COMUNIONE DE RESIDUO. COMPROPRIETA’ O DIRITTO DI CREDITO? – a cura Notaio Vincenzo Spadola

La cassazione Civile, Sezioni Unite, con sentenza del 17 maggio 2022 n. 15889, risolve il contrasto.

Tralasciando i dettagli di una vicenda intricata e rimanendo alla questione principale, il caso si può riassumere nel modo seguente.

Il caso.

I coniugi Tizia e Caio costituiscono una srl avente ad oggetto un’attività commerciale in realtà svolta solo dal marito.

Dopo l’inizio dell’attività societaria i due coniugi, in comunione legale dei beni, acquistano con molteplici atti vari immobili da destinare all’attività della società; in tutti gli atti, tranne uno, risulta essere unico acquirente Caio, stante la dichiarazione di Tizia che gli immobili sono destinati all’esercizio della professione di Caio.

I coniugi si separano e Tizia adduce che gli immobili acquistati da Caio in realtà sono caduti in comunione, con diritto di Tizia alla comproprietà sui predetti immobili nonché su quanto sugli stessi edificato, e sostiene altresì di essere comproprietaria, per metà, anche di tutti i beni mobili dell’impresa del coniuge, ivi compresi gli utili e gli incrementi nonché la partecipazione della società interamente intestata al medesimo coniuge (poiché questi aveva sottoscritto tutte le quote di nuova emissione per effetto di un’operazione di abbattimento del capitale sociale e di contestuale ricostituzione).

Il processo.

La vicenda è sfociata in vari giudizi, sia innanzi al Tribunale di Cagliari sia davanti alla Corte d’Appello della stessa città.

Il Tribunale di Cagliari dà ragione a Tizia e dichiara l’attrice proprietaria del 50% dei beni immobili oggetto del contendere.

La Corte d’Appello accoglie le ragioni del marito Caio e dichiara che, per effetto dello scioglimento della comunione de residuo, Tizia è titolare di un diritto di credito corrispondente al 50% del valore dei beni costituenti l’impresa esercitata a titolo personale da Caio.

La questione viene rimessa alle Sezioni Unite chiamate a dirimere il contrasto, emerso nella giurisprudenza della Corte, circa la natura del diritto vantato dal coniuge non titolare dell’azienda sui beni dell’azienda stessa condotta dal coniuge imprenditore, se cioè esso debba intendersi quale diritto reale (comproprietà dei beni dell’azienda) oppure diritto di credito (al controvalore della quota di un mezzo dei beni dell’azienda).

La sentenza

Le Sezioni Unite, dopo un’ampia panoramica della vicenda processuale e un interessante preambolo ove si dà conto diffusamente delle due opposte interpretazioni, quali emerse nella giurisprudenza della Corte e fra gli studiosi che si sono occupati del tema, dispongono nel senso della natura di diritto di credito, affermando il seguente principio: “Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”.

 

Le motivazioni.

Le argomentazioni a sostegno della decisione sono le seguenti.

La finalità dell’istituto della comunione de residuo è di garantire un equilibrato contemperamento fra l’esigenza di uguaglianza delle sorti economiche dei coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio e quella di assicurare al singolo coniuge un adeguato spazio di autonomia nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali e in generale nella gestione dei propri redditi da lavoro come pure dei frutti ricavati dai beni personali; soddisfare, cioè, il bilanciamento tra il principio solidaristico, che dovrebbe informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall’altro (artt. 35, 41 e 42 Cost.).

L’individuazione dei beni oggetto della comunione de residuo si trae dall’art. 177 c.c., lett. b) e c), e dall’art. 178 c.c., differenti però nella loro formulazione letterale: l’art. 177 prevede che i beni “costituiscono oggetto” della comunione, se ed in quanto esistenti all’atto dello scioglimento; nell’art. 178 c.c. i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita da uno dei coniugi dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa, anche costituita precedentemente, “si considerano oggetto”.

Non si può trascurare l’esigenza di coordinare le novità introdotte dalla riforma del diritto di famiglia e il preesistente impianto codicistico che nelle sue linee fondamentali è volto a privilegiare l’autonoma e libera disponibilità delle risorse, nonché il principio della circolazione dei valori e il mantenimento dei livelli di produttività, che non possono soffrire ostacoli eccessivi per effetto della scelta in favore del regime della comunione legale.

Inoltre, e con specifico riferimento ai beni di cui all’art. 178 c.c., si pone anche la finalità di non coinvolgere il coniuge non imprenditore nella posizione di responsabilità illimitata dell’altro, assicurando a quest’ultimo la piena libertà d’azione nell’esercizio della sua attività d’impresa.

Il legislatore ha inteso garantire, finché dura la comunione legale, al coniuge imprenditore il potere di gestione dell’impresa, con facoltà di investire a suo piacimento gli utili e disporre liberamente dei beni e degli utili aziendali.

Le considerazioni che precedono, dalle quali è dato ricavare come le esigenze solidaristiche familiari siano state in parte reputate recessive a fronte dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale, inducono a prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, tra l’altro garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, quanto all’impresa, in capo all’altro coniuge, evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, consentendo in tal modo la sopravvivenza dell’impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.

 

Depongono a favore di tale conclusione gli inconvenienti che la diversa tesi della natura reale del diritto presenta, precisamente:

l’insorgenza di una comunione anche sui beni mobili e immobili confluiti nell’azienda pone evidenti problemi nei rapporti con i terzi che abbiano avuto rapporti con l’impresa individuale del coniuge;

si avrebbe un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio quando e, anzi addirittura, proprio “perché” si sono prodotte vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione;

il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una menomazione dell’autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento;

il carattere ordinario della comunione che verrebbe in tal modo a determinarsi, oltre ad incidere sulle regole gestionali della stessa, porrebbe il problema per la stessa sopravvivenza dell’impresa, posto che, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge già imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe chiederne l’attribuzione il coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire alla alienazione a terzi;

nel caso di morte del coniuge non imprenditore, che determina lo scioglimento della comunione legale, si verrebbe a creare la comunione sui beni di cui all’art. 178 c.c., tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro coniuge, che ben potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare ristretto;

non facilmente conciliabile con la natura reale del diritto la previsione secondo cui cadono in comunione anche gli incrementi, che per la loro connotazione, in parte anche immateriale, mal si prestano a configurare una comunione in senso reale sui medesimi.

Quanto alla formulazione letterale degli artt. 177 e 178 c.c., uno dei principali argomenti a favore della natura reale, proprio la circostanza che in quest’ultima norma il legislatore abbia utilizzato il verbo “considerare”, piuttosto che “essere”, denota un’ambiguità semantica che, ancor più che essere sintomatica di un’incertezza, potrebbe essere invece ricondotta ad una precisa volontà di sottoporre la comunione de residuo, e specialmente quella di impresa, ad un regime normativo diverso da quello ordinario; così come non si rivela insormontabile il richiamo, da parte dei sostenitori della natura reale, alla mancata disciplina all’interno dell’art. 192 c.c., tra i rimborsi e le restituzioni dovuti tra coniugi al diritto di credito spettante al coniuge non imprenditore, potendosi obiettare che in realtà l’omissione si giustifica per la esaustività della disciplina della comunione de residuo nelle norme appositamente dettate.

Vincenzo Spadola,  Notaio in Parma.

FATTISPECIE RILEVANTI IN MATERIA DI DECADENZA DALLE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA E RIACQUISTO ENTRO L’ANNO – a cura Notaio Elena Peperoni

In tema di agevolazioni tributarie per l’acquisto della “prima casa”, il comma 4, ultimo periodo, della nota II bis all’art. 1 della Tariffa, Parte 1, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, dispone che la relativa decadenza è evitata se il contribuente, pur avendo trasferito l’immobile acquistato con i benefici fiscali prima del decorso del termine di cinque anni dall’acquisto stesso, entro un anno dall’alienazione acquisti un altro immobile, da adibire ad abitazione principale.

Ciò significa che i predetti benefici fiscali previsti per l’acquisto della “prima casa” possono essere conservati soltanto se l’acquisto sia seguito dalla effettiva realizzazione della destinazione dell’immobile acquistato ad abitazione propria; ne consegue che la decadenza dall’agevolazione “prima casa”, prevista dall’art. 1, nota II bis), comma 4, della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, può essere evitata ove, entro un anno dall’alienazione di tale bene, si proceda all’acquisto di un altro immobile da adibire a propria abitazione principale. Pertanto, il contribuente può conservare l’agevolazione solo se trasferisca la propria residenza nel nuovo immobile, a differenza di ciò che avviene per l’acquisto della prima casa, ove è sufficiente stabilire la residenza nel Comune in cui è ubicato il bene.

Il requisito della destinazione del nuovo immobile ad abitazione principale deve intendersi riferito al dato anagrafico e non meramente fattuale, per cui non può desumersi dalla produzione di documenti di spesa di vario genere, ma unicamente da una certificazione anagrafica.

Per evitare la decadenza, il contribuente deve altresì dichiarare, nell’atto di compravendita, l’intenzione di adibire l’immobile oggetto del riacquisto ad abitazione principale.

