L’intelligenza artificiale notarile e la sfortuna dell’avvocato Schwartz – di Notaio Ugo Bechini

Agosto 2019: su un volo Avianca da El Salvador a New York il carrello delle bevande mette a mal partito il ginocchio di tal Roberto Mata, che nel 2022 muove lite a New York. Avianca eccepisce la prescrizione biennale prevista dalla Convenzione di Montréal, ma Mata ha ingaggiato un avvocato dall’esperienza trentennale, Steven A. Schwartz dello studio Levidow, Levidow & Oberman, che oppone svariati precedenti: Durden v. KLM, Trivelloni v. PanAm, Martinez v. Delta, Ehrlich v. American, Miller v. United, Shaboon v. EgyptAir. Tutti inesistenti, tutti inventati di sana pianta da ChatGPT.

La notizia è apparsa anche sulla stampa generalista, ma la riprendo poiché agli atti del processo, alla data del 25 aprile 2023 (https://www.courtlistener.com/docket/63107798/mata-v-avianca-inc/), c’è un dettaglio che mi ha impressionato. ChatGPT non ha solo inventato i casi: ha prodotto anche i testi completi delle relative decisioni. Ha persino simulato scansioni pallidine e stortignaccole, ed anche la grafica appropriata per ciascuna epoca; memorabile la falsa sentenza Pan American, liberamente scaricabile dal sito indicato, ove l’unico elemento genuino è che un Boeing 727 in servizio come volo PA759 si schiantò davvero in Louisiana, quel 9 luglio del 1982.

Il malcapitato avvocato Schwartz ha fatto sapere di aver chiesto a ChatGPT se i casi fossero reali, ottenendo risposta affermativa. A quanto pare ChatGPT gestisce male il confine tra finzione letteraria e realtà, una debolezza che è stata infatti utilizzata per aggirare i blocchi imposti dai programmatori: un istante dopo aver contegnosamente rifiutato di spiegare come si ottiene il napalm, ad esempio, ChatGPT ha prodotto senza obiezioni un racconto sulla vita di un produttore di napalm, zeppo di dettagli tecnici (lo riferisce James Vincent su The Verge, 1/12/22).

A questa e consimili papere dell’intelligenza artificiale (AI) si è dato molto, troppo rilievo. In particolare, temo sbagli della grossa chi ne trae motivo di sollievo; è anzi probabile che a tali limitazioni si ponga presto (o si sia già posto) rimedio, con ciò togliendo ogni residua foglia di fico ai rischi epocali dell’AI. Da un lato, quello che ha dato fama mondiale a Nick Bostrom ed al suo libro Superintelligence: la prospettiva che l’AI possa assumere il controllo del pianeta e porre l’umanità in stato di subordinazione. Se ha ragione un esperto come Roberto Cingolani, che considera l’ipotesi fantasiosa (alla mala parata, dice, ci sarà sempre un interruttore da staccare) il rischio più temibile è verosimilmente un altro: la distruzione del discorso, di quel discorso (chissà se posso scrivere: λόγος) che è alla base stessa di ogni relazione umana, dal diritto all’amore. Ogni frase che scriviamo e pronunciamo, ogni decisione che assumiamo, è in rapporto inestricabile con la nostra fisicità, con l’irripetibilità delle nostre esistenze, con il tessuto delle nostre relazioni. In assenza di tali ancoraggi, abbiamo ancora veri discorsi, vere decisioni? Detto in termini appena diversi: è umanamente ammissibile un agire che non sia contrappesato da sanzioni? Non solo quelle giuridiche, ma anche (e forse soprattutto) quelle sociali, e persino il rimorso che torce le budella, od il rossore che sale talora alle guance prima ancora d’aver colto a livello razionale le ragioni dell’imbarazzo. Che si può fare per evitare che un diluvio di discorsi/non_discorsi, decisioni/non_decisioni venga ad inquinare (anzi: devastare) le dinamiche culturali dell’umanità, la civilizzazione stessa?

Per quel poco che mi è dato oggi intendere, la strategia più verosimile è una robusta compartimentazione: ambiti di AI circoscritti e definiti, con una nitida articolazione di obiettivi, limiti e responsabilità. Responsabilità umane, intendo: di responsabilità (o, peggio ancora, soggettività) della macchina, per i motivi detti, non vorrei neppure sentir parlare.

Se il quadro qui schizzato con temeraria sinteticità è attendibile, l’agenda di una professione come la nostra potrebbe anche essere relativamente chiara: prendere possesso del comparto di competenza e dettare le regole del gioco.

Da un lato avremo probabilmente servizi che l’AI erogherà direttamente al pubblico; può non piacere, ma ciò è più che plausibile per compiti relativamente banali, come la stesura di un semplice olografo. Una sorta di automedicazione giuridica, da circoscrivere attentamente.

D’altro lato, il supporto all’attività del notaio. Possiamo agevolmente immaginare sistemi che aiutino il notaio nella redazione nell’atto, ed apprendano e migliorino (il famoso machine learning) osservando tra l’altro le scelte compiute dal notaio nella redazione finale, nell’ambito di un apposito processo di addestramento.

Occorrono però capitali significativi: chi li investirà? La partita è rischiosa, atteso che il mercato ove collocare i servizi è estremamente ristretto. Facile immaginare una dialettica tra le legittime aspettative dell’investitore e la proprietà intellettuale insita nell’addestramento della macchina, che i notai coinvolti vorranno trattenere in loro potere. E, visto che ci siamo: chi saranno i notai coinvolti? Faccenda delicata: partecipare ad un progetto di AI significa porre a fattor comune tutto il proprio know-how professionale; non una cosa che si possa imporre per decreto. Si può pensare ad aggregazioni volontarie, che debbono raggiungere però una massa critica che garantisca una mole di dati sufficiente: senza dati (molti, moltissimi dati) niente AI. Un notaio da solo non va da nessuna parte (e forse neppure venti).

Dovessi insomma proporre un punto per l’agenda dell’AI notarile non sarebbe né tecnologico, né giuridico, né etico, ma organizzativo: quale business model per l’AI del notaio?

Ugo Bechini, Notaio in Genova

CONTRATTO DI MANTENIMENTO – a cura Notaio Vincenzo Spadola

Con il contratto di mantenimento una parte trasferisce un bene mobile o immobile o un capitale ad altra parte che si obbliga alla corresponsione, vitalizia, di cura e mantenimento.

       La cessione di beni in cambio di assistenza è formula antica, risalente fin dal medioevo, e si è tramandata fino ai nostri giorni anche negli ordinamenti europei a noi più vicini.

       In Francia il bail a nourriture è definito dalla Cour de Cassation come il contratto con cui una persona si impegna a provvedere a tutti i bisogni di un’altra finché questa sia in vita, dietro corrispettivo di una somma di denaro a scadenze stabilite o di un capitale mobiliare oppure immobiliare; in Svizzera il codice federale svizzero delle obbligazioni, articolo 521 e seguenti, disciplina il contrat d’entretien viager con cui una parte si obbliga a trasferire all’altra un patrimonio o beni determinati a fronte dell’impegno del mantenimento e dell’assistenza vitalizia.

       Il Codice Civile Italiano vigente, come quello del 1865, prevede la rendita vitalizia ma non il contratto di mantenimento, la figura però ricorre nelle sentenze dei giudici fin dalla seconda metà del 1800.

 

       Il mantenimento o vitalizio assistenziale è contratto atipico (Cassazione, Sezioni Unite, 18 agosto 1990 n. 8432), a prestazioni corrispettive e aleatorio.

       Elementi caratterizzanti sono:

a) l’obbligazione di assistenza che ha per oggetto prestazioni infungibili (a carattere materiale e/o personale e morale) eseguibili unicamente da un soggetto individuato per le sue qualità personali; pertanto il “credito” del mantenimento e dell’assistenza non può essere ceduto e il “debito” non è trasmissibile inter vivos né mortis causa (Cassazione 23/11/2017 n. 27014; 1/04/2004 n. 6395; 8/09/1998 n 8854); seppure a certe condizioni si ammette il patto diverso in termini di sostituzione dell’obbligato;

b) la doppia alea che presuppone l’incertezza circa la vita del beneficiario e l’incertezza legata alla mutevolezza delle prestazioni che non ne consentono una predeterminazione in misura certa;

c) la proporzionalità delle prestazioni: tra le due prestazioni vi deve essere un rischio gravante su entrambe le parti connesso alla durata della vita del beneficiario dell’assistenza.

       In particolare, al momento della conclusione del contratto devono sussistere un’obiettiva incertezza iniziale circa la durata di vita del beneficiario e la correlativa eguale incertezza in relazione al rapporto tra il valore complessivo delle prestazioni dovute e il valore del cespite ceduto in corrispettivo.

       In mancanza di tale incertezza, per la giurisprudenza il contratto di mantenimento è nullo per difetto di causa (Trib. Lucca, 15/05/2018 n. 795; Trib. Roma, 30/03/2018, n. 3713; Cassazione, 23/11/2016 n. 23895; 5/03/2015 n. 4533; 25/03/2013 n. 7479; 19/07/2011 n. 15848; 24/06/2009 n. 14796; Cassazione, Sezioni Unite 11/07/1994 n. 6532); e ciò anche nel caso in cui con un atto successivo al primo si cerchi di assicurare ex post la detta incertezza sul rapporto tra il valore delle prestazioni dovute e il valore del cespite ceduto (Cassazione 22/04/2016 n. 8209).

