
Secondo l’arcinota definizione del codice civile, all’articolo 2555, per azienda, deve intendersi “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”.
I notai, come il sottoscritto, diversamente giovani, ricorderanno che è solo dal 1993 che, in forza della legge n.ro 310 dell’agosto di quell’anno, i contratti con cui si cedono la proprietà, o il godimento, delle aziende debbono essere redatti nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata.
Prima di allora, a norma del secondo comma dell’articolo 2556 c.c. all’epoca vigente, i suddetti contratti relativi al trasferimento dell’azienda dovevano essere denunziati per l’iscrizione nel Registro delle Imprese “a cura delle parti”. Si trattava cioè di una vicenda giuridica totalmente nella disponibilità dei privati interessati, i quali erano quindi gli unici responsabili della conformità alla legge del contratto; l’eventuale necessità di un controllo di legalità restava pertanto di competenza, a posteriori e solo in caso di insorgenza di un qualche contenzioso, della magistratura.
Successivamente a quella data invece, il controllo di legalità, affidato al notaio a seguito dell’entrata in vigore della legge 310/93, è diventato inevitabilmente preventivo.
Il che ha portato alla luce il problema, che fino ad allora, è ragionevole ritenere, fosse ampiamente sottovalutato, costituito dalla necessità di verificare se, nell’ambito di un accordo per la cessione di un’azienda, un complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa effettivamente esista. Il che, con riferimento alle microimprese, spesso non è.
Pensiamo al commercio ambulante, o all’attività individuale di trasporto persone svolta dai taxisti, dove il vero interesse in gioco non è assolutamente il complesso di beni organizzato, bensì esclusivamente la licenza che consente di “posteggiare” in un determinato luogo in determinati giorni nel primo caso, o di condurre un taxi nel secondo.
La licenza, tuttavia, è un provvedimento amministrativo rilasciato dall’autorità competente per autorizzare un’attività, e non un bene suscettibile di essere oggetto di un trasferimento fra privati; un atto che abbia ad oggetto solo la licenza, quindi, sarebbe nullo per impossibilità dell’oggetto ai sensi dell’articolo 1343 c.c..
La questione assume particolare rilievo soprattutto per quanto attiene al “trasferimento” della “licenza taxi”; infatti, mentre nel caso del commercio ambulante, con un po’ di buona volontà, una qualche forma di organizzazione aziendale è comunque possibile ricostruirla (la merce, qualche espositore, la parte di avviamento imputabile alla posizione e al luogo cui la licenza consente di accedere, il registratore di cassa), per quanto attiene alla “licenza taxi” invece, se l’auto con cui l’attività viene esercitata, con la relativa attrezzatura, non è oggetto della cessione, altro non resta che la licenza.
E proprio della licenza per l’esercizio del servizio taxi, nonché della sua pretesa trasferibilità, si sono spesso occupate tanto l’Agenzia delle Entrate, tanto la magistratura delle commissioni tributarie tanto, niente di meno che, la Suprema Corte!
Esiste infatti, proprio in materia di regolamentazione dell’attività individuale di trasporto persone, una norma, la legge n.ro 21 del 15 gennaio 1992 che, se all’articolo 8 prevede, com’è naturale, che la licenza per l’esercizio del servizio taxi sia rilasciata dalle amministrazioni comunali, al successivo articolo 9 prevede altresì espressamente che la licenza stessa, “in presenza di determinate condizioni, può essere trasferita, su richiesta del titolare, a persona dallo stesso designata …”.
Quanto previsto all’articolo 9 della legge n.ro 21/92 ha spinto spesso gli interessati, cedente e acquirente nel possesso dei requisiti richiesti, a ricorrere anziché ad un vero e proprio contratto di cessione d’azienda, ad una semplice scrittura privata, da entrambi sottoscritta, e semplicemente indirizzata all’autorità comunale, al fine, in genere felicemente conseguito, di ottenere il “trasferimento” della licenza dall’uno all’altro, così evitandosi l’onere, e il costo, della registrazione, che sarebbe invece inevitabilmente dovuto facendo ricorso al contratto di cessione d’azienda.