Conserva altresì l’agevolazione il contribuente che, venduto l’immobile nei cinque anni dall’acquisto, abbia acquistato, entro un anno da tale alienazione, un altro immobile, procedendo poi alla sua vendita ed all’acquisto infrannuale di un ulteriore immobile, purchè fornisca, anche in tal caso, la prova che l’acquisto sia seguito dalla effettiva realizzazione della destinazione ad abitazione propria degli immobili acquisiti coi singoli atti, in forza del concreto trasferimento della residenza anagrafica nell’unità abitativa correlata al singolo acquisto.

Se il contribuente, entro un anno dal trasferimento del bene prima del decorso del termine di cinque anni dalla data dell’acquisto con i benefici, provveda all’acquisto non dell’intero ma di una sola quota di altro immobile da adibire a propria abitazione principale, la decadenza può essere evitata purché la quota sia significativa della concreta possibilità di disporre del bene per adibirlo a propria abitazione; pertanto, l’acquisto di una quota particolarmente esigua di un immobile, non comportando il potere di disporne come abitazione propria, rende legittima la revoca dei benefici.

A differenza della fattispecie relativa all’accesso al beneficio fiscale, la norma sul riacquisto non estende espressamente il suo ambito di applicazione anche agli acquisti di diritti reali di godimento sul bene, limitandosi a richiedere l’acquisto di un immobile da destinarsi ad abitazione principale. Pertanto, la decadenza non pare evitata ove, entro un anno dall’alienazione del bene “agevolato”, il contribuente proceda all’acquisto della nuda proprietà di un altro immobile.

Viceversa, mantiene i benefici fiscali per l’acquisto della “prima casa” il contribuente che acquisti un altro immobile, non a titolo oneroso, bensì anche a titolo gratuito, dal momento che l’agevolazione ed il credito d’imposta ex art. 7 della legge n. 448 del 1998 sono riconosciuti relativamente a tutti i trasferimenti, sia a titolo oneroso che a titolo gratuito.

Evita altresì la decadenza il contribuente che, anziché acquistare entro l’anno successivo un nuovo immobile da adibire ad abitazione principale, realizzi, eseguendo almeno il rustico, comprensivo delle mura perimetrali e della copertura completa, la propria abitazione principale su un terreno di sua proprietà, acquistato prima o dopo l’alienazione infraquinquennale, divenendo pertanto proprietario di detta abitazione in virtù del principio dell’accessione: anche qui, infatti, l’art. 1, nota II bis della parte prima della tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 non distingue tra acquisti a titolo originario e derivativo.

Al contrario, per evitare la decadenza, il contribuente è tenuto a comprare, entro un anno dall’alienazione, altro immobile da adibire a propria abitazione principale, non potendosi considerare sufficiente la stipula di un contratto preliminare, come tale avente effetti solo obbligatori, dato che per “acquisto”, ai sensi della richiamata norma, si deve intendere l’acquisizione del diritto di proprietà e non la mera insorgenza del diritto di concludere un contratto di compravendita.

Da ultimo, si segnala che il mantenimento dell’agevolazione pare subordinato, in base alla lettera e alla ratio della disposizione, alla presenza dei requisiti per la sua fruizione al momento del primo acquisto, e che pertanto essa agevolazione vada esclusa ove non spettasse originariamente a causa di dichiarazione mendace o di fatti sopravvenuti, quale ad esempio il mancato trasferimento della propria residenza nel comune di ubicazione dell’immobile.

Elena Peperoni, Notaio in Palazzolo sull’Oglio (BS)

L’utilizzo di atti esteri in Italia – a cura Notaio Veronica Ferraro

    1) Introduzione.

A ragione della continua evoluzione internazionale dei rapporti e dell’attuale contesto economico e giuridico, è sempre più frequente che venga richiesto al notaio italiano di utilizzare atti esteri provenienti da paesi stranieri, la cui forma e la cui sostanza sono disciplinate diversamente da un paese all’altro.

Per tale ragione è necessario che il notaio italiano esamini con attenzione il documento proveniente dall’estero in modo tale da poter verificare la sua utilizzabilità in Italia ed evitare che un atto privo dei requisiti minimi richiesti dal nostro ordinamento produca effetti nel nostro paese. Tale verifica è spesso complessa perché richiede non solo la conoscenza delle normative italiane, ma anche di quelle internazionali.

Prima di procedere con l’analisi della fattispecie, occorre chiarire che la definizione di “atto estero” è stata data dalla dottrina, la quale lo identifica come un qualunque atto giuridico redatto all’estero, sia da pubbliche autorità straniere sia da privati, ricevuto o autenticato, sia in lingua italiana sia in lingua straniera, da pubbliche autorità straniere.

Non sono, invece, “atti esteri” quelli posti in essere dalle autorità diplomatiche e consolari italiane nell’esercizio di funzioni notarili, in quanto i poteri certificativi di tali autorità derivano e sono esercitati secondo la legge italiana, conformemente a quanto disposto oggi dal del d.lgs. 3 febbraio 2011 n. 71 (legge consolare).

    2) Atti ricevuti dagli uffici consolari ed atti ricevuti da notai stranieri.

Con riferimento agli atti posti in essere dalle autorità diplomatiche e consolari italiane nell’esercizio di funzioni notarili, l’art. 28 del citato d.lgs. 71/2011 prevede espressamente che il capo dell’ufficio consolare eserciti le funzioni di notaio nei confronti dei cittadini, attenendosi alla legislazione nazionale.

Attenzione particolare merita il comma secondo dell’art. 28 secondo il quale “Con decreto del Ministro degli affari esteri possono essere specificati gli atti notarili che i capi degli uffici consolari sono chiamati a stipulare, tenendo conto della possibilità di accedere ad adeguati servizi notarili in loco.”.  Il decreto del Ministro degli Affari Esteri del 31 ottobre 2011 ha stabilito all’articolo 1 che “I Capi degli Uffici consolari aventi sede in Austria, Belgio, Francia, Germania e Lettonia non esercitano funzioni notarili, tenuto conto che i notariati presenti in tali Paesi hanno aderito all’Unione Internazionale del Notariato (U.I.N.L.) e hanno proceduto alla dichiarazione di cui all’art. 6 della Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987 sull’esenzione dalla legalizzazione di atti negli Stati membri della CEE o stipulato in merito Convenzioni bilaterali con l’Italia” ma all’articolo 2 ha disposto che “I Capi degli Uffici consolari nei Paesi indicati all’articolo 1 continuano in ogni caso a ricevere, a richiesta di cittadini italiani, testamenti pubblici, segreti ovvero internazionali. 2. Ove il Capo dell’Ufficio Consolare operante in uno dei Paesi indicati all’articolo 1 verifichi una oggettiva e documentata impossibilità di rivolgersi ad un notaio in loco, può ricevere, quando il ritardo possa recare pregiudizio al cittadino italiano, atti che rivestono carattere di necessità ed urgenza.”.

Non può mettersi in dubbio, quindi, la validità e l’efficacia di atti proveniente da uno degli uffici consolari dei paesi di cui sopra, anche alla luce del fatto che la norma in commento rimette alla stessa autorità consolare la valutazione della “oggettiva e documentata impossibilità di rivolgersi ad un notaio in loco” e del “carattere di necessità ed urgenza”, secondo una valutazione di merito che non appare, in astratto, sindacabile.

Con riferimento agli atti ricevuti da notai stranieri vige il generale principio del “auctor regit actum” secondo il quale il notaio straniero è tenuto a svolgere, secondo la propria legge nazionale, una funzione analoga a quella del notaio italiano e l’atto deve essere redatto nel rispetto delle norme previste dal proprio ordinamento. La certificazione effettuata dal notaio straniero deve essere, seppure non identica, sostanzialmente equivalente, a quella apposta dal notaio italiano in un omologo atto. Tale principio non può non tenere conto delle notevoli differenze esistenti tra i paesi di civil law e quelli di common law in ambito notarile.

I paesi di civil law delineano chiaramente la professione notarile e attribuiscono al notaio funzioni similari a quelle disciplinate dalla nostra legge notarile e riconoscono agli atti dagli stessi redatti, di regola, la forma corrispondente a quella del nostro atto pubblico.

Negli ordinamenti di common law, invece, le competenze dei public notaries consistono principalmente nel ricevimento di dichiarazioni giurate ed attestazioni e nell’accertamento della provenienza delle sottoscrizioni ma non esiste un sistema di documenti aventi forza esecutiva e costituenti prove privilegiate, fino a querela di falso, da poter produrre in giudizio, come l’atto pubblico. Tali documenti portanti le sottoscrizioni autenticate da detti public notaries sono quindi idonei a garantire solamente l’autenticità delle firme in capo ai sottoscrittori e la loro identità.

Nella City di Londra o in alcune giurisdizioni degli Stati Uniti e del Canada è presente una figura professionale distinta dalla professione notarile che prende il nome di scrivener notaries.

    3) La legalizzazione o l’Apostille.