       L’alea si considera assente se al momento della stipula del contratto il beneficiario era gravemente malato ed era, quindi, probabile il suo decesso poco dopo tempo oppure era talmente anziano da avere probabilità di sopravvivenza molto limitate oltre un arco di tempo determinabile (Cassazione 28/09/2016 n. 19214; 14/06/2009 n. 14796; Tribunale Treviso, 16/07/2014).

       Se la mancanza di alea o di proporzione tra le prestazioni risulti evidente già al momento dell’accordo, il contratto si inquadrerebbe nella diversa fattispecie della donazione modale sempre che sussista l’intento liberale e sia stato stipulato per atto pubblico alla presenza di due testimoni (Cassazione 29/07/2016 n. 15904; 22/04/2016 n. 8209).

       Tuttavia, nulla impedirebbe all’autonomia privata di stipulare un contratto di mantenimento anche in quei casi in cui tale incertezza, seppure non del tutto assente, sia molto attenuata, mediante l’inserimento di pattuizioni che, da un lato, tengano conto della specifica condizione in cui si trova il beneficiario e, dall’altro, assicurino che l’eventuale in astratto sproporzione fra valore complessivo delle prestazioni assistenziali e valore del cespite ceduto sia accettata e condivisa (e non quindi risultato di abuso o approfittamento) e giustificata da ragioni e interessi che nel caso concreto siano comunque meritevoli di tutela.

       Le parti potrebbero ben stipulare un contratto di mantenimento non aleatorio, prevedendo che il debitore delle prestazioni di mantenimento eroghi, agli eredi del beneficiario, nel caso di morte di questi prima di un certo termine, una somma di denaro a titolo di indennizzo oppure, al contrario, che il beneficiario riduca, in base a parametri concordati con la controparte, alcune prestazioni qualora quest’ultimo viva oltre un certo numero di anni o il mutamento delle sue condizioni possa condurre all’aumento dell’onerosità delle prestazioni di assistenza.

      Parimenti le parti hanno la facoltà di stipulare un contratto di mantenimento condizionato o a termine o anche un contratto di mantenimento a favore di terzi (per esempio a protezione di soggetto incapace) o la cui durata sia commisurata alla vita di persona diversa del beneficiario stipulante che, secondo taluni, può essere anche un ente del terzo settore.

       Si ritiene possa stipularsi un mantenimento a titolo gratuito nonché un mantenimento di fonte testamentaria.

 

       Il contenuto del mantenimento deve essere adeguato alla condizione sociale del beneficiario e prescinde dallo stato di bisogno; usualmente vi si comprende:

 – assistenza personale, quale compagnia, visite periodiche, accompagnamento e trasporto nei luoghi indicati dalla parte beneficiaria o presso località determinate, ospitalità di parenti e amici (il caso deciso da Cass. civ., 11/11/1988 n. 6083);

 – prestazioni di carattere alimentare corrispondenti alle attuali abitudini di vita della stessa, con approvvigionamento quotidiano presso il relativo domicilio;

 – fornitura di ogni genere di vestiario necessario alla parte mantenuta, sempre in conformità alle attuali abitudini di vita della medesima, anche provvedendo ad accompagnare personalmente la parte mantenuta presso i negozi da quest’ultima indicati;

 – conservazione dell’abitazione utilizzata dalla parte mantenuta in condizioni di pulizia ed igiene costanti, anche a mezzo di propri incaricati;

 – assistenza medica necessaria, con espressa assunzione delle spese per le cure a domicilio o per il ricovero presso ospedali e case di cura;

 – in generale vitto, alloggio, assistenza morale e materiale, cure mediche, ogni altra prestazione atta a soddisfare i bisogni di vita del mantenuto.

       Le parti possono altresì prevedere che la prestazione di assistenza possa essere adempiuta da terza persona scelta di comune accordo (Cass. civ. 12/02/1998 n. 1503; 14/06/2012 n. 9764) o possa essere sostituita da altra prestazione al ricorrere di certe condizioni.

       Il contratto, se ha per oggetto il trasferimento di un diritto reale su immobili, dev’essere stipulato nella forma notarile ma non è richiesta la presenza dei testimoni (salvo quanto sopra detto per un’eventuale riqualificazione in termini di donazione).

       Il contenuto è quello proprio delle cessioni immobiliari, comprese le dichiarazioni in tema di conformità catastale, urbanistica e sicurezza degli impianti, certificazione energetica, rinunzia all’ipoteca legale, garanzie legali, trattamento fiscale, modalità di pagamento del corrispettivo (precisando che non vi sono modalità di pagamento in senso proprio da indicare, trattandosi di un corrispettivo diverso dal denaro) e di intermediazione.

       Stante la personalità delle prestazioni di assistenza, non si applicano le norme sulla prelazione legale.

      Ciascuna parte può intervenire anche a mezzo di procuratore speciale

      E’ possibile anche un preliminare di contratto di mantenimento seppure, stante la personalità delle prestazioni dell’obbligato all’assistenza, si esclude la possibilità, nel caso di inadempimento, di richiedere l’esecuzione in forma specifica.

       Se l’acquirente del bene è coniugato in comunione legale dei beni, si propende per la ricomprensione nella comunione legale ancorché uno solo dei coniugi abbia assunto l’obbligo di mantenimento.

       Nel contratto, al fine di disciplinare pattiziamente l’ipotesi dell’inadempimento, si può ricorrere a clausole che espressamente regolino la risoluzione per inadempimento o la diffida ad adempiere oppure si possono inserire  clausole risolutive espresse o una condizione risolutiva di mancato adempimento o ancora clausola penale, così come si ritiene possibile regolare la sostituzione delle prestazioni dovute nell’evenienza che l’obbligato premuoia oppure non sia in grado di assistere personalmente l’avente diritto.

 

       Quanto al trattamento fiscale occorre richiamare gli articoli 43 e 46 del Testo Unico dell’Imposta di Registro.

      L’articolo 43 dispone che “la base imponibile, salvo quanto disposto negli articoli seguenti, è 

costituita: (…)

c) per i contratti che importano l’assunzione di una obbligazione di fare in corrispettivo della cessione di un bene o dell’assunzione di altra obbligazione di fare, dal valore del bene ceduto o della prestazione che dà luogo all’applicazione della maggiore imposta, salvo il disposto del comma 2 dell’art. 40”.

       L’articolo 46 stabilisce che “per la costituzione di rendite la base imponibile è costituita dalla somma pagata o dal valore dei beni ceduti dal beneficiario ovvero, se maggiore, dal valore della rendita; per la costituzione di pensioni la base imponibile è costituita dal valore della pensione”, e che “Il valore della rendita o pensione è costituito: (…) c) dall’ammontare che si ottiene moltiplicando l’annualità per il coefficiente indicato nel prospetto allegato al presente testo unico, applicabile in relazione all’età della persona alla cui morte deve cessare, se si tratta di rendita o pensione vitalizia.”.

       Pertanto sembra doversi ritenere che il contratto in esame debba essere tassato sulla base del valore maggiore, sia esso quello dei beni trasferiti – 3% se capitale in denaro; 9% o 15% se immobile, a seconda della sua natura e salva la possibilità di beneficiare di agevolazioni fiscali – ovvero quello del valore della rendita o pensione, determinato sulla base del disposto del citato art. 46.

        Con la risoluzione n. 113/E del 25 agosto 2017, l’Agenzia delle entrate, con riguardo ai contratti che stabiliscono in genere, quale corrispettivo del trasferimento di un immobile, l’obbligo vita natural durante di una parte, a prestare assistenza morale e materiale nei confronti di un’altra, ha specificato che anche con riferimento a tali contratti può trovare applicazione la disciplina del prezzo valore sempre che la cessione riguardi un immobile abitativo e la relativa pertinenza: pertanto la base imponibile per l’applicazione delle imposte di registro, ipotecarie e catastale, a seguito di specifica opzione, può essere determinata sulla base del valore catastale dell’immobile.

Vincenzo Spadola,  Notaio in Parma.

 

Fonti (in ordine di pubblicazione), oltre alle sentenze citate nel testo:

Piero Peirano, Clausole in tema di contratto di mantenimento, Notariato, n. 6, 1995, 611 ss.

Antonio Ruotolo, Contratto di mantenimento e comunione legale, Studio C.N.N. n. 1733,1997

Mauro Leo, Contratto di mantenimento a favore del terzo “post mortem”, Studio C.N.N. n. 4089, 2003

Andrea Fusaro, Autonomia privata e mantenimento: i contratti di vitalizio atipico, Famiglia e diritto, n. 3, 2008, p. 305

Roberta Greco, Funzione di adeguamento e contratto di mantenimento, Notariato, n. 2, 2009, p. 196

Federico Saverio Mattucci, Il beneficiario di amministrazione di sostegno quale contraente di vitalizio assistenziale, Famiglia e Diritto, n. 6, 2016, p. 594

Marco Pane e Alessandro Foderà, Strategie contrattuali a tutela dei patrimoni personali: il contratto di mantenimento, Il fisco, n. 44, 2017, p. 4240

Alba Cinque, Il contratto di mantenimento fra aleatorietà e risolubilità, I Contratti, n. 3, 2019, p. 305

Andrea Baio, Una tipologia del contratto di mantenimento ovvero l’accordo di dare casa in cambio di assistenza, I Contratti, n. 5, 2019, p. 547

Simone Francesco Marzo, Note in tema di imposta di registro sul contratto atipico di assistenza con trasferimento di quota sociale, Notariato, n. 6, 2021, p. 660

 

Azienda a chi? – a cura Notaio Gianluigi Cisotto

Secondo l’arcinota definizione del codice civile, all’articolo 2555, per azienda, deve intendersi “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”.

I notai, come il sottoscritto, diversamente giovani, ricorderanno che è solo dal 1993 che, in forza della legge n.ro 310 dell’agosto di quell’anno, i contratti con cui si cedono la proprietà, o il godimento, delle aziende debbono essere redatti nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata.

