andrebbe promossa e sostenuta a favore di tutti i membri dello studio. Questo consentirebbe una significativa riduzione del rischio di errore nella lavorazione delle pratiche ma anche una maggiore serenità dovuta ad una maggiore fiducia nelle persone della propria competenza.

La condivisione del Know-How tra i Membri dello Studio. La condivisione delle competenze  può essere la principale leva di miglioramento delle performance dello studio. Questo può essere facilitato attraverso riunioni regolari del personale, discussioni informali, la creazione di una base di conoscenze interna, la predisposizione condivisa di procedure standard. L’obiettivo è garantire che le competenze e le migliori pratiche non vadano perse o rimangano confinate a singoli individui, ma siano condivise nell’intero studio.

La digitalizzazione e archiviazione dei documenti. Uno dei principali aspetti della gestione del know-how negli studi notarili riguarda la digitalizzazione dei documenti e la loro archiviazione. La conversione dei documenti cartacei in formato digitale consente una pluralità di benefici: una maggiore efficienza operativa, una riduzione dei tempi di ricerca di specifici documenti, una riduzione dei costi legati allo spazio fisico, una maggiore sicurezza dei dati, una migliore interazione con il cliente e una sua maggiore soddisfazione.

Come applicare il knowledge management all’interno dello studio notarile? Il processo si articola almeno nelle seguenti fasi:

  1. Identificazione, analisi e raccolta delle conoscenze nella loro forma esplicita (documenti, dati, procedure) o tacita (esperienze individuali, abilità personali)  che possono provenire da fonti interne (notai, collaboratori) o esterne (norme di legge).
  2. Organizzazione e Catalogazione della conoscenza, anche eventualmente attraverso l’uso di database, sistemi di gestione documentale, metadati e altre tecniche per consentire una facile ricerca e recupero delle informazioni quando necessario.
  3. Condivisione e Distribuzione, che può avvenire attraverso strumenti digitali come intranet, forum, wiki e piattaforme di collaborazione
  4. Utilizzo e applicazione della conoscenza, mediante l’adozione di apposite procedure, l’utilizzo di strumenti di lavoro approvati, il monitoraggio costante delle performance dei processi e l’intervento strutturato nella gestione delle non conformità.
  5. Aggiornamento Continuo, non solo delle conoscenze delle persone ma anche di documenti (vedi ad esempio, gli schemi d’atto) e delle procedure, nonché l’adattamento alle nuove conoscenze e alle mutevoli circostanze.

Una maggiore valorizzazione del know how dello studio e una sua gestione più consapevole e strutturata potrà consentire allo studio risultati migliori sia in termini di efficacia (nell’ottica di una maggiore soddisfazione del cliente) sia in termini di efficienza (nell’ottica di una maggiore redditività dei processi operativi).

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network