Gli atti esteri che devono essere depositati presso un notaio italiano (a meno che non ci sia un’apposita norma eccezionale che lo escluda) devono essere “debitamente legalizzati” o muniti di Apostille che renda certa la provenienza dell’atto, attestando l’autenticità della firma del notaio o del pubblico ufficiale straniero e la relativa qualifica. Tale legalizzazione o Apostille deve, quindi, precedere necessariamente il deposito che invece assolve la funzione di verifica della legalità dell’atto stesso ai fini dell’utilizzo nell’ordinamento italiano.

La legalizzazione è eseguita dall’autorità consolare italiana all’estero che certifica la legale qualità di chi ha apposto la firma (che tra l’altro non viene apposta in presenza dell’ufficiale legalizzante, ma viene verificata tramite il confronto con un campione appositamente depositato) e la sua autenticità, senza effettuazione di alcun controllo sul contenuto dell’atto.

Sono esenti da legalizzazione:

      i)le firme apposte su atti e documenti dai competenti organi delle rappresentanze diplomatiche o                    consolari italiane o dai funzionari da loro delegati;

      ii) gli atti provenienti dagli Stati contraenti della Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961, in quanto                    sostituita dalla forma semplificata dell’apostille, e sono esenti da ogni forma di certificazione                        preventiva gli atti provenienti dagli Stati contraenti della Convenzione di Bruxelles del 25 maggio                    1987;

      iii) gli atti provenienti dai paesi con cui sono in vigore specifiche convenzioni bilaterali che comportano             l’esenzione da legalizzazione, come ad esempio la Germania o l’Austria.

La Convenzione dell’Aia del 5 ottobre 1961, ratificata dall’Italia, ha sostituito il requisito della legalizzazione degli atti pubblici esteri con l’Apostille, che, al pari della legalizzazione, svolge la funzione di attestare la qualità di pubblico ufficiale del soggetto autenticante.

Più precisamente, l’Apostille – apposta sul documento stesso dall’autorità competente dello Stato dal quale il documento proviene – certifica l’autenticità della firma, la qualità in forza della quale il soggetto che ha autenticato la firma ha agito e, se del caso, l’identità del sigillo o del timbro apposti.

L’Apostille è, quindi, una formalità analoga alla legalizzazione, dalla quale, tuttavia, si differenzia perché è costituita da una precisa formula, regolata per tutti i Paesi dalla Convenzione dell’Aja, ed è eseguita direttamente dall’autorità del luogo in cui il documento è formato, generalmente il Ministero degli Affari Esteri. 

Sono esenti da legalizzazione:

      i) le firme apposte su atti e documenti dai competenti organi delle rappresentanze diplomatiche o                   consolari italiane o dai funzionari da loro delegati;

     ii) gli atti provenienti dagli Stati contraenti della Convenzione de L’Aja del 5 ottobre 1961, in quanto                     sostituita dalla forma semplificata dell’apostille, e sono esenti da ogni forma di certificazione                         preventiva gli atti provenienti dagli Stati contraenti della Convenzione di Bruxelles del 25 maggio                   1987;

     iii) gli atti provenienti dai paesi con cui sono in vigore specifiche convenzioni bilaterali che comportano            l’esenzione da legalizzazione, come ad esempio la Germania o l’Austria.

   4) l’Atto di deposito.

Ogni atto estero, per essere utilizzato in Italia, previa apposita legalizzazione, deve essere depositato presso un archivio notarile o un notaio italiano (art. 106 n. 4 L.N.) così da garantire, oltre ad un preventivo controllo di legalità formale e sostanziale, l’adempimento degli obblighi fiscali e di pubblicità (ove previsti) e la conservazione dell’atto medesimo nel tempo, con possibilità di rilascio di copie, fermo restando che il deposito non modifica la natura dell’atto depositato ma rende certa l’esistenza del documento.

Il citato art. 106 n. 4 L.N. nulla dice in tema di scritture private non autenticate, che possono quindi essere utilizzate nel nostro Paese con la medesima efficacia delle scritture private non autenticate formate in Italia anche a ragione di quanto disposto dall’art. 1, n. 1), del R.D.L. n. 1666/1937 il quale amplia il numero degli atti che il notaio può ricevere in deposito, includendovi in pratica ogni sorta di documento, eventualmente anche non legalizzato.

Nel nostro ordinamento vige un generale principio di “riconoscimento” degli atti provenienti dall’estero secondo il quale l’atto estero, anche se formalmente riferibile ad un soggetto con poteri di certificazione simili a quelli del notaio italiano, possa essere considerato “equivalente” all’atto italiano.  Questa necessità di “equivalenza”, o ancor meglio di “equivalenza funzionale”, fra l’atto proveniente dall’estero e l’atto italiano è necessaria quando, in base alle norme di diritto privato internazionale, sia richiesta anche per gli atti formati all’estero la medesima forma richiesta per gli atti interni.

Formalmente il deposito di un atto straniero si realizza mediante la redazione di un verbale da parte del notaio italiano, avente quali comparenti i soggetti che richiedono il deposito dell’atto estero stesso, accompagnato dalla relativa traduzione in lingua italiana effettuata – e firmata – dal notaio, se conosce la lingua straniera o in alternativa da un perito scelto dalle parti (L’art. 68 del Regolamento Notarile).

Oggetto di traduzione devono essere tutte le parti dell’atto estero ad eccezione dell’Apostille, su cui non si possono generare dubbi interpretativi a ragione della specificità del suo contenuto.

Non è necessario un apposito verbale di deposito degli atti esteri che devono essere allegati ad un atto pubblico o autenticato da un notaio italiano perché in questi casi l’allegazione realizza di fatto anche il deposito.

Gli atti esteri sono da ritenersi “atti conservati a richiesta delle parti”, le quali hanno sempre diritto ad ottenere la restituzione. Di tale restituzione si redige apposito verbale nel quale sarà trascritto per intero il documento che si restituisce. L’atto di deposito rimane presso il notaio che annota la restituzione nella colonna “osservazioni” del repertorio e sull’atto stesso (art. 71 R.N.).

Il verbale di deposito: i) viene annotato a repertorio con applicazione dell’onorario graduale (al 50%) o fisso corrispondente al contenuto dell’atto depositato ai sensi dell’art. 14 della Tariffa notarile (e in tal caso non è dovuto l’onorario di cui all’art. 8 della Tariffa); ii) è soggetto a registrazione nel termine di 60 giorni dalla data dell’atto e sconta l’imposta di registro in misura fissa e l’imposta di bollo (fatta precisazione che sono dovute l’imposta di registro in relazione al contenuto e alla natura dell’atto depositato (artt. 2, 3 e 4 del D.P.R. n. 131/1986) e l’imposta di bollo in caso d’uso ai sensi dell’art. 30 della Tariffa, parte seconda, allegata al D.P.R. n. 642/1972).

   5) Il Controllo del Notaio italiano anche alla luce della Sentenza del 2 luglio 2019 n. 17713 della Corte            di Cassazione

In capo al notaio che utilizza un atto estero vige un generale obbligo di controllo di legalità dell’atto effettuato direttamente in sede di deposito. In questo caso il notaio è chiamato alla verifica di un atto già completamente formato senza che abbia la possibilità di indagare la volontà delle parti ma verificando la sua correttezza formale e sostanziale, al fine di poterlo ricevere in deposito e renderlo così utilizzabile nel nostro ordinamento.

In particolare, quanto alla forma occorre verificare che siano rispettati i requisiti minimi previsti dall’ordinamento di provenienza mentre quanto alla sostanza occorre verificare la compatibilità dell’atto estero con l’ordine pubblico internazionale (inteso come un complesso di principi fondamentali appartenenti ad una determinata comunità nazionale in un certo momento storico) e con le norme di applicazione necessaria (intese come le norme di diritto italiano che devono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera in considerazione del loro oggetto e del loro scopo).

Se l’atto estero è carente di alcuni elementi ritenuti necessari per il nostro ordinamento, il notaio deve verificare se sia possibile rimediare a tali carenze in sede di deposito o meno, tenendo presente che i vizi di forma non sono sanabili in alcun modo mentre alcuni vizi di sostanza possono invece essere sanati (ad esempio, con l’intervento delle parti nell’atto di deposito, è possibile sanare mediante conferma la mancanza di menzioni in materia urbanistica, le dichiarazioni di cui all’art. 35, comma 22, del D.l. n. 223/2006 o le dichiarazioni fiscali).  

Una delle questioni di maggior rilevanza nell’attività notarile è quella dell’utilizzo di una procura proveniente dall’estero.

Su tale questione si è anche recentemente pronunciata la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza del 2 luglio 2019 n. 17713 all’interno della quale sono stati indicati alcuni principi generali di notevole impatto per l’attività notarile nonostante la rigidità di alcune interpretazioni sostenute che hanno reso la questione ancora più complessa.

In particolare, i giudici affermano che i requisiti affinché la procura estera possa essere utilizzata in Italia sono: la traduzione in italiano, la legalizzazione o l’Apostille (salvo che si tratti di procura proveniente da Paese con il quale vigono diversi accordi internazionali), la conformità ai requisiti formali del Paese di provenienza e, soprattutto, la presenza dei requisiti minimi di sicurezza giuridica richiesti per la circolazione in Italia del negozio che consistono, per la scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e nel preventivo accertamento dell’identità del sottoscrittore.

