Il Business Plan nello Studio Notarile: Strumento Strategico per la Crescita e il Successo – di Dott. Michele D’Agnolo

Il business plan è uno strumento strategico e gestionale utilizzato in molteplici ambiti professionali per pianificare lo sviluppo di un’attività, definirne gli obiettivi e strutturare le risorse necessarie per il raggiungimento dei risultati desiderati. Negli ultimi anni, l’importanza di questo strumento si è estesa anche ad ambiti che tradizionalmente erano meno orientati alla gestione aziendale in senso stretto, come quello degli studi notarili.

Il business plan è un documento strategico di natura in parte contabile in parte descrittiva che delinea in modo dettagliato gli obiettivi di un’attività e le modalità con cui si intende raggiungerli. In sostanza, rappresenta una guida strutturata per gestire e sviluppare un’impresa, delineando gli aspetti finanziari, operativi, organizzativi e di mercato. Esso include solitamente un’analisi del contesto competitivo, una previsione economica e finanziaria, un piano di marketing e una strategia di crescita. Oltre a essere utile per pianificare le attività interne, il business plan è spesso richiesto dagli istituti di credito per valutare la sostenibilità economica di un progetto o di un’attività già avviata. Negli studi notarili, pur non trattandosi di imprese, il business plan fornisce una visione chiara e strategica per l’organizzazione dello studio e per il suo sviluppo futuro.

Invero, uno studio notarile si differenzia nettamente dalle imprese sia per la natura giuridica dell’attività svolta che per il tipo di relazioni con la clientela. Il notaio è un pubblico ufficiale, il cui ruolo è regolato dal diritto e la cui funzione primaria è garantire la certezza giuridica degli atti. Tuttavia, lo studio notarile è anche un’organizzazione economica che deve comunque garantire l’efficienza operativa, la sostenibilità economica e la qualità dei servizi erogati.

Gli studi notarili operano oggi in un mercato altamente competitivo, caratterizzato da una crescente richiesta di innovazione tecnologica e organizzativa. Di conseguenza, i notai sono chiamati non solo a svolgere il loro ruolo istituzionale, ma anche a gestire in modo efficace le risorse umane, i costi operativi e la strategia di crescita dello studio.

In questo contesto, il business plan assume un’importanza cruciale, sia per gli studi di nuova costituzione che per quelli già avviati.

Quando si avvia uno studio notarile, il business plan rappresenta uno strumento essenziale per delineare le strategie di posizionamento e per gestire i primi passi dell’attività. In un mercato regolamentato e particolarmente competitivo come quello notarile, la pianificazione accurata può fare la differenza tra un avvio di successo e un percorso accidentato.

Il business plan per un nuovo studio notarile dovrebbe includere:

– Analisi di mercato: valutare il territorio in cui si intende operare, la presenza di altri studi notarili, la domanda potenziale di servizi notarili, il tipo di clientela (privati, imprese, enti pubblici) anche per scegliere consapevolmente una adeguata collocazione geografica per lo studio.

– Piano finanziario: prevedere i costi iniziali, come l’allestimento dello studio, l’acquisto di strumenti tecnologici, la pubblicità e il personale. È inoltre importante stimare i ricavi previsti e il punto di pareggio (break-even point).

– Obiettivi strategici: definire gli obiettivi a breve e lungo termine, come il numero di atti da stipulare mensilmente, il consolidamento della base clienti e l’incremento del fatturato.

– Struttura organizzativa: pianificare la gestione delle risorse umane e il sistema di organizzazione interna, inclusi i ruoli del personale e la gestione dei processi operativi.

Avere un business plan ben strutturato consente ai notai di nuova nomina di avere una visione chiara su come gestire i primi anni di attività, riducendo i rischi e aumentando la possibilità di raggiungere stabilità economica in tempi più brevi.

Anche negli studi notarili già operativi, il business plan si rivela uno strumento fondamentale per il continuo sviluppo e miglioramento delle performance. In questo caso, il focus del piano non sarà tanto l’avvio dell’attività quanto la sua ottimizzazione e crescita.

Per uno studio già avviato, il business plan può concentrarsi su:

– Miglioramento dell’efficienza operativa: individuare aree di inefficienza o sprechi di risorse e proporre soluzioni per ottimizzare il tempo e i costi operativi. Questo può includere l’automazione di alcuni processi, l’introduzione di nuove tecnologie e la formazione del personale.

– Espansione dei servizi: identificare nuove opportunità di mercato, come l’introduzione di servizi innovativi che rispondano a cambiamenti normativi o nuove richieste della clientela.

– Pianificazione finanziaria e fiscale: monitorare costantemente le performance finanziarie dello studio e pianificare il futuro attraverso una gestione attenta delle risorse finanziarie e l’ottimizzazione fiscale.