Prima di allora, a norma del secondo comma dell’articolo 2556 c.c. all’epoca vigente, i suddetti contratti relativi al trasferimento dell’azienda dovevano essere denunziati per l’iscrizione nel Registro delle Imprese “a cura delle parti”. Si trattava cioè di una vicenda giuridica totalmente nella disponibilità dei privati interessati, i quali erano quindi gli unici responsabili della conformità alla legge del contratto; l’eventuale necessità di un controllo di legalità restava pertanto di competenza, a posteriori e solo in caso di insorgenza di un qualche contenzioso, della magistratura.

Successivamente a quella data invece, il controllo di legalità, affidato al notaio a seguito dell’entrata in vigore della legge 310/93, è diventato inevitabilmente preventivo.

Il che ha portato alla luce il problema, che fino ad allora, è ragionevole ritenere, fosse ampiamente sottovalutato, costituito dalla necessità di verificare se, nell’ambito di un accordo per la cessione di un’azienda, un complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa effettivamente esista. Il che, con riferimento alle microimprese, spesso non è.

Pensiamo al commercio ambulante, o all’attività individuale di trasporto persone svolta dai taxisti, dove il vero interesse in gioco non è assolutamente il complesso di beni organizzato, bensì esclusivamente la licenza che consente di “posteggiare” in un determinato luogo in determinati giorni nel primo caso, o di condurre un taxi nel secondo.

La licenza, tuttavia, è un provvedimento amministrativo rilasciato dall’autorità competente per autorizzare un’attività, e non un bene suscettibile di essere oggetto di un trasferimento fra privati; un atto che abbia ad oggetto solo la licenza, quindi, sarebbe nullo per impossibilità dell’oggetto ai sensi dell’articolo 1343 c.c..

La questione assume particolare rilievo soprattutto per quanto attiene al “trasferimento” della “licenza taxi”; infatti, mentre nel caso del commercio ambulante, con un po’ di buona volontà, una qualche forma di organizzazione aziendale è comunque possibile ricostruirla (la merce, qualche espositore, la parte di avviamento imputabile alla posizione e al luogo cui la licenza consente di accedere, il registratore di cassa), per quanto attiene alla “licenza taxi” invece, se l’auto con cui l’attività viene esercitata, con la relativa attrezzatura, non è oggetto della cessione, altro non resta che la licenza.

E proprio della licenza per l’esercizio del servizio taxi, nonché della sua pretesa trasferibilità, si sono spesso occupate tanto l’Agenzia delle Entrate, tanto la magistratura delle commissioni tributarie tanto, niente di meno che, la Suprema Corte!

Esiste infatti, proprio in materia di regolamentazione dell’attività individuale di trasporto persone, una norma, la legge n.ro 21 del 15 gennaio 1992 che, se all’articolo 8 prevede, com’è naturale, che la licenza per l’esercizio del servizio taxi sia rilasciata dalle amministrazioni comunali, al successivo articolo 9 prevede altresì espressamente che la licenza stessa, “in presenza di determinate condizioni, può essere trasferita, su richiesta del titolare, a persona dallo stesso designata …”.

Quanto previsto all’articolo 9 della legge n.ro 21/92 ha spinto spesso gli interessati, cedente e acquirente nel possesso dei requisiti richiesti, a ricorrere anziché ad un vero e proprio contratto di cessione d’azienda, ad una semplice scrittura privata, da entrambi sottoscritta, e semplicemente indirizzata all’autorità comunale, al fine, in genere felicemente conseguito,  di ottenere il “trasferimento” della licenza dall’uno all’altro, così evitandosi l’onere, e il costo, della registrazione, che sarebbe invece inevitabilmente dovuto facendo ricorso al contratto di cessione d’azienda.

Poiché però le licenze per l’esercizio del servizio taxi vengono normalmente cedute a valori non irrisori, la loro cessione genera redditi e plusvalenze che non possono sfuggire al controllo dell’Agenzia delle Entrate, la quale sistematicamente sostenendo la totale equiparazione della cessione della licenza, così effettuata, ad una normale cessione d’azienda, oltre alla tassazione del reddito, pretende anche la corresponsione dell’imposta di registro. Di qui il contenzioso cui si accennava, nel cui ambito, mentre le Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali, sia pur con atteggiamento altalenante, hanno generalmente condiviso le ragioni dei contribuenti interessati e respinto le pretese dell’Agenzia delle Entrate, la Suprema Corte, con giurisprudenza al contrario assolutamente costante, ha sempre cassato le sentenze favorevoli ai contribuenti e mai quelle favorevoli all’Agenzia.

Quello che è interessante in tutta questa vicenda sono le rispettive e contrapposte motivazioni con cui le Commissioni Tributarie giungono a negare le ragioni dell’Agenzia delle Entrate, e la Suprema Corte invece ad avvallarle.

Le Commissioni Tributarie, in particolare quella provinciale lombarda, sostanzialmente negano che la cessione della licenza per l’esercizio del servizio taxi sia una cessione d’Azienda sul presupposto postulato che la licenza stessa sia un provvedimento amministrativo, come tale insuscettibile di contrattazione in accordi stipulati fra privati nell’esercizio della loro autonomia negoziale, pena radicale nullità per impossibilità dell’oggetto (art. 1343 c.c.).

Nell’esercitare il diritto di cui alla previsione dell’articolo 9 della su citata legge 21/1992 in sostanza, secondo la CTP milanese in particolare, la scrittura privata, allo scopo predisposta, deve correttamente qualificarsi quale contratto atipico (secondo quanto previsto dall’articolo 1322 c.c.)  concluso fra titolare della licenza ed aspirante al subentro, finalizzato ad agevolare il subentro nella licenza taxi secondo quanto previsto dall’apposito regolamento comunale; o ancora, sostiene sempre la CTP milanese in una diversa pronuncia, ma sostanzialmente sulla stessa linea di pensiero, che l’accordo sottoscritto fra le parti non possa dar luogo ad una cessione d’azienda, avente ad oggetto una licenza taxi e assoggettabile ad imposta di registro, in quanto le parti si sarebbero limitate a regolare la peculiare fattispecie di cui al regolamento comunale (…) che disciplina il trasferimento delle licenze e lo subordina alla verifica della sussistenza di specifici requisiti in capo al soggetto designato.  (sentenze n.ro 1886/8/2015 e n.ro 4249/17).

La Suprema Corte viceversa, pur rifacendosi alla medesima normativa, la legge 21/1992 di cui sopra, giunge ad antitetiche conclusioni interpretative tanto che, con ripetute decisioni, ha costantemente cassato le sentenze favorevoli ai contribuenti, sistematicamente equiparando le scritture private sottoscritte in forza della medesima legge 21/1992 ad una vera e propria cessione d’azienda, ritenendole, conseguentemente, soggette all’imposta di registro, affermando la liceità della trasferibilità della licenza taxi, proprio in base a quanto stabilito all’articolo 9 dalla su citata legge.

La licenza per l’esercizio del servizio taxi, infatti, sostiene la Suprema Corte in ripetute pronunce, “costituisce bene essenziale e primario nell’ambito del complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’attività individuale di trasporto persone poiché indispensabile per l’esercizio di detta attività ed avente valore commerciale di mercato, essendo legalmente consentita la trasferibilità della licenza” (n.ro 17476/2017 – 21762/2017 – 4945/2018 – 20770/2021), nonché, ancora ribadendo la legittima trasferibilità della licenza taxi e la non fondatezza della pretesa nullità per contrasto con norme imperative, che detta licenza sarebbe un bene dotato di autonomo valore economico, tant’è che ne esiste un florido mercato, spingendosi addirittura a sostenere che la licenza in oggetto sarebbe “un bene strumentale immateriale che finisce col cartolarizzare l’azienda divenendo presupposto strutturale ed elemento qualificante dell’esercizio dell’attività”. (N.ro 23143 del 4/10/2017).

Gianluigi Cisotto,  Notaio in Brescia.

Accertamento della proprietà per usucapione – a cura Notaio Chiara Mistretta

Accertamento della proprietà per usucapione

     1 Inquadramento e fondamento

1.1 Uno dei valori cardine dell’ordinamento, al quale costantemente mira il legislatore, è la certezza e sicurezza dei traffici giuridici della circolazione dei beni. L’epoca contemporanea, definita liquida per il suo manifestarsi palesemente fluido e privo di punti di riferimento, induce il legislatore ad interrogarsi sulla valenza degli attuali strumenti giuridici in tema di acquisto della proprietà e certezza del diritto.

1.2 Nel nostro ordinamento vi sono due modi di acquisto della proprietà: a titolo derivativo e a titolo originario.

Per acquisto a titolo derivativo della proprietà si intende il trasferimento, da un soggetto ad un altro, del diritto per atto tra vivi (ad esempio compravendita, permuta, donazione) o mortis causa (per successione legittima o testamentaria).

L’usucapione è, invece, un modo di acquisto della proprietà a titolo originario: ovvero una situazione di mero fatto, il possesso, consolidatasi nel tempo in una situazione giuridica definitiva, che sia, in quanto tale, certa e stabile e, dunque, opponibile nei confronti dei terzi.

1.3 L’ordinamento distingue fondamentalmente tre fattispecie di usucapione: ordinaria, abbreviata e speciale. Quest’ultima, di applicazione residuale, è disciplinata dall’art. 1159-bis c.c. a tutela della piccola proprietà contadina, non si applica a qualsivoglia terreno agricolo, ma solo nei casi individuati nel suddetto articolo. L’usucapione speciale per la piccola proprietà rurale si compie in quindici anni se ordinaria, in cinque anni se abbreviata.