L’idoneità della procura deve essere esaminata alla luce dell’art. 60 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (D.I.P.), che disciplina la legge regolatrice della procura, disponendo quanto segue:

La rappresentanza volontaria è regolata dalla legge dello Stato in cui il rappresentante ha la propria sede d’affari sempre che egli agisca a titolo professionale e che tale sede sia conosciuta o conoscibile dal terzo. In assenza di tali condizioni si applica la legge dello Stato in cui il rappresentante esercita in via principale i suoi poteri nel caso concreto.

L’atto di conferimento dei poteri di rappresentanza è valido, quanto alla forma, se considerato tale dalla legge che ne regola la sostanza oppure dalla legge dello Stato in cui è posto in essere”.

Particolarmente rilevante, per l’attività notarile, è il secondo comma dell’art. 60, il quale, in punto di forma della procura estera, stabilisce un duplice criterio per affermare la validità della procura: i) conformità alla legge che regola la sostanza del rapporto rappresentativo, vale a dire i criteri segnati dal primo comma dell’art. 60 e ii) conformità alla lex loci, cioè alla legge del luogo in cui la procura si è formata.

Nell’esercizio delle funzioni notarili, tale disposizione deve essere necessariamente collegata con l’art. 54 R.N. che vieta al notaio di rogare contratti in cui intervengano persone che non siano assistite od autorizzate nel modo espressamente stabilito dalla legge, affinché esse possano in nome proprio od in quello dei loro rappresentati giuridicamente obbligarsi.

Il problema è allora quello di cercare di stabilire il contenuto del controllo che il notaio dovrà effettuare relativamente ai requisiti di sostanza e di forma della procura straniera, utilizzando i criteri di rinvio contenuti nella norma di diritto internazionale privato.

Secondo la sentenza in commento, “il notaio dovrà sicuramente prestare particolare attenzione ai requisiti di sostanza e di forma della procura per i quali si applica la legge italiana, e così, in particolare, alle questioni relative all’efficacia vincolante dell’attività del rappresentante nei confronti del rappresentato, al contenuto e all’estensione dei poteri del rappresentante, alla durata del potere rappresentativo, alla revoca ed all’estinzione della procura, alla capacità del rappresentato, alle conseguenze del conflitto d’interessi e del contratto concluso con sé stesso, ed infine alle conseguenze del negozio concluso dal rappresentante senza poteri. Ugualmente rigorosa sarà, inoltre, la natura del controllo circa la forma della procura in relazione all’attività compiuta dal rappresentante in nome e per conto del rappresentato. Se la procura ha per oggetto la vendita di beni immobili, ai sensi dell’art. 1350 c.c. e art. 1392 c.c., la procura deve essere conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere e, quindi, con atto pubblico o con scrittura privata”.

Si è, infatti, rilevato che l’applicazione della regola di conflitto di cui all’art. 60 D.I.P. deve essere coordinata con le norme di applicazione necessaria del diritto interno, quali l’art. 51, n. 3, L.N., che impone l’allegazione della procura, e l’art. 54 R.N., che impone l’accertamento della legittimazione ad agire del rappresentante. Quest’ultima, in particolare, non sarebbe sufficientemente garantita dalla sola esibizione di una scrittura privata intercorsa tra le parti

Alla luce di quanto sopra, la sentenza in commento stabilisce che, in presenza di una procura proveniente dall’estero, il notaio dovrà quindi verificare:

– che sia un atto valido secondo i criteri di rinvio dettati dal diritto internazionale privato italiano (art. 60 D.I.P.) e dunque indagare, se occorre, anche la disciplina applicabile nel paese di origine;

– che sia un atto proveniente da un’autorità competente di uno Stato straniero;

– che sia munita di legalizzazione od Apostille, salvo la presenza di convenzioni bilaterali che aboliscono la necessità di avere un documento legalizzato e apostillato;

– che non sia contraria ai parametri previsti dagli artt. 28 L.N. e 54 R.N. e che abbia in ogni caso, per il principio di congruità con l’atto al quale deve essere allegata, i requisiti minimi di sicurezza giuridica e di accertamento dell’identità del sottoscrittore richiesti per la circolazione in Italia del negozio principale;

– sia un atto idoneo ad essere allegato, in luogo del deposito, all’atto notarile.

   6) Uno sguardo al futuro.

La Convenzione di Bruxelles (ratificata e resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 106/1990) che si applica agli atti pubblici e alle scritture private autenticate dagli stessi provenienti, ha soppresso ogni forma di legalizzazione tra gli Stati membri delle Comunità europee contraenti favorendo – da un lato – la rapida  circolazione degli atti, ma rendendo – dall’altro – ancora più complicato il controllo per il notaio che riceve in deposito l’atto estero non legalizzato perché in questo caso l’atto è privo di ogni traduzione e di ogni certificazione relativa al soggetto rogante o autenticante.

In questo contesto appaiono sempre più interessanti i tentativi di trovare soluzioni digitali e telematiche nuove e più rapide per la legalizzazione degli atti (o per l’apostille), garantendo un corretto equilibrio tra l’esigenza di circolazione degli atti e quella di certezza della loro provenienza ai fini dell’utilizzo.

Si segnalano al riguardo interessanti iniziative in fase di sperimentazione come la predisposizione di un sistema di interscambio delle firme digitali tra gli ordinamenti italiano e francese o come la proposta in materia di Apostille elettronica.

Veronica Ferraro, Notaio in Torino.

Il Management by Objective nello studio notarile – a cura Dott.ssa Anna Lisa Copetto

Il principale asset strategico dello studio notarile è rappresentato dalle persone. In particolare, dal know how che esse possiedono, che riescono ad esprimere nel loro agire quotidiano e ad incorporare efficacemente nelle prestazioni professionali che contribuiscono a realizzare. Ciò significa che il successo dello studio dipende in larga misura dalla capacità di performance espressa dai singoli.

Per conseguire i risultati desiderati, lo studio deve poter contare su una squadra di persone non solo preparate tecnicamente (condizione necessaria ma non sufficiente) ma anche desiderose di contribuire al raggiungimento degli obiettivi strategici e al successo dello studio. Non solo, è quantomai opportuno che le persone siano messe nelle condizioni di poter esprimere al meglio le proprie potenzialità, di migliorare con continuità le proprie conoscenze, di ottimizzare l’utilizzo delle proprie risorse. Ed infine, è indispensabile riuscire a tenere sotto controllo e a indirizzare gli sforzi dei propri collaboratori verso una direzione precisa.

Nel tentativo di incrementare il contributo individuale di ciascuno, gli approcci possono essere molto diversi. Alcuni puntano ad ottenere un sempre maggiore impegno attraverso un sistema di premi e ricompense. Altri cercano di migliorare produttività delle proprie risorse insegnando loro i modi migliori o più efficienti per svolgere una determinata mansione. Altri ancora investono sul benessere organizzativo dello staff per indurlo a desiderare di contribuire in maniera più significativa. Tutti questi approcci hanno dimostrato molti vantaggi ma nessuno di questi riesce a immettere quell’elemento di vitalità e di adattabilità al contesto che può consentire allo studio di fare fronte tempestivamente ai cambiamenti del mercato.

L’approccio che si è dimostrato più vincente da questi punto di vista è il cosiddetto Management by Objective (MBO), perché incoraggia lo staff a porsi degli obiettivi specifici da raggiungere e a impegnarsi per raggiungerli e superarli.

Il termine “Management by Objectives” è stato usato per la prima volta da Peter Drucker nel 1951 e successivamente sviluppato da numerosi teorici del management, tra cui Douglas McGregor, George Odiorne e John Humor. Nasce nel mondo aziendale ma ha trovato ampia applicazione anche all’interno degli studi professionali, compresi gli studi notarili. In particolare, negli studi di maggiori dimensioni e con una più profonda cultura manageriale.

Essenzialmente, l’MBO è un modello gestionale in cui un manager (ovvero, un responsabile di area) e il suo collaboratore si siedono a tavolino e stabiliscono insieme gli obiettivi specifici da realizzare entro un determinato periodo di tempo e per i quali il collaboratore è ritenuto direttamente responsabile. In pratica, il responsabile dell’area atti immobiliari si confronta con l’addetto alla redazione atti e/o con l’addetto agli adempimenti post stipula ed insieme definiscono gli obiettivi personali che ciascuno deve raggiungere (ad esempio, ridurre i tempi di elaborazione di un atto di mutuo) al fine ultimo di conseguire un risultato strategico più ampio (ad esempio, aumentare la redditività dell’area).

Nelle organizzazioni che non utilizzano l’approccio MBO, gli obiettivi vengono generalmente “calati dall’alto”: ai collaboratori viene semplicemente detto cosa fare e di cosa saranno ritenuti responsabili. L’approccio MBO introduce un elemento di dialogo tra le parti nel processo di trasmissione degli obiettivi. Da un lato il manager dello studio (il Notaio stesso o un suo delegato) che fa una sua proposta di obiettivi e dall’altro il collaboratore che indica gli obiettivi che considera più appropriati o migliorativi delle attuali performance. Incrociando i dati, insieme sviluppano e approvano un piano di obiettivi specifici.