Poiché però le licenze per l’esercizio del servizio taxi vengono normalmente cedute a valori non irrisori, la loro cessione genera redditi e plusvalenze che non possono sfuggire al controllo dell’Agenzia delle Entrate, la quale sistematicamente sostenendo la totale equiparazione della cessione della licenza, così effettuata, ad una normale cessione d’azienda, oltre alla tassazione del reddito, pretende anche la corresponsione dell’imposta di registro. Di qui il contenzioso cui si accennava, nel cui ambito, mentre le Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali, sia pur con atteggiamento altalenante, hanno generalmente condiviso le ragioni dei contribuenti interessati e respinto le pretese dell’Agenzia delle Entrate, la Suprema Corte, con giurisprudenza al contrario assolutamente costante, ha sempre cassato le sentenze favorevoli ai contribuenti e mai quelle favorevoli all’Agenzia.
Quello che è interessante in tutta questa vicenda sono le rispettive e contrapposte motivazioni con cui le Commissioni Tributarie giungono a negare le ragioni dell’Agenzia delle Entrate, e la Suprema Corte invece ad avvallarle.
Le Commissioni Tributarie, in particolare quella provinciale lombarda, sostanzialmente negano che la cessione della licenza per l’esercizio del servizio taxi sia una cessione d’Azienda sul presupposto postulato che la licenza stessa sia un provvedimento amministrativo, come tale insuscettibile di contrattazione in accordi stipulati fra privati nell’esercizio della loro autonomia negoziale, pena radicale nullità per impossibilità dell’oggetto (art. 1343 c.c.).
Nell’esercitare il diritto di cui alla previsione dell’articolo 9 della su citata legge 21/1992 in sostanza, secondo la CTP milanese in particolare, la scrittura privata, allo scopo predisposta, deve correttamente qualificarsi quale contratto atipico (secondo quanto previsto dall’articolo 1322 c.c.) concluso fra titolare della licenza ed aspirante al subentro, finalizzato ad agevolare il subentro nella licenza taxi secondo quanto previsto dall’apposito regolamento comunale; o ancora, sostiene sempre la CTP milanese in una diversa pronuncia, ma sostanzialmente sulla stessa linea di pensiero, che l’accordo sottoscritto fra le parti non possa dar luogo ad una cessione d’azienda, avente ad oggetto una licenza taxi e assoggettabile ad imposta di registro, in quanto le parti si sarebbero limitate a regolare la peculiare fattispecie di cui al regolamento comunale (…) che disciplina il trasferimento delle licenze e lo subordina alla verifica della sussistenza di specifici requisiti in capo al soggetto designato. (sentenze n.ro 1886/8/2015 e n.ro 4249/17).
La Suprema Corte viceversa, pur rifacendosi alla medesima normativa, la legge 21/1992 di cui sopra, giunge ad antitetiche conclusioni interpretative tanto che, con ripetute decisioni, ha costantemente cassato le sentenze favorevoli ai contribuenti, sistematicamente equiparando le scritture private sottoscritte in forza della medesima legge 21/1992 ad una vera e propria cessione d’azienda, ritenendole, conseguentemente, soggette all’imposta di registro, affermando la liceità della trasferibilità della licenza taxi, proprio in base a quanto stabilito all’articolo 9 dalla su citata legge.
La licenza per l’esercizio del servizio taxi, infatti, sostiene la Suprema Corte in ripetute pronunce, “costituisce bene essenziale e primario nell’ambito del complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’attività individuale di trasporto persone poiché indispensabile per l’esercizio di detta attività ed avente valore commerciale di mercato, essendo legalmente consentita la trasferibilità della licenza” (n.ro 17476/2017 – 21762/2017 – 4945/2018 – 20770/2021), nonché, ancora ribadendo la legittima trasferibilità della licenza taxi e la non fondatezza della pretesa nullità per contrasto con norme imperative, che detta licenza sarebbe un bene dotato di autonomo valore economico, tant’è che ne esiste un florido mercato, spingendosi addirittura a sostenere che la licenza in oggetto sarebbe “un bene strumentale immateriale che finisce col cartolarizzare l’azienda divenendo presupposto strutturale ed elemento qualificante dell’esercizio dell’attività”. (N.ro 23143 del 4/10/2017).
Gianluigi Cisotto, Notaio in Brescia.