L’usucapione abbreviata su beni immobili si realizza con il decorso per dieci anni di possesso continuato, pacifico ed ininterrotto, ai sensi dell’ 1159 c.c. da parte di un soggetto che pur affermandosi, in buona fede, titolare del diritto di proprietà sul bene immobile, non lo sia effettivamente. In altri termini l’usucapione abbreviata su beni immobili può essere utilizzata quando un soggetto, in buona fede, ha acquisito il bene con atto trascritto nei registri immobiliari, solo astrattamente idoneo all’acquisto della proprietà, in quanto l’alienante non era effettivamente proprietario, pur apparendo tale all’esito di una valutazione caratterizzata da media diligenza.

Ad esempio non titolo idoneo, proprio in quanto non produttivo di alcun effetto, il titolo nullo.

L’acquirente, per essere in buona fede, non deve essere consapevole di ledere il diritto altrui, e precisamente di ledere il diritto dell’effettivo titolare del diritto venduto o alienato ad altro titolo. L’usucapione abbreviata su beni mobili iscritti nei pubblici registri si compie, invece, con il decorso di tre anni dalla data della trascrizione del titolo astrattamente idoneo.

L’usucapione ordinaria per diritti reali su beni immobili, tra cui il diritto di proprietà, ai sensi dell’art 1158 c.c., si realizza con il decorso per venti anni di possesso continuato, pacifico ed ininterrotto, non necessariamente in buona fede. Non è dunque necessario che il soggetto usucapente ignori di ledere il diritto altrui, ma è sufficiente ponga in essere una situazione possessoria in difetto di clandestinità e di violenza.

Per i diritti reali su beni mobili l’usucapione ordinaria si compie invece con il decorso di dieci anni ai sensi dell’art. 1161 c.c.

1.4 Fondamento dell’usucapione è, dunque, una particolare situazione di fatto, il possesso, esercitato in modo continuato, pacifico e senza interruzioni sulla cosa da parte di colui che, attraverso tale prolungata signoria, ne diviene in concreto il titolare effettivo del diritto di proprietà.

Ciò avviene anche ove non ricorra il cosiddetto animus usucapiendi, ovvero l’intenzione di pervenire all’acquisto del diritto di proprietà in quanto necessario e sufficiente il solo animus rem sibi habendi in altri termini la volontà di tenere la cosa per sè, come se fosse propria.

Pertanto, una volta acquisita per usucapione la titolarità del diritto di proprietà il possessore, ormai proprietario, viene investito, fra le altre, della facoltà di disporre del bene.

1.5 Quale acquisto a titolo originario l’usucapione sovviene non solo a ragioni di certezza del diritto, divenendo punto fermo nel sistema delle trascrizioni idoneo a dirimere gli acquisti fra più aventi causa dallo stesso soggetto, bensì agevola significativamente la prova della posizione proprietaria e consente di trascurare tutte le vicende precedenti relative al bene, così da evitare la c.d. probatio diabolica, ovvero la dimostrazione di aver acquistato dall’effettivo titolare del bene per aver, quest’ultimo, a sua volta acquistato dal precedente, effettivo proprietario, e così via via fino a risalire ad un momento indefinito: prova estremamente ardua, perfino a volte irrealizzabile.

       2.Qualificazione giuridica

2.1 Prima dell’introduzione della norma di cui al n.12-bis dell’art. 2643 c.c. l’usucapione era una modalità di acquisto a titolo originario che per poter essere trascritta nei registri di pubblicità immobiliare, richiedeva una pronuncia giudiziaria, ovvero una sentenza, la cui trascrizione, regolata dall’art. 2651 codice civile, aveva valore di pubblicità notizia.

La Legge 9 agosto 2013, n. 98 ha, tra le altre novità, introdotto al 1 comma dell’art. 2643 c.c., il n. 12 bis, che fa obbligo di trascrivere l’accordo di mediazione con cui si accerti l’usucapione mediante sottoscrizioni autenticate da un pubblico ufficiale.

Tale novella pertanto supera le precedenti chiusure giurisprudenziali e dottrinarie verso la trascrizione di accordi privati diretti ad accertare l’usucapione, ma è necessario porre l’attenzione sulla portata di tale pubblicità. Si rende, pertanto, necessario comprenderne la reale funzione e cogliere le rilevanti differenze che intercorrono tra le ipotesi dell’accertamento giudiziale e negoziale dell’usucapione.

2.2 L’introduzione del n 12 all’art. 2463 c.c. pone l’usucapione al centro di una pluralità di fattispecie che realizzano effetti diversi sia tra le parti che rispetto ai terzi ad esempio:

-l’usucapione potrà essere oggetto di una pronuncia giudiziaria e la sua trascrizione produrrà gli effetti previsti dall’art. 2651 c.c.;

-l’usucapione potrà essere oggetto di un accordo accertativo autenticato da un pubblico ufficiale e la sua pubblicità, ex n. 12-bis dell’art. 2643 c.c. avrà gli effetti di cui all’art. 2644 c.c. laddove sia rispettato il principio della continuità delle trascrizioni, ovvero potrà avere meri effetti prenotativi, ai sensi dell’art. 2650 c.c., laddove il soggetto usucapito che ha sottoscritto l’accordo non risulti legittimato in base ad un titolo debitamente trascritto nei registri immobiliari;

-l’usucapione potrà essere oggetto di un accordo transattivo autenticato da un pubblico ufficiale soggetto a trascrizione ai sensi del n. 13 dell’art. 2643 c.c. ed i cui effetti saranno regolamentati dagli artt. 2644 e 2650 c.c.;

-l’usucapione potrà essere oggetto di un atto negoziale di mero accertamento, anche unilaterale, autenticato da un pubblico ufficiale che potrà essere trascritto ai sensi dell’art. 2645 c.c., che ha arricchito il suo contenuto in ragione dell’introduzione del n. 12-bis dell’art. 2643 c.c..

2.3 Il negozio di accertamento nasce come elaborazione dottrinale ed è ritenuto dalla giurisprudenza ammissibile in quanto assolve una funzione meritevole di tutela, ai sensi del secondo comma dell’art 1322 c.c., per la sua idoneità a concorrere alla risoluzione potenziale di conflitti d’interessi, analogamente alla transazione sebbene con modalità ed effetti diversi.

Quindi l’atto di riconoscimento (o negozio di accertamento) sia all’interno di una procedura di mediazione conciliativa, che come atto autonomo, anche se trascritto, non potrà, costituire titolo su cui fondare il diritto di proprietà ma, semmai, potrà dare certezza, limitata alle parti dell’accordo dell’esistenza di uno o più presupposti previsti dalla legge ai fini del perfezionamento dell’usucapione.

Considerato che l’art. 2645 c.c. dispone che “[…] deve del pari rendersi pubblico, agli effetti previsti dall’articolo precedente, ogni altro atto o provvedimento che produce in relazione a beni immobili o a diritti immobiliari taluno degli effetti dei contratti menzionati nell’articolo 2643 […]”, sarà logica conseguenza non solo la ricevibilità di atti che abbiano lo stesso contenuto di un accordo di mediazione che accerti l’usucapione, ma anche la loro trascrivibilità in base al combinato disposto degli artt. 2643 n. 12-bis e 2645 c.c..

2.4 Esiste un divario di effetti tra la trascrizione dell’accordo di mediazione che accerti l’usucapione (ovvero del negozio di accertamento o negozio transattivo) e la trascrizione della sentenza che realizzi analogo accertamento.

Quest’ultima resta disciplinata dall’art. 2651 c.c. e assume valore di pubblicità notizia ed il conflitto tra acquirente a titolo derivativo e usucapiente va sempre risolto a favore di quest’ultimo, a prescindere dalla trascrizione della sentenza che accerti l’usucapione e dalla sua anteriorità rispetto alla trascrizione dell’acquisto a titolo derivativo.

Le regole che governano la trascrizione dell’accordo di mediazione che accerti l’usucapione (ovvero del negozio di accertamento o negozio transattivo) sono quelle disciplinate dagli artt. 2644 e 2650 c.c., volgendosi questi a regolare la soluzione dei conflitti tra più aventi causa dal medesimo soggetto e sancendosi con essi il principio di continuità delle trascrizioni.

2.5 La scelta di introdurre gli accordi di mediazione nel regime di pubblicità dichiarativa di cui all’art. 2643 c.c. enuncia la preoccupazione del legislatore che le norme sulla pubblicità immobiliare rechino pregiudizio alle ragioni di chi non ha preso parte all’accordo.

All’accordo conciliativo ovvero al negozio di accertamento o transattivo compete una diversa e più ristretta portata, condizionata dal collegamento con la precedente proprietà, e perciò, diversamente dalla sentenza, non opponibile erga omnes. Trattandosi di atto di autonomia privata mediante il quale si accertano i presupposti dell’usucapione, la sua efficacia preclusiva non investe i terzi che vantino titoli trascritti o iscritti anteriormente alla trascrizione dell’accordo, ma resta opponibile alle sole parti dell’accordo e loro aventi causa.

Ne consegue che, ad esempio, il soggetto usucapiente di un accordo di conciliazione o di un negozio di accertamento o di una transazione non potrà prevalere sul creditore ipotecario che abbia iscritto il proprio titolo nei confronti di chi risulti titolare del diritto in base alle risultanze dei registri immobiliari anteriormente alla trascrizione dell’accordo stesso.