Il successo della metodologia è spiegato dal fatto che maggiore è il coinvolgimento delle persone nella definizione dei propri obiettivi, maggiore è l’impegno che saranno disposte a profondere per raggiungerli.

Ai fini dell’efficacia di tale sistema, è indispensabile non abbandonare a sé stesso il collaboratore ma prevedere anche una serie di incontri periodici per una valutazione dei risultati intermedi, anche per poter intervenire con gli eventuali aggiustamenti in corsa. In ogni caso, alla fine del periodo di tempo stabilito, il lavoro del collaboratore dovrà essere valutato sulla base dei risultati ottenuti, rapportati ad aspettative specifiche che egli stesso ha contribuito a definire. Il successo ottenuto dovrà in qualche modo essere ricompensato e l’eventuale insuccesso dovrà far rifletter sull’opportunità di fornire al collaboratore inadempiente le risorse necessarie per poter migliorare. Con una diversa formazione o una diversa collocazione organizzativa, ad esempio.

L’approccio MBO trova nella realtà un’ampia varietà di applicazione, a seconda della dimensione, della complessità, della cultura manageriale che caratterizza lo studio notarile. Si passa da una elevata formalizzazione del sistema (che prevede un piano obiettivi documentato, un programma specifico di revisioni periodiche, un sistema di feedback, la descrizione delle tecniche di valutazione utilizzate, ecc.) ad una versione più informale, che si basa invece su una più semplice condivisone verbale degli obiettivi. Normalmente, la sua corretta applicazione prevede incontri formali per la definizione condivisa degli obiettivi, una programma di riunioni periodiche per la valutazione intermedia e una valutazione finale dei risultati.

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network

La stima dei carichi di lavoro nello studio notarile – a cura Dott. Michele D’Agnolo

Molti Notai hanno l’impressione che i loro dipendenti e collaboratori non si esprimano sempre al massimo delle loro possibilità. Cionondimeno, i membri degli staff notarili si dichiarano sempre saturi, spossatissimi e non hanno mai tempo per gestire ulteriori pratiche. Come verificare la realtà dei fatti?

La rilevazione dell’effettivo apporto di un collaboratore rispetto alle sue potenzialità, richiede la conoscenza di alcuni elementi: l’attività in questione, il tempo necessario a portare a termine quella determinata attività, il profilo professionale in termini competenze ed esperienze che si ritiene necessario allo svolgimento di quella attività, ed infine le reali caratteristiche della persona. Rispetto quindi al tempo teoricamente necessario per eseguire il lavoro – rispettando un determinato metodo ed entro una certa unità di tempo – la misurazione del tempo effettivamente speso nell’esecuzione del lavoro può dare un’idea di quella che è la resa lavorativa dei collaboratori, presi singolarmente. Estendendo l’analisi, questa può restituire anche una misura dell’efficienza di studio nel suo complesso.

A partire da questi dati è dunque possibile, anche all’interno di uno studio notarile, procedere all’analisi dei carichi di lavoro.

Le indagini devono tener conto di una certa variabilità e aleatorietà nella definizione dei tempi necessari allo svolgimento delle diverse pratiche: la rilevazione meramente quantitativa non può esprimere, o non sempre, un risultato significativo in quanto non riesce a pesare il diverso grado di complessità tecnica e relazionale delle varie pratiche, spesso determinato da fattori difficilmente misurabili. Un esempio su tutti: la elaborazione dell’atto di un cliente collaborativo richiederà tempi e modalità differenti rispetto alla predisposizione della minuta di un cliente indisciplinato che porta i dati un po’ alla rinfusa e non sempre completi o corretti.  Alcuni atti inoltre sembrano facili all’inizio ma in corso d’opera si possono appalesare difficoltà tecniche inizialmente non prevedibili. Si parla in questi casi di atti con onerosità sopravvenuta. Atti giuridicamente o catastalmente molto complessi possono portare a tempi di esecuzione molto dilatati e la persona che li predispone invece di essere premiata per la sua certosina pazienza rischierebbe di essere punita per la sua bassa produttività.

Pur non esistendo ancora nell’ambito degli studi notarili degli standard di riferimento condivisi, è possibile stimare, almeno per le attività più routinarie, il tempo medio standard di esecuzione. Tempo che andrà rapportato anche alle qualifiche e ai profili professionali necessari allo svolgimento di quella attività.  La stima consentirà di confrontare le performance individuali con quella che è la best practice (di studio o del settore) cercando di cogliere ed imitare gli opportuni spunti per il miglioramento.

Se è vero che non esistono allo stato attuale degli standard condivisi per lo studio notarile, data anche la complessità dei fattori che entrano in gioco nel processo di stipula di un atto notarile, per definizione difficilmente misurabili, è vero però che esistono degli strumenti e delle modalità operative che possono fornire spunti interessanti.

A prescindere dalle modalità prescelte, l’analisi dei carichi di lavoro può fornire utili informazioni circa la misura non solo dell’effettiva espressione delle potenzialità lavorative del collaboratore ma anche della equità delle politiche retributive riferite al reale apporto del singolo allo studio in termini di redditività, di complessità della clientela, di pratiche gestite e quant’altro. Non solo, può diventare anche uno strumento di identificazione di quello che è il reale fabbisogno di risorse umane dello studio, rispetto al quale il Notaio potrà intervenire con gli opportuni adeguamenti.

Nell’ambito degli Studi Notarili Associati, l’analisi dei carichi di lavoro esprime la sua utilità anche in termini di sviluppo del piano di crescita dei giovani professionisti ma anche in termini di analisi del contributo dei professionisti senior allo sviluppo dello studio in relazione al tempo dedicato alla professione, piuttosto che all’organizzazione o all’attività di comunicazione esterna.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

Alla ricerca della ratio al fine dell’applicazione dell’articolo 552 codice civile – a cura Notaio Roberto Santarpia

Il tema dell’indagine non è semplice ma mi sono risoluto ad effettuarla in quanto non solo spinto dalla curiosità circa la tecnica legislativa ma anche perché la soluzione del problema incide in modo pratico sul lavoro del notaio e questo studio ha lo scopo di risolvere (o provare a risolvere) un problema operativo.

Vi sono due sentenze di cassazione a sezioni unite sul medesimo tema a pochi giorni di distanza 9 giugno 2006 numero 13429 e 12 giugno 2006 numero 13524 e particolarmente quest’ultima è rilevante. Il principio espresso è il seguente: “ai fini dell’individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari e singoli legittimari nell’ambito della stessa categoria occorre fare riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione e non a quella che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento (per rinunzia o prescrizione) dell’azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari.”

In sostanza viene stabilito il principio che la quota di riserva è una quota fissa e non mobile.

La cassazione a sostegno dell’asserto ha preso in considerazione degli argomenti condivisi anche da parte della dottrina prevalente quali ad esempio l’impossibilità di applicare il principio stabilito dagli articoli 521 e 522 codice civile circa la rinuncia all’eredità da parte di uno dei chiamati che fa accrescere la quota a favore degli altri, per mancanza degli stessi presupposti con riferimento alla successione necessaria (mancanza di una chiamata congiunta ad una quota globalmente considerata e il garantire la destinazione di una porzione di patrimonio del cuius dopo la rinuncia all’eredità).

Ma la stessa Cassazione ha fondato la sua decisione su esigenze di certezza e di tutela della circolazione senza però prendere in considerazione che il ricusare il principio di elasticità della quota di riserva urta in modo fragoroso contro il disposto dell’articolo 552 codice civile che quindi non può più trovare pratica applicazione. Quest’ultimo infatti prevede che il legittimario che rinunzia all’eredità può sulla disponibile ritenere le donazioni o conseguire i legati a lui fatti, ma quando non vi è stata espressa dispensa dall’imputazione (il che significa conteggiarlo sulla propria quota di legittima) se per integrare la legittima spettante agli eredi è necessario ridurre le disposizioni testamentarie o le donazioni restano salve le assegnazioni fatte dal testatore sulla disponibile che non sarebbero soggetto a riduzione se il legittimario accettasse l’eredità e si riducono le donazioni e i legati fatti a quest’ultimo.

Come potrebbe una disposizione effettuata dal testatore a titolo gratuito non essere soggetta a riduzione se lui avesse accettato l’eredità e dopo la sua rinuncia invece essere soggetta a riduzione da parte degli altri legittimari se non perché gli si è espansa la quota di legittima? Difatti sulla base di questo articolo la dottrina più accreditata quale Mengoni e Capozzi ritenevano che la quota di legittima si espandesse per rideterminazione in conseguenza della mancanza dell’altro legittimario nonchè il Cariota-Ferrara che parlava di accrescimento. Vi è differenza perché nel caso di concorso di due fratelli legittimari la quota di riserva è un mezzo e cioè 1/4 ciascuno e se si accrescesse per rinuncia di uno sarebbe sempre un mezzo, mentre in caso di rideterminazione della quota (teoria assolutamente preferibile e maggioritaria) la quota di riserva diverrebbe 1/3 come se vi fosse stato sempre un solo legittimario.