– Sviluppo della clientela e marketing: il business plan può includere strategie di marketing mirate, volte a fidelizzare la clientela esistente e acquisire nuovi clienti. Questo può passare attraverso attività di networking, partecipazione a eventi professionali o collaborazioni con altri professionisti.

Un business plan aggiornato regolarmente aiuta il notaio già avviato a mantenere la direzione giusta e a operare con obiettivi chiari e formalizzati. È uno strumento di autovalutazione, che permette di verificare se lo studio sta andando nella direzione prevista e, in caso contrario, di intervenire tempestivamente per correggere eventuali deviazioni.

Come abbiamo visto, uno dei principali vantaggi del business plan, sia per uno studio di nuova costituzione che per uno già avviato, è la possibilità di operare con obiettivi pianificati e formalizzati. Questo permette di evitare l’improvvisazione, tipica di chi non ha una visione a lungo termine, e di operare invece con un approccio consapevole e strategico.

Tra i vantaggi specifici possiamo elencare:

– Approccio proattivo: lo studio notarile non accetta passivamente ciò che gli accade ma agisce in maniera coerente e focalizzata per ottenere i risultati desiderati.

– Chiarezza degli obiettivi: definire in modo chiaro quali sono gli obiettivi economici, operativi e strategici dello studio, consentendo al notaio di orientare le proprie decisioni e azioni quotidiane verso il loro raggiungimento.

– Gestione delle risorse: con un business plan è possibile allocare in modo più efficiente le risorse dello studio (finanziarie, tecnologiche, umane), riducendo gli sprechi e migliorando i risultati.

– Monitoraggio dei risultati: un piano d’azione dettagliato consente di monitorare costantemente i progressi dello studio e di apportare eventuali correzioni in corsa.

– Pianificazione economica e finanziaria: un aspetto cruciale per evitare crisi di liquidità o inefficienze nella gestione dei flussi finanziari.

– Previsione dei rischi: attraverso un’analisi accurata del mercato e della propria situazione, il business plan permette di identificare e prevenire eventuali rischi, gestendoli con piani di emergenza adeguati.

In conclusione, il business plan rappresenta uno strumento indispensabile per chiunque gestisca uno studio notarile, sia esso di nuova costituzione o già avviato. Pianificare in anticipo e con metodo consente di affrontare con maggiore sicurezza le sfide del mercato, di operare con obiettivi chiari e di garantire la crescita e la sostenibilità dello studio nel tempo. Lo studio notarile, benché inserito in un ambito fortemente regolato e caratterizzato da specificità giuridiche, può trarre notevoli benefici da un approccio manageriale strutturato, e il business plan è la chiave per tradurre questa visione in pratica.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Networ

Le agevolazioni fiscali per l’acquisto di fondi rustici- a cura Notaio Alessandra Magnocavallo

L’acquisto di terreni agricoli da parte di una persona (fisica o giuridica) che non gode di agevolazioni è soggetta all’imposta di registro del 15% (con un minimo di 1.000,00 euro) e alle imposte catastale e ipotecaria in misura fissa di euro 50,00 ciascuna.

La legge prevede alcune agevolazioni fiscali per l’acquisto di fondi agricoli da parte di coltivatori diretti e di imprenditori agricoli professionali, tutte riconducibili alla Piccola Proprietà Contadina (PPC) che, nonostante la definizione, oggi può essere utilizzata anche per l’acquisto di fondi di grande estensione.

L’agevolazione consente di effettuare trasferimenti a titolo oneroso di terreni agricoli pagando “solo” l’imposta catastale con l’aliquota dell’1% sul prezzo pattuito e di applicare le imposte di registro e ipotecaria nella misura fissa di 200,00 euro ciascuna; inoltre, vi è l’esenzione dall’imposta di bollo.

Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate ha stabilito che l’acquisto di terreni agricoli da parte di coltivatore diretto o IAP senza richiesta di agevolazione, pur avendone diritto, sconta l’imposta del 9% di registro (anziché del 15%).

Sono ammessi a godere delle agevolazioni gli atti di acquisto a titolo oneroso di terreni e di relative pertinenze, purché qualificati agricoli in base agli strumenti urbanistici. L’agevolazione si applica anche ai fabbricati, solo se situati sul medesimo terreno oggetto di acquisto.

L’agevolazione PPC compete a diversi soggetti, ovvero:

-a coltivatori diretti e ad imprenditori agricoli iscritti all’INPS nella relativa gestione previdenziale;

-al coniuge o ai parenti in linea retta di coltivatore diretto o imprenditore agricolo, purché già proprietari di terreni agricoli e conviventi con lui;

-ai familiari coadiuvanti del coltivatore diretto e appartenenti al suo nucleo familiare ed iscritti nella previdenza agricola come coltivatori diretti.