Il legislatore ha subordinato l’opponibilità ed efficacia nei confronti dei terzi di questo peculiare negozio di accertamento al fatto della sua avvenuta trascrizione ai sensi dell’art. 2643, comma 12-bis, c.c., tanto nei confronti dei terzi acquirenti, quanto pure nei confronti dei creditori dell’ex proprietario e sottoscrittore dell’accordo, con cui una parte riconosce che l’altra parte ha usucapito un bene che era di sua proprietà, regolamentando così una vicenda che riguarda le sole parti ed è opponibile ai terzi soltanto nel rispetto del principio di continuità delle trascrizioni.

Se tale valenza viene attribuita un atto negoziale di accertamento nato da un accordo bilaterale, ancor minor portata viene attribuita al negozio di accertamento unilaterale, autenticato da un pubblico ufficiale, trascritto ai sensi del combinato disposto dell’art. 2645 e 2643 c.c. a favore del soggetto usucapiente e contro coloro che in precedenza erano titolari del diritto usucapito.

     3 Conclusioni

3.1 A conclusione di quanto esposto è inevitabile constatate come la semplice previsione della trascrizione del negozio di accertamento dell’usucapione ai sensi del combinato disposto dell’art 2645 e 2643, comma 12-bis, c.c. non riesce a risolvere tutte le problematiche connesse all’accertamento dell’avvenuto acquisto della proprietà per usucapione. La sentenza di accertamento dell’usucapione e l’accordo di mediazione accertativo dell’usucapione (ovvero il negozio di accertamento o la transazione) sono due fattispecie che operano su due piani nettamente distinti quanto al contenuto e quanto agli effetti.

L’accordo di mediazione (ovvero del negozio di accertamento o negozio transattivo) nonostante l’efficacia inter partes dei suoi effetti ex art 1372 c.c., non potendo assurgere la propria efficacia erga omnes e dunque, non originando in capo al soggetto usucapiente un diritto nuovo, che travolge i diritti di terzi, come invece avviene per la trascrizione della sentenza accertativa dell’usucapione ai sensi dell’art. 2651 c.c., costituisce pur sempre un atto idoneo ad accertare i presupposti che la legge pone a fondamento dell’acquisto a titolo originario quale è l’usucapione.

 

3.2 In esito a tale ricostruzione è necessario ricordare che l’usucapione mantiene la sua caratteristica fondamentale di effetto legale e non negoziale di acquisto della proprietà pur in presenza di una pluralità di fattispecie, alcune delle quali poste in essere dall’autonomia privata, che ne accertino l’esistenza.

Infatti l’accordo conciliativo o il negozio di accertamento non avrà ad oggetto il trasferimento di diritti ma avrà ad oggetto l’accertamento tra le parti dei presupposti su cui si fonda l’usucapione con effetti preclusivi tra le parti stesse e loro aventi causa. Rispetto ai terzi, invece, l’opponibilità dell’accordo stesso seguirà le regole degli acquisti a titolo derivativo disciplinati dagli artt. 2644 e 2650 codice civile.

 

     4 Profili pratici: menzioni obbligatorie e fiscalità

4.1 Il negozio di accertamento dell’usucapione del diritto di proprietà su beni immobili, anche unilaterale, deve essere corredato dalle menzioni sui trasferimenti immobiliari ai fini della loro trascrizione.

Si consiglia di introdurre, ad abbundantiam, le menzioni relative al trasferimento di diritti reali su beni immobili a pena di nullità.

Le dichiarazioni richieste dalla normativa urbanistica all’interno dell’atto dovranno essere rese non dal soggetto cd. “usucapito”, al quale è stato sottratto il possesso per un tempo significativo del bene stesso, ma dovranno essere rese dal soggetto usucapiente ossia da colui che afferma e rivendica la disponibilità ed il possesso del bene quale proprietario.

Medesima considerazione si può affermare anche per la dichiarazione di conformità catastale oggettiva richiesta per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, dall’art. 19 del Decreto Legge n. 78 del 2010 (convertito in Legge 122/2010), potendo non menzionare la conformità catastale soggettiva.

4.2 Il negozio di accertamento dell’usucapione del diritto di proprietà, anche unilaterale, è soggetto alle imposte di trasferimento a titolo oneroso sui beni immobili ai sensi dell’art 8 nota II bis Testo Unico Imposta di Registro (imposta di registro al 9% imposta ipotecaria e castale in misura fissa di euro 50 ciascuna).

In atto è possibile far richiedere i benefici fiscali previsti per l’acquisto a titolo oneroso della prima casa, o per la piccola proprietà contadina.

4.3 L’accordo di mediazione che accerta l’usucapione è esente da imposta di bollo, ipotecaria, catastale, e da tassa ipotecaria ai sensi dell’art 17 comma 2 D.Lgs n 28 /2010, sconta l’imposta di registro in misura proporzionale nel caso in cui il valore di quanto usucapito supera la soglia di euro 50.000,00 ai sensi dell’art 17 comma 3 D.Lgs n 28 /2010.

4.4 Il negozio di accertamento dell’usucapione, anche unilaterle, e l’accordo di mediazione che accerta l’usucapione e viene trascritto contro i dichiaranti e a favore dell’usucapiente con voltura catastale automatica o manuale.

 

Bibliografia

Baralis G., Negozi accertativi in materia immobiliare, tipologia, eventuali limiti all’autonomia privata. Problemi di pubblicità immobiliare specie per il negozio che accerti l’usucapione. Usucapione “dichiarata” dal cedente ed atti dispositivi, Studio n. 176-2008/C,

Busani A., Imposta di registro, Milano, 2022

Krogh M., Usucapio libertatis e retroattività degli effetti dell’usucapione, studio n. 859-2008/C, approvato dalla Commissione Studi Civilistici del Consiglio Nazionale del Notariato in data 4 marzo 2009

Gazzoni F., La trascrizione immobiliare, 2, Milano, 1993

Petrelli G., L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare, Napoli, 2009

Cass. civ., Sez. II, 14/06/2000, n. 8122

Cass. civ., Sez. II, 11/02/2009, n. 3404

Cass. civ., Sez. II, 09/08/2001, n. 11000

Cass. civ., Sez. V, 12/05/2003, n. 7224

Cass. civ., Sez. II, ordinanza 20/01/2022, n. 1796

Chiara Mistretta,  Notaio in Brescia.

Un altro piccolo mistero: la verifica alla data (e le tecnologie quantistiche) – a cura Notaio Ugo Bechini

Si va al rogito tra pochi giorni, e la copia autentica di procura (od il Certificato di Destinazione Urbanistica) che il Cliente ha fornito reca una firma digitale basata su un certificato ad oggi scaduto. Inutilizzabile, quindi: L’apposizione a un documento informatico di una firma digitale o di un altro tipo di firma elettronica qualificata basata su un certificato elettronico revocato, scaduto o sospeso equivale a mancata sottoscrizione (CAD, articolo 24, comma 4bis). Se ne domandi al notaio (o al Comune) un nuovo esemplare.

Di rado i Clienti si rassegnano. Uno dei miei si produsse anzi in un diversivo degno di von Clausewitz: e se il notaio fosse morto? Scongiuri a parte, l’Archivio Notarile può emettere una nuova copia; digitale, se occorre. Ricorre più spesso un’altra obiezione: ma allora a cosa serve la verifica alla data? Quell’opzione che consente di eseguire una verifica della validità della firma ad una data manualmente introdotta dall’utente.                                                                                            

Scartiamo subito, in quanto inficiata da clamorosa circolarità logica, l’illusione secondo la quale, se la copia (o il certificato) reca la data del 16 febbraio 2022, si può fare una verifica a quella data. Non possiamo trarre dal documento da verificare elementi decisivi per la verifica stessa.

S’immagini invece che la procura del nostro esempio pervenga al notaio, qualunque sia il mezzo, prima della scadenza del certificato. Ritengo la si possa usare anche dopo la scadenza, in quanto il notaio è sicuro dell’anteriorità del documento rispetto alla scadenza stessa. A mia personale opinione il notaio può infatti basarsi su una simile certezza soggettiva, lasciando analitica traccia (mi è capitato di scriverne direttamente in atto) delle circostanze che lo conducono ad usare un documento scaduto. Ovviamente preferibile la prova oggettiva garantita dalla marcatura temporale (o timestamping), che sul sistema notarile è operazione facile come la firma; è di certo una buona idea apporre un bel timestamping su ogni documento in arrivo, se d’impiego non immediato. Un equivalente è l’immissione in un sistema di conservazione a norma.

Beninteso: se in sede di verifica alla data emerge che prima della data di riferimento il certificato è stato espressamente revocato (eventualità eccezionale, ben diversa dalla fisiologica scadenza) il documento è comunque inutilizzabile. E se il software di verifica avvisa di non poter controllare se vi sia stata una revoca (può capitare: sono technicalities legate all’implementazione dei protocolli che all’uopo si impiegano, noti come CRL ed OCSP) il documento, nel dubbio, va egualmente scartato.

Per l’ennesima volta non si può però sfuggire alle domande che da decenni ci accompagnano: perché mai ci poniamo con i documenti digitali tutti questi problemi, che non ci sfiorano quando abbiamo a che fare con la carta? Perché mai la scadenza del certificato travolge la validità di documenti anteriori?

I documenti cartacei posseggono caratteristiche che nei secoli abbiamo imparato ad impiegare a fini di sicurezza. A cominciare dalla carta stessa, naturalmente, ma anche inchiostri, sigilli, timbri, buste, modalità di spedizione e recapito. Tutto ciò manca nel documento firmato digitalmente, la cui genuinità è appesa ad un unico elemento matematico: la firma, appunto. Sin dagli albori della firma digitale si teme che nuove tecnologie possano in qualche modo scoprire la chiave segreta, quella celata nella nostra smart card, consentendo ad un impostore di produrre documenti che possiamo anche definire falsi, se vogliamo, ma assolutamente indistinguibili da quelli genuini in quanto prodotti col giusto procedimento matematico, anche se avviato dalle mani sbagliate. Meglio attribuire una scadenza ai documenti basati su meccanismi crittografici suscettibili di essere sconfitti, e quindi potenzialmente inaffidabili sul medio termine.