Per tornare alle motivazioni della cassazione che sorreggono la sua tesi e cioè che la quota di legittima è fissa e determinata con riferimento ai soggetti che sono presenti al momento dell’apertura della successione a prescindere dal numero di questi che concretamente adiscono la stessa, la Cassazione ha espressamente detto che:

A) “la ratio ispiratrice della successione necessaria non è solo quella di garantire a determinati parenti una porzione del patrimonio del de cuius ma anche quella di consentire a quest’ultimo di sapere entro quali limiti, in considerazione della composizione della propria famiglia, può disporre del suo patrimonio in favore di terzi”.

B) Soggiunge, nel pacifico presupposto che non vi è actio interrogatoria per azione di riduzione, che ogni legittimario può esperire “l’azione di riduzione solo con riferimento alla porzione del patrimonio del de cuius che gli spetterebbe a tale momento e se la quota fosse mobile solo dopo la rinunzia all’esercizio dell’azione di riduzione da parte degli altri legittimari o la prescrizione in danno degli stessi, potrebbe agire per ottenere un supplemento di legittima con evidente incertezza medio tempore in ordine alla sorte di una quota dei beni di cui il de cuius ha disposto per donazione o per testamento a favore di terzi.”

Non si è però affatto premurata di correlare il suo asserto con l’art. 552 c.c. ed una norma però (a mio avviso) non può essere stata inserita nel Codice priva di giuridica rilevanza. Difatti, dopo le due sentenze di cassazione a sezioni unite sopra citate, leggendo il testo sulle successioni scritte da un compianto giurista che ho sempre molto ammirato, Ubaldo la Porta, verificavo che nel 2016 (e quindi dopo le suddette sentenze) optava per la quota di riserva mobile argomentando ciò in base all’art. 552 c.c.. 

Ora se riuscissimo a verificare qual è il fondamento dell’articolo 552 c.c. e la sua portata e se la stessa fosse in asse con la ratio ispiratrice della successione necessaria quale individuata dalla Cassazione e indicata sopra alla lettera A), avremmo trovato l’ambito applicativo della norma suddetta e quindi, considerato che la stessa presuppone la quota mobile, aderire alla tesi della quota mobile.

Ora io credo che, leggendo attentamente il disposto del suddetto articolo 552 codice civile, anche il legislatore del 1942 propendesse per la certezza della inimpugnabilità delle disposizioni a titolo gratuito effettuate dal de cuius, a gravare sulla disponibile, in funzione del calcolo che lo stesso rettamente avesse fatto, al fine di tutelare la sua volontà; però ha operato questa tutela non sotto il profilo della fermezza di detta quota in astratto ma sotto il più proficuo profilo della inimpugnabilità delle disposizioni -effettuate senza dispensa dall’imputazione- da lui fatte sulla disponibile che non sarebbero state oggetto di riduzione se il legittimario avesse accettato l’eredità e quindi disponendo la riduzione dei legati e delle donazioni a lui legittimario rinunciante fatte; quindi il 552 è una norma di raccordo tra l’individuazione di una quota di riserva mobile e il principio  -che la stessa cassazione ha propugnato ed indicato alla lettera A) del rispetto della volontà del de cuius- che le disposizioni a titolo gratuito dal testatore effettuate a favore di terzi, non venissero impugnate con azione di riduzione in seguito alla rinuncia poi fatta da uno dei legittimari che quindi può trattenere il bene a lui legato (o donato) e non lo imputa più alla sua quota di riserva poichè non adisce l’eredità.

Peraltro anche il fine che la Cassazione ha ritenuto meritevole di essere tutelato, quale indicato alla superiore lettera B), e cioè la certezza medio tempore (tra l’impugnazione da parte di un legittimario e la rinuncia da parte di altro legittimario ad agire in riduzione) in ordine alla sorte di una quota dei beni che di cui il de cuius ha disposto per donazione o per testamento a favore di terzi, certezza che verrebbe meno se si adottasse il principio della quota mobile perché lo stesso legittimario che -con una quota mobile- da 1/4 passa ad 1/3-  potrebbe agire poi per ottenere il supplemento di legittima, non costituisce a mio avviso valida argomentazione per due motivi: in primis perché le norme sulla riserva tutelano i legittimari e non le aspettative del terzo beneficiario di una disposizione a titolo gratuito; in secundis perché quest’ultimo così come può aspettarsi per 10 anni (non essendoci actio interrogatoria per la riduzione) dall’apertura della successione che gli venga impugnata la donazione lesiva  per quota di un mezzo -se i legittimari fossero due fratelli-, non viene leso nella sua aspettativa se uno dei due rinuncia in quanto invece che essere il fratello secondo rinunciante ad agire in riduzione per la sua quota di 1/4 sarà il fratello primo ad agire in riduzione, si in supplemento, ma non più peraltro per un ulteriore quarto ma per un totale di 1/3 e quindi per una quota inferiore a quella che sarebbe stata possibile impugnare al momento dell’apertura della successione.

Quindi io ritengo che il detto articolo 552 codice civile abbia tuttora vigenza e portata ed anzi essere molto rilevante perché, pur nel presupposto dell’individuazione di una quota di riserva mobile, contemporaneamente fa salve le disposizioni testamentarie o donative fatte sulla disponibile rendendole inimpugnabili se il legittimario, tra più legittimari, che ha rinunciato avesse invece accettato l’eredità in concorso con gli altri presupposti indicati dalla stessa norma. Questa norma quindi tutela: 1) la volontà del de cuius lasciando ferme le disposizioni gratuite a favore di terzi fatte sulla disponibile; 2) l’individuazione della quota di riserva dell’unico legittimario che adisce l’eredità, dandogli una maggiore quota, disinteressandosi quindi dell’altro legittimario che liberamente e scientemente rinuncia all’eredità e alla azione di riduzione (peraltro potendo trattenere il legato o la donazione nei limiti della disponibile).

Ciò detto, pur estremamente convinto delle posizioni da me illustrate, da operatore del diritto prudente osserverò il principio espresso dalla Cass a S.U. e cioè che la quota di riserva è fissa, ma mi auguro che i miei ragionamenti giuridici in ordine al 552 c.c. nel tempo fungano da cuneo per un ripensamento.

Roberto Santarpia,  Notaio in Orzinuovi.

I Segnalatori dello studio notarile – a cura Dott. Michele D’Agnolo

Ancor oggi, la clientela dello studio notarile arriva principalmente per passaparola. Clienti rimasti soddisfatti segnalano la prestazione ad amici, parenti e conoscenti.

Anni addietro, ad esempio, molti notai neo nominati acquisivano le prime relazioni con i clienti privati dedicandosi agli atti minori come ad esempio le compravendite di autoveicoli. Le autentiche sui passaggi di proprietà oltre a garantire un budget iniziale, consentivano al professionista di farsi conoscere ad una vasta platea di soggetti, che poi avrebbero fatto scattare il meccanismo del passaparola.

Oggi, viceversa, venute meno alcune prestazioni notarili basiche, la possibilità per un giovane Notaio di farsi conoscere alla clientela è più difficile. E difatti è molto più comune l’associazionismo professionale volto al progressivo subentro in sedi notarili già presidiate. 

Un numero rilevante di opportunità di lavoro arriva al Notaio non direttamente da ex clienti ma piuttosto attraverso la segnalazione di soggetti terzi. Si direbbe terzi ma non troppo, in quanto si tratta di solito di soggetti in qualche modo coinvolti nel processo di stipula degli atti. Ad esempio, in alcune zone della Toscana è tradizionalmente il tecnico edile ovvero l’architetto, geometra, perito o ingegnere edile a predisporre il fascicolo con le ispezioni ventennali e a condurre i clienti dal proprio Notaio di riferimento.

E così, nell’ambito delle prestazioni di diritto immobiliare possono fungere da segnalatori le agenzie immobiliari, gli amministratori di condominio e i costruttori edili, soprattutto quando commercializzano soluzioni abitative seriali come villette a schiera, appartamenti in grandi condomini, lottizzazioni.

Nell’ambito del diritto societario è invece fondamentale per lo studio notarile curare il rapporto con i commercialisti, che inviano i loro clienti imprenditori a svolgere le operazioni societarie straordinarie, le costituzioni e le modificazioni degli atti costitutivi.

Per quanto concerne il diritto bancario, spesso mutui, surroghe ed altri atti consimii vengono segnalati da banche e broker.

Anche il rapporto con avvocati immobiliaristi o di affari, soprattutto se afferenti a studi con un buon posizionamento e/o dimensione può canalizzare efficacemente un certo numero di atti.

Avere un buon rapporto con i segnalatori permette allo studio di ricevere un flusso maggiore e più uniforme di clientela. Inoltre, se i segnalatori sono opportunamente educati e formati, possono contribuire a rendere più fluido il lavoro dello studio in quanto possono fornire dei semilavorati migliori. Un rapporto conflittuale invece crea fastidio perché costringe al rimbalzo delle minute degli atti con conseguente aumento dei tempi, dei costi e dei rischi di errori e insoddisfazioni.