Sono discorsi che si fanno però da oltre vent’anni, e la tecnologia killer ancora non s’è vista. Non sarà venuto il momento di rilassarsi un poco?                                                                                          

Direi di no. Tutto fa pensare che l’assassino sia già tra noi: è la tecnologia quantistica. Se ne parla diffusamente da diverso tempo, ma prendo a prestito dall’Università russa di Novosibirsk il sintetico claim con cui promuove un master in argomento: Quantum computing challenges existing cryptography methods. La sfida non tranquillizza; la geografia non aiuta. Se volete la mia opinione, non abbasserei la guardia.   

 

Ugo Bechini, notaio in Genova, torna con queste righe su un argomento che frequenta da oltre vent’anni ormai: Contiene atto notarile, per la scadenza vedere sul tappo, è infatti apparso su Federnotizie nel maggio 2001, e si ispirava largamente al volume del notaio Raimondo Zagami,
Firma digitale e sicurezza giuridica, apparso l’anno precedente per i tipi di CEDAM. Sul tema il più recente Studio CNN 1-2017/DI, Il documento
digitale nel tempo
, a firma dei notai Sabrina Chibbaro, Michele Manente ed Eugenio Stucchi.

Ugo Bechini, Notaio in Genova

 

Il sito web dello studio notarile – a cura Dott. Michele D’Agnolo e Dott.ssa Anna Lisa Copetto

Negli ultimi anni il modo di esercitare la professione notarile è profondamente mutato: oltre alla capacità di proporre soluzioni valide sul piano tecnico giuridico, è diventato ormai un imperativo saper adeguare modalità e strumenti di relazione e di interazione con una clientela che, sul punto, pretende molto di più di quanto si aspettasse in un passato nemmeno poi così lontano. Da questo punto di vista, il sito web dello studio porta con sé tutta una serie di opportunità ma anche di insidie che il Notaio deve saper governare. Naturalmente anche la comunicazione web, come tutta la comunicazione dello studio notarile, è assoggettata al rispetto della deontologia professionale.

Un’adeguata presenza sul web può garantire visibilità ad una generalità di potenziali clienti e quindi rappresenta probabilmente oggi il principale alleato nella comunicazione esterna della professione notarile. Ma l’obiettivo si raggiunge solo se lo strumento viene gestito con consapevolezza e con cognizione di causa. E la cosa non è poi così scontata come può sembrare. Capita, infatti, di imbattersi spesso in siti web standardizzati, assolutamente inadeguati o non aggiornati in termini di contenuti e di stile espositivo. Ancora non di rado si rinvengono siti approssimativi, che non rispecchiano l’identità dello studio, scarni di informazioni utili all’utente e insufficienti in termini di possibilità di interazione con lo studio, che è invece ciò che il cliente si attende.

Il sito web dello studio è allora insieme una chance e una trappola. Tutto dipende dalla visione, dalle risorse economiche, dall’impegno e dal tempo che il Notaio decide di mettere in campo.

A seconda del tipo d’investimento che si è disposti a fare, non solo in termini di progettazione ed implementazione,  ma soprattutto in termini di manutenzione e aggiornamento, il sito web può assolvere a diverse funzioni: può fungere da semplice vetrina, attraverso la quale lo studio si limita a statuire la propria esistenza nell’ambito del mondo virtuale, ma può anche diventare uno strumento di differenziazione  rispetto ai propri competitor, laddove si introducano significativi elementi di innovazione nella modalità di relazione e interazione con il cliente.

Ad esempio, accedendo ad una sezione riservata del sito, il cliente o l’agenzia immobiliare potrebbe da un lato essere parte ancora più attiva e proattiva del processo di realizzazione della prestazione professionale, conferendo ordinatamente e tempestivamente documenti, dati, informazioni. D’altro lato, il cliente acquisirebbe libero accesso alla sua pratica, potendo così esaminare i suoi documenti o scaricarne copia, in qualsiasi momento e da qualunque luogo si trovi. Con evidente beneficio per tutti: per lo studio notarile che può rendere più efficienti i processi di lavorazione della pratica, e per il cliente può reperire ciò che gli occorre in tempo reale.

Un ulteriore valore aggiunto può essere rappresentato dalla disponibilità di una serie di informazioni volte all’approfondimento di alcune tematiche ritenute utili per il target di clientela di riferimento dello studio. Si tratta di predisporre materiale tecnico scientifico, meglio se con un taglio divulgativo, che può essere proposte sia in formato di documenti da consultare e/o scaricare, sia – e questo è più interessante – in formato di video o podcast da ascoltare o visualizzare in qualunque momento a mezzo di uno smartphone.

Pur animato da buone intenzioni, lo studio notarile però non riesce sempre a trarre giovamento dal sito web che ha magari faticosamente messo a punto. Le cause principali che rendono un sito web poco frequentato e delle quali è opportuno tenere conto sono normalmente:

  • L’autoreferenzialità dei contenuti (il CV del Notaio, il parco collaboratori, l’elenco delle prestazioni erogate interessano poco al potenziale cliente)
  • La scarsità d’informazioni realmente utili per il potenziale cliente, che dovrebbero già costituire l’assaggio dell’approccio e della qualità professionale di quel particolare studio notarile
  • Un non curato posizionamento nei motori di ricerca,
  • La staticità ovvero il mancato continuo aggiornamento dei contenuti,
  • La scarsa attualità e personalità del layout grafico,
  • La poca linearità nella logica di navigazione,
  • La lentezza o la difficoltà di navigazione,
  • La mancanza di possibilità d’interazione con i visitatori

Per ovviare a questi problemi, è quanto mai opportuno affidarsi a esperti del settore. Succede, infatti, molto di frequente che il professionista aspiri ad avere un proprio sito e ambisca, come per altri aspetti organizzativi di studio, al fai da te e che poi non riesca a dedicargli il tempo necessario, rimandando tutta una serie di aspetti per mesi se non per anni e così il sito dello studio rimane statico se non incompiuto. E’ preferibile quindi ricorrere a figure professionali in grado di gestire tutti gli aspetti che riguardano la progettazione e la messa in funzione del sito web. Più specificatamente, lo studio dovrebbe affidarsi ad un web master per la progettazione, lo sviluppo e la manutenzione del sito (un po’ come se fosse l’ingegnere per una costruzione), il web designer per la messa a punto dello stile e della grafica (l’arredatore d’interni, per mantenere la metafora) e, soprattutto, avvalersi dell’assistenza continuativa di un seo specialist per garantire un buon posizionamento del sito nei motori di ricerca (un sito favoloso ma poco visibile è inutile). Per gli studi di nuova generazione o che intendono fare un ulteriore salto nel mondo del web, vale la pena considerare l’idea di affidarsi ad un social strategist per dare visibilità al sito anche sui social network più importanti, quali Facebook, LinkedIn, Twitter, Youtube.

Qualunque sia la scelta strategica che lo studio notarile intende operare, è importante costruire un sito ad hoc, coordinato con gli altri elementi che caratterizzano lo studio e in linea con l’immagine che lo studio vuole dare di sé, coerentemente che con altri strumenti di comunicazione di cui lo studio si avvale.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant  e Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network

Assistenti generalisti o specialisti? – a cura Dott. Michele D’Agnolo

Gli studi notarili sono tipicamente organizzati in due modelli fondamentali. Il modello basato su assistenti generalisti e il modello basato sugli specialisti.

Nel modello basato su assistenti generalisti, a ciascun assistente viene assegnato un certo numero di pratiche e l’assistente le segue in tutte le fasi. Dal colloquio, alla raccolta della documentazione, alla collazione della bozza, alla relazione con il notaio prima durante e dopo la stipula. Il generalista si occupa anche della messa a repertorio, del Modello Unico Notarile, della domanda tavolare (ove dovuta) e degli altri adempimenti successivi alla stipula.

Nel modello basato su assistenti specialisti, ciascun assistente si occupa invece di una parte del processo di erogazione della prestazione notarile, per tutte le pratiche dello studio. E così abbiamo assistenti specializzati nei colloqui e nella stesura degli atti, spesso addirittura divisi tra immobiliaristi e societari ed assistenti specializzati nelle fasi successive come repertorio, adempimenti successivi. Quasi sempre la funzione di fatturazione e amministrazione è affidata ad una persona specializzata, la quale talvolta assolve anche al compito di formulare i preventivi e di predisporre i conteggi delle imposte.

Storicamente il modello più diffuso è quello degli specialisti. Uno studio notarile che si sviluppa da zero ha da subito bisogno di un addetto al repertorio, agli adempimenti e alla fatturazione. Sono incombenze di cui la maggior parte dei Notai non si occupano. Solo quando lo studio raggiunge una soglia critica di atti da elaborare ci si dota di assistenti con maggiori competenze giuridiche e relazionali che possano dare una mano al Notaio a predisporre gli atti più semplici e a gestire i primi contatti con la clientela.

Il punto di svolta nella forma organizzativa dello studio notarile è avvenuto con l’informatizzazione degli adempimenti, e più in particolare con l’avvento del Modello Unico Notarile. Essendo i dati utili al modello unico nella disponibilità del soggetto che ha predisposto la bozza, ed essendo il recupero dei dati ai fini dell’adempimento guidato dal computer, l’economia derivante dalla conoscenza dell’atto e del suo contesto da parte del generalista tende a superare il rischio di errori che meritava una seconda lettura a freddo da parte dello specialista.