Il rapporto con i segnalatori è da sempre nel mirino dei consigli notarili per gli elevati rischi di violazione delle norme deontologiche, in particolare quelle relative all’indipendenza del Notaio, che si possono verificare laddove siano istituiti compensi di segnalazione di qualsivoglia natura. Per fortuna è assolutamente possibile avere buoni rapporti con i segnalatori anche mantenendo il pieno rispetto dei presidi etici posti dal CNN.

Per avere un buon rapporto con i segnalatori occorre innanzitutto valutare con attenzione quali sono i requisiti della prestazione notarile che sono importanti per ciascuna categoria di intermediari. Possiamo considerare questi intermediari come clienti indiretti, ovvero stakeholder, cioè di portatore di interessi nello studio.

Se vogliamo in modo deontologico ed elegante ricompensare il segnalatore, le agevolazioni di tipo tecnico-scientifico e immateriale sono di solito le più efficaci.

Ad esempio i commercialisti apprezzano molto di avere un accesso immediato e privilegiato al Notaio in modo da poter dirimere “in diretta” con il cliente eventuali aspetti problematici delle operazioni societarie soprattutto di carattere straordinario.

Gli istituti di credito e le agenzie immobiliari oggi apprezzano in modo particolare eventuali interventi formativi a vantaggio delle proprie reti di collaboratori, che mediamente sono sempre più precari e impreparati, e soggetti ad elevatissimo turnover.

Altri esempi potrebbero essere flessibilità nel caso di urgenze o nel reperimento della documentazione.

Avere un buon rapporto con i segnalatori consente spesso allo studio di fluidificare i processi. Questo richiede però uno sforzo di standardizzazione da parte dello studio, che metterà a disposizione i suoi modelli di atti.

Per l’avvocato o Il commercialista che propone il suo atto invece del rodatissimo facsimile dello studio occorre essere pronti con delle checklist che prescindano dalla struttura dell’atto e si concentrino sui contenuti obbligatori e opportuni che ogni categoria di atto deve avere.  

Lo studio notarile che investe sugli intermediari in modo etico e li organizza all’interno del flusso di produzione degli atti viene quindi ricompensato.

 

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

La cessione del contratto sconta l’ordinaria imposta per le cessioni di beni e servizi- a cura Notai Giandomenico Schiantarelli e Salvatore Pepe

La cessione di contratto preliminare è prestazione di servizi ai sensi dell’art. 3 D.P.R. 633/1972 e, pertanto, sconta
l’IVA sul corrispettivo di cessione e l’imposta di registro in misura fissa (art. 40 D.P.R. 131/1986). La previsione della restituzione, “a titolo di caparra”, di una somma diversa dalla caparra a suo tempo versata dal cedente costituisce, ad onta delle espressioni utilizzate, un corrispettivo e, come tale, rende la cessione rilevante ai sensi dell’art. 3 cit. (
Risposta ad interpello n. 95/2022 del 4 marzo 2022).

Con la risposta ad interpello di cui sopra si è riportata una massima (non ufficiale), l’Agenzia delle Entrate affronta ed offre spunti interessanti di riflessione in ordine alla tassazione della circolazione della c.d. posizione contrattuale.

La fattispecie sottoposta al vaglio dell’Agenzia finanziaria è quella di una cessione di contratto preliminare, ai sensi dell’art. 1406 cod. civ., da parte di un soggetto passivo IVA, dietro il versamento di una somma di Euro 50.000,00, versamento qualificato dalle parti come “restituzione della caparra”; tuttavia, la caparra a suo tempo versata nel contratto ceduto era di Euro 70.000,00.

La diversità tra i due importi viene ritenuto elemento decisivo per qualificare l’importo versato dal cessionario quale “corrispettivo” per la cessione del contratto e, dunque, rendere la prestazione del cedente rilevante ai sensi dell’art. 3 D.P.R. 633/1972 (in particolare, co. 2, n. 5), con tutte le conseguenze del caso.

Prima di commentare la soluzione adottata dall’Amministrazione finanziaria, vale la pena precisare che crediamo (per le cose che diremo) scarsamente rilevante, dal punto di vista fiscale, la tesi seguita in ordine alla natura giuridica della “cessione del contratto”. Infatti, vuoi che si voglia ritenere la fattispecie come “trilaterale” e avente ad oggetto un cumulo indistinto di debiti-crediti (la “posizione contrattuale”), vuoi che la si voglia ritenere come “bilaterale” (ritenendosi sufficienti il consenso del cedente e del cessionario), rivestendo il consenso del creditore un ruolo limitato a dare efficacia liberatoria all’accollo dei debiti, posto in essere tra le parti della cessione (tesi di Raffaele Cicala), poco cambierebbe. A dire il vero, l’unico punto in cui la cosa cambierebbe è che, aderendo alla ricostruzione del Cicala, il contratto sarebbe sempre un contratto oneroso, vale a dire un negozio di cessione dei crediti in corrispettivo dell’accollo (liberatorio o meno) dei debiti di cui al medesimo rapporto contrattuale; di conseguenza, l’Illustre Autore ritiene che il vero prezzo della cessione sia corrisposto da chi risulti “aver meno” e cioè: dal cessionario, se i crediti sono minori o uguali rispetto al valore dei debiti accollati; dal cedente, se i debiti accollati sono minori dei crediti ceduti (e dunque, a voler essere rigorosi, in questo secondo caso la tassazione dovrebbe essere in capo a questo soggetto, manifestando egli una capacità contributiva – il “prezzo” dato dalla minusvalenza).

Tralasciando tuttavia le sottigliezze civilistiche, in sostanza si può ritenere che la soluzione data dall’Amministrazione sia condivisibile, anche se l’iter argomentativo potrebbe essere diverso.

A norma degli artt. 1406 ss. cod. civ., la cessione del contratto costituisce una successione – a titolo derivativo – nella posizione giuridica del cedente a favore del cessionario. Nel caso in cui fosse data una caparra, accessorium sequitur principale e, dunque, il cessionario subentra nel rapporto relativo altresì a questa; il (promittente) venditore, non ha, al riguardo, alcun obbligo di restituzione, salvo diverso accordo tra tutti.

Di conseguenza e salvo intenti liberali, sarà cura e onere (per una convenienza economica) del cedente pattuire per la cessione un corrispettivo che lo ristori almeno delle spese sostenute (in primis la caparra).

Se quanto sopra è vero, allora, si può addirittura concludere, andando oltre le argomentazioni dell’Amministrazione, che ogni volta che v’è una prestazione da parte del cessionario verso il cedente non si tratta mai di un mero “rimborso anticipazioni/spese”, bensì sempre e soltanto di un corrispettivo (calcolato dal cedente in base ai suoi criteri, tra cui l’ammontare dei costi/guadagni, se riterrà); e ciò sarebbe vero anche laddove si “rimborsasse” (rectius, si convenisse un corrispettivo di importo pari al)l’intero importo della caparra. Anche in tal caso, dunque, dovrebbe concludersi nel senso di qualificare l’operazione come “cessione onerosa della posizione contrattuale”.

La vicenda circolatoria del preliminare è assai frequente nella prassi della contrattazione immobiliare e passa anche per altre strade. Una valida alternativa è la stipulazione con riserva di nomina della persona che assumerà diritti ed obblighi (art. 1401 cod.civ.).

In tal caso, al di là dell’imposizione prevista dall’art. 32 D.P.R. 131/1986, si pone frequentemente il problema della restituzione di caparre e/o acconti ovvero della corresponsione di corrispettivi. E’ opportuno fare qualche distinzione:

   a.      Nomina gratuita:

          i.   senza restituzione di caparre/acconti/somme in atto: in tal caso, l’atto sconterà – in parte qua e quanto alla registrazione – soltanto l’imposta fissa di cui all’art. 32 D.P.R. 131/1986;

           ii.  Con restituzione di caparre/acconti/somme in generale: in questa evenienza, assai frequente, la questione della tassazione diventa più articolata. Sebbene ci sia spostamento di ricchezza, non si ritiene che la medesima dia luogo a manifestazione di capacità contributiva da tassare in capo all’accipiens (stipulans) o al solvens (electus). Infatti, considerata la natura giuridica prevalentemente riconosciuta al contratto per persona da nominare (id est, rappresentanza eventuale in incertam personam), all’esito di una valida electio amici, lo stipulans risulterà essere (stato) un mandatario dell’electus; pertanto, troveranno piena applicazione gli artt. 1719 e 1720 cod.civ., con la conseguenza che se le somme sono state erogate dal mandatario, il mandante avrà l’obbligo di rimborso. Le conseguenze, ai fini fiscali, sono notevoli e portano a conclusioni diverse da quelle delle ipotesi precedentemente considerate, in quanto:

      1.   tali somme non costituiscono corrispettivo di cessione/nomina e non danno luogo a tassazione        come tale;

      2.     l’obbligo di rimborso scaturisce dalla legge e non da previsioni contrattuali, onde non c’è                  presupposto per applicare una imposta di registro in merito;

      3.    laddove nell’atto si desse conto di tali obblighi e del relativo adempimento da parte dell’electus,       nemmeno la quietanza rilasciata dallo stipulans sarebbe soggetta a tassazione, ai sensi dell’art.         21, ult. co., D.P.R. 131/1986, considerata la contestualità rispetto all’atto che – quale elemento          della fattispecie legale – determina l’effettività di questo obbligo di restituzione; ad ogni modo e       a tutto concedere, al massimo l’imposizione potrà essere pari allo 0,50%, quale quietanza ai             sensi    dell’art. 6 Tar. Parte Prima allegata al D.P.R. 131/86;

     4.      del resto, la tassazione in capo all’unica reale parte (l’electus, per effetto della fictio iuris prevista       dalla legge) è già avvenuta al momento della registrazione del preliminare;

         b.      Nomina dietro corrispettivo, con o senza restituzione di somme (caparre, acconti, altro): in tal caso –           che si ritiene perfettamente lecito – la nomina si connota dell’onerosità e, pertanto, anche alla stregua           del principio di capacità contributiva, sarà assoggettabile a tassazione sulla somma pattuita, con                   l’aliquota del 3% (la tassazione della quietanza viene assorbita ai sensi dell’art. 21 già citato) in capo             al solvens; per la restituzione delle ulteriori somme, vale quanto sopra. 

Giandomenico Schiantarelli, Notaio in Tirano – Salvatore Pepe,  Notaio in Ardenno. 

ABOLIZIONE DEL VISTO QUADRIMESTRALE DEL REPERTORIO – a cura Notaio Elena Peperoni

L’art. 68 comma 1 D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131 prevedeva per i notai l’obbligo, entro il mese successivo a ciascun quadrimestre solare e nei giorni indicati dall’ufficio del registro competente per territorio, di presentare il repertorio all’ufficio stesso.

Il secondo comma della norma prevedeva che il medesimo ufficio, dopo aver controllato la regolarità della tenuta del repertorio e della registrazione degli atti in esso iscritti, nonché la corrispondenza degli estremi di registrazione ivi annotati con le risultanze dei registri di formalità di cui all’art. 16 e dopo aver rilevato le eventuali violazioni e tutte le notizie utili, apponesse il proprio visto dopo l’ultima iscrizione indicando la data di presentazione e il numero degli atti iscritti o dichiarando che non aveva avuto luogo alcuna iscrizione.

L’art. 1 del D.L. 21 giugno 2022 n. 73, convertito con modificazioni dalla L. 4 agosto 2022, n. 122 (pubblicato in G.U. 19/08/2022, n. 193), ai commi 1 e 2 così definitivamente recita:

“Art. 1 – Soppressione dell’obbligo di vidimazione quadrimestrale dei repertori.

1. Al testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 6 aprile 1986, n. 131, sono apportate le seguenti modificazioni:

 a) all’articolo 68, i commi 1 e 2 sono sostituiti dai seguenti:

«1. Il controllo dei repertori previsti dall’articolo 67 è effettuato su iniziativa degli uffici dell’Agenzia delle Entrate competenti per territorio. I soggetti indicati nell’articolo 10, comma 1, lettere b) e c), i capi delle amministrazioni pubbliche ed ogni altro funzionario autorizzato alla stipulazione dei contratti trasmettono il repertorio entro trenta giorni dalla data di notifica della richiesta. Gli uffici dell’Agenzia delle Entrate effettuano verifiche anche presso gli uffici dei soggetti roganti.

2. L’ufficio dopo aver controllato la regolarità della tenuta del repertorio e della registrazione degli atti in esso iscritti, nonché la corrispondenza degli estremi di registrazione ivi annotati con le risultanze dei registri di formalità di cui all’articolo 16 e dopo aver rilevato le eventuali violazioni e tutte le notizie utili, comunica l’esito del controllo ai pubblici ufficiali.»;

b) all’articolo 73, il comma 1 è sostituito da seguente:

«1. Per l’omessa presentazione del repertorio a seguito di richiesta dell’ufficio dell’Agenzia delle Entrate, ai sensi del primo comma dell’articolo 68, i pubblici ufficiali sono puniti con la sanzione amministrativa da euro 1.032,91 a euro 5.164,57.».

Pertanto, il controllo del repertorio da parte della Agenzia delle Entrate non è più un automatismo a scadenza fissa e periodica, ma è effettuato solo su iniziativa dell’Agenzia stessa, che deve comunque dare un preavviso al notaio di almeno trenta giorni.

Si ritiene che – pur in assenza di espressa previsione in tal senso – anche per le verifiche del repertorio effettuate, come ora consentito dalla norma, presso gli uffici dei soggetti roganti, l’Agenzia delle Entrate debba comunque dare il medesimo preavviso di almeno trenta giorni.

Resta, invece, invariato il terzo comma dell’art. 68, ai sensi del quale l’ufficio non può comunque trattenere il repertorio oltre il terzo giorno non festivo successivo a quello di presentazione.

Elena Peperoni, Notaio in Palazzolo sull’Oglio (BS)

Il marketing è di tutti – a cura Dott.ssa Anna Lisa Copetto

Nel concetto di marketing non c’è nulla di peccaminoso, fortunatamente se ne stanno accorgendo anche gli studi notarili. Fermo restando i limiti (giustamente) imposti dalla deontologia e dal decoro professionale, l’attività di marketing sta diventando sempre più parte integrante della strategia di sviluppo dello studio.

Sgomberiamo il campo da alcune credenze. Il marketing non è un’attività di vendita, la vendita ne è semmai il risultato. Il marketing non è pubblicità, che è invece uno degli strumenti di cui si avvale. Il marketing non è dare la caccia a nuovi clienti, o non necessariamente, è piuttosto prendersi cura della relazione con i clienti già faticosamente acquisiti affinché diventino essi stessi strumenti di marketing. 

Il marketing non è un’attività da svolgere a tempo perso, è invece un processo che deve essere pianificato, guidato, monitorato e riaggiustato costantemente, in funzione dei cambiamenti che possono interessare lo studio. 

Il marketing è la scienza che studia il cliente – le sue caratteristiche, i suoi comportamenti, le sue preferenze, i suoi bisogni, le sue aspettative – e che fornisce le informazioni necessarie per progettare e offrire una proposta di valore capace di soddisfarlo.

Il marketing non è solo un affare da aziende. Anzi, l’intangibilità dei servizi rende ancor più indispensabile curare in modo maniacale non solo la qualità tecnica della prestazione (che comunque il cliente finirà per dare per scontata) ma anche la qualità percepita sulla base della quale il cliente ci giudica, ci apprezza e ci segnala. 

Il marketing non è solo un affare che riguarda il Notaio, che ha l’arduo compito di delineare le strategie dello studio che però hanno bisogno di essere tradotte in una serie di azioni quotidiane poste in essere da tutto il team, in base alle proprie competenze e al proprio ruolo. Solo con il coinvolgimento di tutti si riesce a garantire il successo dello studio.

Essere sempre gentili, pazienti e professionali, anche quando il cliente è scortese o anche quando abbiamo poco tempo, siamo di cattivo umore o sotto pressione, incide sulla qualità percepita da parte del cliente. Essere carenti su quest’aspetto può essere un elemento di grande disturbo per il successo dello studio. Il cliente oggi non ha paura di lasciare lo studio su due piedi.

La disponibilità, la cortesia, l’empatia, l’immagine sono elementi tutt’altro che marginali nel complicato processo di valorizzazione dei benefici apportati al cliente. Anzi, possono essere gli elementi di differenziazione in base ai quali il cliente ci sceglie o ci abbandona. 

Ricordarsi qualche circostanza della vita privata può mettere il cliente più a suo agio, farlo sentire accudito e coccolato. Ecco allora che quella chiacchierata dell’impiegata con il cliente spesso giudicata un costo per lo studio in realtà è un’azione di marketing, basata sulla fidelizzazione e sul passaparola. Non serve avere la memoria di Pico della Mirandola, basterebbe anche una buona agenda aggiornata che potrebbe in secondo momento trasformarsi in uno strumento di CRM più evoluto.

Analizzare con cura i dati del cliente e intercettare in essi una sua difficoltà rispetto alla quale lo studio può essergli di supporto, significa andare oltre le aspettative del cliente e garantire allo studio una stabilità di rapporto. Anche questa è una azione di marketing (tecnicamente, cross selling). Una azione tanto più efficace quanto più la relazione tra cliente e collaboratore è basata sulla fiducia e sul dialogo continuo.

Cogliere tempestivamente i segnali di allarme che il cliente lancia più o meno esplicitamente e intervenire prima che decida di abbandonare lo studio o prima che ne possa parlar male all’esterno, anche questa è una azione di marketing che va sostenuta e agita da tutti coloro che entrano in relazione con lui.

Mantenere il cliente aggiornato sui temi che lo riguardano e sulle prestazioni che lo studio è in grado di garantirgli per essergli di supporto, è un’azione di marketing spesso trascurata e che invece andrebbe curata, nominando ad esempio all’interno dello studio un Knowledge Manager che presieda la formulazione e la pubblicazione di informazioni, approfondimenti e notizie. 

Insomma, affinché possa essere efficace ed incisivo, il marketing non dovrebbe essere un progetto strategico riservato ai piani alti ma deve essere una responsabilità condivisa e una attitudine diffusa in tutta la squadra.

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network