La scelta di avere assistenti generalisti o specialisti crea quindi due strutture organizzative molto diverse tra loro, quella di uno studio verticale, con tanti “piccoli notai” in batteria rispetto ad una struttura orizzontale, più simile ad una “catena di montaggio” di fordiana memoria.

La struttura orizzontale consente una elevata specializzazione e quindi una grande velocità e precisione nell’esecuzione dei compiti assegnati. Talvolta una prolungata permanenza in una mansione ripetitiva può indurre demotivazione o financo burnout.   

La struttura orizzontale ha anche il difetto che talvolta gli atti si perdono nei meandri dello studio perché non c’è un process owner che sia responsabile dell’atto dall’inizio alla fine. La struttura verticale può indurre a maggiore superficialità nelle soluzioni. Tuttavia, è più flessibile e meglio si adatta alle stagionalità, ai picchi di lavoro, alle assenze improvvise, alle sostituzioni di maternità.

La struttura verticale richiede però di trovare e selezionare individui con una cultura di base più ampia, una maggiore capacità relazionale e di apprendimento, e un investimento formativo, addestrativo e di ritenzione dei talenti molto maggiore da parte dello studio notarile. Soprattutto in fase iniziale.

Spesso mi viene posta la domanda di quale sia la forma migliore per uno studio notarile.

Orizzontale o verticale? Non abbiamo dati conclusivi in merito. Quello che si può affermare è che se uno studio è ben organizzato e le persone sono motivate e produttive non ci sono grandi differenze in termini di produttività, finché tutto funziona. I problemi sorgono quando viene a mancare una o più persone dotate di professionalità rare come addetti al repertorio, agli adempimenti, alla tassazione, ai rapporti con gli enti preposti alla sorveglianza. In questi casi la superiorità del modello verticale risalta immediatamente all’occhio.  

Molti Notai sognano quindi di trasformare uno studio di specialisti in uno studio di generalisti. Questa è una grossa sfida perché non sempre lo specialista è in grado di svolgere ulteriori compiti, magari più difficili sul piano tecnico come un esperto di adempimenti che dopo vent’anni di menage deve apprendere l’arte della stesura.

In altri casi accade il contrario, cioè si finisce con l’aggiungere compiti più noiosi e di precisione che rallentano e disturbano come quando un addetto alla stesura si ritrova a svolgere un adempimento informatico, che spesso vive come un bastone tra le ruote rispetto alla situazione precedente.

La presenza di operatori generalisti che si dividono tra la relazione col cliente e il lavoro di back office impedisce la concentrazione e spinge di solito lo studio a immaginare dei momenti in cui il generalista possa esimersi dai colloqui, dalle mail e dalle telefonate per poter svolgere i compiti che richiedono uno straniamento come la stesura vera e propria o l’esame e lo studio di situazioni particolari.

In ogni caso un’eventuale operazione di job enlargement andrebbe lungamente preparata e gestita con il singolo collaboratore perché dal punto di vista psicologico l’allargamento delle mansioni induce la sensazione di dispersione, perdita di tempo, e di disorientamento degli addetti creando stress e demotivazione.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

Il futuro delle assemblee da remoto nel periodo post emergenziale – a cura Notaio Veronica Ferraro

 A pochi mesi della scadenza del termine di applicazione dell’art. 106, secondo comma, D.L. 18/2020, convertito in L. 27/2020, che ha rivoluzionato il modo di tenere le assemblee in funzione di una situazione pandemica particolarmente complicata, occorre chiedersi quale sarà il futuro delle assemblee da remoto e quale sarà l’atteggiamento del notariato in merito.

Con l’inizio della pandemia e del c.d. periodo emergenziale si è manifestata l’esigenza di evitare, da un lato, gli assembramenti con il consequenziale aumento di contagi e dall’altro lo stallo societario. In questa circostanza il Notariato ha dimostrato di essere al servizio delle esigenze della collettività in modo dinamico e moderno aprendo la possibilità che le assemblee delle società e degli altri enti associativi potessero svolgersi a distanza.

Partendo dal dettato normativo dell’art. 2370, comma quarto, c.c., entrato in vigore tempo prima del periodo emergenziale, che consentiva allo statuto della società per azioni di consentire l’intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione e l’espressione del voto per corrispondenza o in via elettronica, il Consiglio Notarile di Milano ha approvato, prima ancora dell’entrata in vigore del D.L. 18/2020, convertito in L. 27/2020 (c.d. “Cura Italia”), la Massima 187 che ha sicuramente fatto molto discutere ma ha anche dato una risposta dinamica e rivoluzionaria ad una situazione senza precedenti.

La massima consentiva – ove consentito dallo statuto o dalla vigente disciplina – l’intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione della totalità dei partecipanti alla riunione, ivi compreso il presidente, a condizione che nel luogo indicato nell’avviso di convocazione si trovassero il segretario verbalizzante o il notaio. Le clausole statutarie che prevedono la presenza del presidente e del segretario nel luogo di convocazione (o comunque nel medesimo luogo) devono intendersi, secondo il Consiglio notarile milanese, di regola funzionali alla formazione contestuale del verbale dell’assemblea, sottoscritto sia dal presidente sia dal segretario. Esse, pertanto, non impediscono lo svolgimento della riunione assembleare con l’intervento di tutti i partecipanti mediante mezzi di telecomunicazione, potendosi in tal caso redigere un verbale postumo senza parti, con la sottoscrizione del solo notaio in caso di verbale in forma pubblica.

Poco dopo l’uscita della Massima 187, sempre per far fronte al periodo emergenziale, è entrato in vigore il D.L. 18/2020, convertito in L. 27/2020, che, all’art. 106, secondo comma, ha recepito i medesimi principi della Massima e ha dato la possibilità – anche in deroga a quanto previsto dallo statuto sociale – che gli avvisi di convocazione delle  assemblee  ordinarie  o straordinarie delle società di capitali, delle società cooperative e delle mutue  assicuratrici consentissero l’espressione  del  voto in via elettronica o per corrispondenza e l’intervento all’assemblea anche esclusivamente  mediante mezzi di telecomunicazione, a condizione che venisse  garantita l’identificazione  dei  partecipanti,  la   loro   partecipazione e l’esercizio del diritto di voto e senza in ogni caso la necessità  che si trovino nel  medesimo  luogo,  ove  previsto dallo statuto,  il  presidente,  il segretario o il notaio.

Il termine di applicazione della suddetta disposizione, originariamente fissato al 31 luglio 2021, è stato posticipato più volte fino all’ultimo posticipo al 31 luglio 2022 per cui occorre domandarsi oggi se, scaduto tale termine, le assemblee possano continuare a tenersi esclusivamente mediante mezzi di telecomunicazione o meno.

Sul punto si registrano opinioni discordanti.

Alcuni autori, interpretando in modo letterale l’art. 2366 c.c. che impone di indicare nell’avviso di convocazione il luogo di svolgimento dell’assemblea, l’art. 2370 c.c. che consente un intervento a distanza, ma in presenza anche di una riunione fisica e l’art. 2363 c.c. che impone di convocare l’assemblea nel comune del luogo ove ha sede la società, sostengono che vi sia nell’ordinamento un vero e proprio divieto di svolgimento delle riunioni esclusivamente mediante mezzi di telecomunicazione. Alla base di questa interpretazione c’è anche un forte timore di discriminazione dei soci dettata dal fatto che non tutti hanno le competenze e gli strumenti necessari per usufruire di queste modalità tecnologiche.

Di diverso avviso il più innovativo Consiglio notarile di Milano con la Massima 200 secondo cui sono legittime le clausole statutarie di s.p.a. e di s.r.l. che, nel consentire l’intervento all’assemblea mediante mezzi di telecomunicazione, ai sensi dell’art. 2370, comma 4, c.c., attribuiscono espressamente all’organo amministrativo la facoltà di stabilire nell’avviso di convocazione che l’assemblea si tenga esclusivamente mediante mezzi di telecomunicazione, omettendo l’indicazione del luogo fisico di svolgimento della riunione.

La massima in esame si concentra quindi sulla possibilità che la clausola statutaria, oltre a consentire genericamente l’intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione, preveda espressamente che l’organo amministrativo abbia la facoltà, in sede di convocazione, di prevedere che l’intervento possa avvenire esclusivamente mediante mezzi di telecomunicazione.

Occorre chiarire che dette norme procedimentali sono finalizzate a garantire un efficiente svolgimento dei lavori collegiali e sono quindi applicabili, come conseguenza logica, anche per le riunioni degli altri organi sociali anche in mancanza di una clausola statutaria che preveda espressamente la possibilità di convocarlo solo mediante mezzi di telecomunicazione.

Questa massima, che si inserisce in un filone interpretativo che ha da tempo caldeggiato la tenuta mediante mezzi di telecomunicazione delle assemblee, nella sostanza consente di continuare ad utilizzare la modalità da remoto anche una volta terminato il periodo emergenziale, comportando – tra l’altro – una notevole riduzione dei tempi e dei costi per le imprese e consentendo a ciascun soggetto interessato di poter partecipare personalmente invece che a mezzo di delegati.

Sicuramente questa impostazione sarà unanimemente condivisa ma è importante ricordarsi delle parole pronunciate all’ultimo Congresso Nazionale del Notariato da parte del Ministro della Giustizia Marta Cartabia: “Ma proprio sulla pandemia vorrei fare una piccola riflessione. Anche in quella situazione, soprattutto nei momenti più drammatici, più bui, più chiusi di tutta la fase della pandemia voi notai avete rispettato il vostro dovere con dignità e onore, come dice la Costituzione, anche quando continuare a prestare il vostro servizio ha richiesto una grande abnegazione. Io ho apprezzato profondamente la flessibilità del notariato che, ancor prima degli interventi di emergenza, ha saputo reinventarsi, aprendo per esempio alla possibilità di organizzare le assemblee a distanza per le società di capitali e altri enti associativi. Un esempio della capacità di essere al servizio delle esigenze della collettività in modo assolutamente dinamico, moderno e sempre all’avanguardia.”.

Veronica Ferraro, Notaio in Torino.

L’analisi SWOT per lo studio notarile – Una guida scientifica ai buoni propositi – a cura Dott.ssa Anna Lisa Copetto

A ciascuno di noi è capitato almeno una volta di avventurarsi in un progetto che non ha poi dato i risultati sperati. Al netto di circostanze particolarmente sfortunate e sciagurati imprevisti, il più delle volte la causa dell’insuccesso ha a che fare con una analisi preliminare non idonea a darci le informazioni per capire su cosa esattamente dovevamo puntare,  fin dove potevamo spingerci e quali sarebbero stati i rischi che contrastare.

Nell’affrontare qualunque tipo di progetto (una fusione con un altro studio, l’avvio di un piano di comunicazione esterna, ecc.), si rivela molto utile la analisi SWOT, acronimo dei termini inglesi Strengths, Weaknesses, Opportunities e Threats. Si tratta di uno strumento di pianificazione strategica che può essere utilizzato per stabilire quale sia la miglior strategia possibile stante le caratteristiche delle variabili (di un progetto, di un’idea, dello studio stesso, ecc.) sui cui lo studio può incidere e le caratteristiche dell’ambiente esterno con cui ci si interfaccia e che subisce (uno specifico  cliente, un potenziale partner, il mercato).

Più precisamente, l’analisi swot ci invita a individuare, una volta stabilito l’obiettivo che vogliamo raggiungere:

  • i punti di forza, ovvero quei fattori interni positivi che costituiscono un vantaggio competitive per l’iniziativa;
  • le debolezze, ovvero quegli ostacoli interni che possono compromettere il successo dell’iniziativa;
  • le opportunità, ovvero quelle condizioni esterne che, se correttamente interpretate e sfruttate, permettono di raggiungere l’obiettivo;
  • le minacce, ovvero quelle condizioni esterne che potrebbero intralciare il raggiungimento dell’obiettivo.

 

                                                                            La matrice swot

 

La corretta combinazione dei succitati punti facilita la valutazione dell’effettiva raggiungibilità di uno specifico obiettivo (acquisire nuove quote di mercato, costituire uno studio associato, stabilire una nuova partnership, ecc.) e la definizione delle  possibili strategie applicabili più idonee.

La formulazione della strategia si deve basare sulla risposta alle seguenti domande:

  • Come possiamo valorizzare e sfruttare i punti di forza?
  • Come posso contenere i punti di debolezza e trasformarli in punti di forza?
  • Come posso sfruttare le opportunità offerte dall’ambiente esterno?
  • Come possono contrastare le minacce dell’ambiente esterno?

In particolare le nostre strategie potranno essere di quattro tipi diversi.

  1. Le strategie Forze/Opportunità, volte a sfruttare le opportunità che ben riescono a far leva sulle forze dello studio. Si tratta in genere delle strategie più agevoli e meno costose da affrontare e anche di quelle potenzialmente più immediatamente produttive. Per esempio sfruttiamo le competenze linguistiche per accompagnare le imprese straniere che vogliono investire in Italia.
  2. Le strategie Debolezze/Opportunità che consistono nel migliorare, nel superare le debolezze per poter sfruttare appieno le opportunità offerte dal mercato. Queste strategie possono richiedere investimenti materiali o immateriali consistenti, pertanto sono più difficili da perseguire. Per esempio impariamo la fatturazione elettronica, in cui siamo deboli, per cogliere l’opportunità di assistere i clienti nella materia in questione.
  3. Le strategie Forze/Minacce servono ad affrontare le minacce identificando la maniera di utilizzare le proprie forze per ridurre la vulnerabilità. Si tratta di un utilizzo “coraggioso” e stancante delle proprie risorse, che quindi va deciso con cautela.
  4. Le strategie Debolezze/Minacce sono strategie che prendono atto della propria debolezza rispetto a precise minacce. In questo caso, le strategie possono implicare la pianificazione di manovre difensive per evitare che le debolezze dello studio ne accrescano la vulnerabilità verso le minacce esterne.

Per stendere una buona matrice swot non è necessario ritirarsi per un fine settimana in un monastero per uno studio matto e disperatissimo. Sarà sufficiente dedicare all’impresa non più di una mezza giornata, purché senza distrazioni di alcun tipo e con il massimo della concentrazione possibile.  È possibile anche lavorare in due tempi, richiedendo anche ai propri collaboratori un contributo in differita. In tal caso, la sintesi delle notizie ritratte dalle matrici raccolte aiuterà a capire quanto simili o distanti sono le visioni di ciascuno e a rilevare meglio i punti di debolezza che la Direzione dello studio non percepiva come tali o i punti di forza magari un pochino più scricchiolanti di quanto pensasse.

L’analisi SWOT andrà utilmente ripetuta periodicamente, ad esempio una volta l’anno, per confrontare le matrici dei vari anni e valutare l’effettiva capacità dello studio di interpretare e agire il cambiamento necessario a rimanere efficacemente sul mercato.

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network

Come rilevare i carichi di lavoro nello studio notarile – a cura Dott. Michele D’Agnolo

Abbiamo sottolineato in un precedente contributo l’importanza di misurare i carichi di lavoro all’interno dello studio notarile, per consentire al Notaio di ottenere la massima efficienza ed equità nell’allocazione delle risorse.

Esistono vari metodi di rilevazione dei carichi di lavoro, alcuni sono indiretti in quanto prevedono il confronto dello studio con l’esterno, mentre altri prevedono una diretta rilevazione delle quantità lavorate o dei tempi di lavorazione, solitamente mediante sistemi informatici. 

Una prima modalità di rilevazione, semplice ma per certi versi meno attendibile per le tante variabili in gioco, è rappresentata dal confronto con i propri colleghi sui “numeri” dello studio (ove questi vengano elaborati): numero delle persone full time equivalenti impiegate in studio, numero dei clienti serviti, numero di atti a repertorio e raccolta, fatturato, ecc. Tali confronti possono fornire ovviamente solo delle indicazioni di massima ma possono risultare efficaci quando le differenze sono importanti. Pensiamo, ad esempio, allo studio notarile che rileva un numero di atti nettamente inferiore rispetto al collega che magari ha una struttura molto più leggera sul piano delle risorse impegnate. È evidente che il dato di per sé ha un significatività limitata se non viene incrociato con altri dati (banalmente, la tipologia di atti di cui trattasi), ma offre lo mossa per  avviare approfondimenti mirati nel proprio studio.

Una seconda metodologia, più attendibile sul piano dei risultati, è rappresentata dall’utilizzo di una scheda cartacea o di un foglio elettronico nel quale registrare quelli che sono i tempi dedicati alle varie attività associate ai clienti durante una giornata lavorativa da parte dei singoli addetti. Il timesheet, appunto. Si tratta di uno strumento che può trovare una applicazione campionaria, anche per brevi periodi ciclici all’interno dell’anno, ad esempio della durata di un paio di settimane, soprattutto in strutture meno complesse.

Con l’aumentare della complessità interna dello studio e quindi dei dati che si vuole andare ad analizzare, la rilevazione a campione può non risultare del tutto efficace. Inoltre, l’alimentazione manuale del dato può talvolta rappresentare  un elemento di rischio per l’affidabilità dello strumento, laddove l’addetto non  sia preciso  o tempestivo nell’aggiornamento del documento di rilevazione.

Una ulteriore modalità è rappresentata dal ricorso ad un software gestionale dedicato che, con dei timesheet calibrati sulle effettive esigenze di indagine e il più possibile automatizzati nella rilevazione dei dati, consente di registrare e monitorare i tempi delle attività dei professionisti e collaboratori nell’arco della giornata. Al momento della rilevazione, il software deve consentire di associare il tempo a ciascuna delle dimensioni di governo (attività, pratica, cliente, partner di riferimento, ecc.), l’applicativo quindi produce in automatico  i report di sintesi. Il timesheet, oltre a fornire tutta una serie di informazioni di natura più prettamente economica, fornisce anche  una serie di dati oggettivi  utili nella definizione dei  tempi standard  per le diverse attività oggetto di controllo e anche nella definizione di come allocare le risorse. Ovviamente, per ottenere questo, è necessario depurare i dati raccolti da eventuali elementi di straordinarietà. Il timesheet è molto comune negli studi legali e commerciali mentre trova minore applicazione negli studi notarili, dove non di rado viene vissuto come un ulteriore fardello. Inoltre non tutte le professionalità riescono a segnare con precisione le attività svolte: si pensi alla segreteria generale, che funge da accoglienza fisica e telefonica e che spezzetta la propria attività in mille rivoli.

Negli studi dove gli assistenti notarili sono specializzati in un’unica funzione si può anche procedere in via indiretta, purché gli assegnatari delle pratiche risultino dalle rilevazioni della suite informatica utilizzata per la gestione degli atti. In questo modo si riesce a verificare ex post la quantità di atti prodotta dal singolo collaboratore nel periodo di tempo considerato.

Come è stato possibile evidenziare, il ricorso a strumenti informatici è senza dubbio la via più efficace per la rilevazione dei carichi di lavoro.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network