Con la legge di bilancio per il 2023 il legislatore ha stabilito che le agevolazioni previste per gli atti di trasferimento a titolo oneroso di terreni e relative pertinenze si applicano anche a favore di persone fisiche di età inferiore a quaranta anni che dichiarino nell’atto di trasferimento di voler conseguire, entro il termine di 24 mesi, l’iscrizione nell’apposita gestione previdenziale e assistenziale prevista per i coltivatori diretti e gli imprenditori agricoli professionali.

Si ricorda che per l’imprenditore agricolo professionale il legislatore nel 2004 ha stabilito che possono accedere ai trattamenti di favore previsti per l’imprenditore agricolo professionale anche i soggetti che tale qualifica non hanno ancora conseguito, a condizione che si iscrivano subito nella gestione previdenziale e assistenziale e presentino istanza di riconoscimento IAP e la conseguano nel biennio successivo.

Ora, il legislatore concede l’accesso ai benefici PPC anche ai soggetti di età inferiore ai 40 anni che intendano intraprendere l’attività agricola in qualità di coltivatore diretto e imprenditore agricolo e che conseguano l’iscrizione entro i successivi 24 mesi nella gestione previdenziale e assistenziale.

In sostanza, l’aspirante IAP under 40 può usufruire immediatamente delle agevolazioni e conseguire entro i successivi 24 mesi tanto i requisiti, quanto l’iscrizione nella gestione previdenziale.

Allo stesso modo per l’aspirante coltivatore under 40 la sussistenza dei requisiti di disponibilità del fondo e di forza lavoro (condizioni da dimostrare per l’iscrizione all’INPS) è posticipabile a 24 mesi dall’acquisto agevolato.

L’agevolazione comporta l’obbligo di condurre il fondo acquisito per almeno 5 anni e l’obbligo di mantenere la proprietà per almeno 5 anni.

L’inosservanza agli obblighi comporta la decadenza dalle agevolazioni con recupero dell’imposta e delle relative sanzioni.

Il legislatore, tuttavia, concede la possibilità di trasferire o affittare il terreno prima che siano decorsi 5 anni purché la cessione sia effettuata a favore del coniuge, di parenti entro il terzo grado o di affini che esercitino l’attività di imprenditore agricolo.

Peraltro, è doveroso ricordare che in caso di impedimenti giuridici alla coltivazione che non dipendono dalla volontà dell’acquirente (es: espropriazione per pubblica utilità – successione) non si decade dall’agevolazione.

Ci si chiede, ulteriormente, se possa usufruire dell’agevolazione colui che acquista un fondo ad esito di una procedura di esecuzione immobiliare in cui il fondo è già locato con affitto ultranovennale (contratto stipulato prima del pignoramento e scadente ben oltre i 5 anni dall’acquisto): l’impedimento giuridico alla coltivazione del fondo è, in tale fattispecie, preesistente all’acquisto e – quindi – alla richiesta di agevolazione. Pertanto, l’aggiudicatario non potrà di fatto coltivare il fondo e, dunque, non gli è consentito chiedere l’agevolazione (ma potrà, essendo IAP, scontare l’imposta del 9% e non la maggior imposta del 15%).

Alessandra Magnocavallo, Notaio in Brescia.

L’ALLEGAZIONE DI UN APE SCADUTO: TALVOLTA (FORSE) SI PUÒ FARE – di Notaio Ugo Bechini

Si potrebbe sospettare che io sia ossessionato dalle scadenze, visto che ripetutamente mi sono già occupato, anche su queste pagine, della scadenza dei documenti firmati digitalmente. Può essere; mi incuriosisce in effetti come un fenomeno apparentemente così semplice possa celare logiche anche relativamente complesse.

L’APE, dunque. La funzione dell’attestato in sede di compravendita è ben identificabile: permettere ai potenziali acquirenti di confrontare gli immobili offerti (l’articolo 11 della direttiva 31 del 2010 parla espressamente di raffronto). L’obiettivo è quello di incentivare gli acquirenti a preferire gli immobili a migliore prestazione energetica, spingendo così il mercato in una direzione virtuosa. Di qui l’obbligo di inserire la classe energetica nella pubblicità, di porre a disposizione dei potenziali acquirenti l’attestato all’inizio delle trattative e di consegnarlo alla fine delle medesime.

Immaginiamo dunque che l’attestato scada tra il preliminare (che indiscutibilmente rappresenta la fine delle trattative) ed il definitivo. Ipotesi non più così improbabile: se qualcuno pone sul mercato un immobile acquistato 9 anni e mezzo fa, facilissimo che accada. Che fare?

A me sembra che l’attestato abbia ultimato la sua funzione. Deve guidare l’acquirente verso una scelta informata; a decisione presa, functus est munere suo. Se il preliminare ha data certa, e l’attestato era in quel momento valido, non vedo perché non si possa allegarlo al definitivo anche se successivamente scaduto: si documenterà così, molto semplicemente, che il certificato c’era quando doveva esserci. D’altronde, non ci si può certo rifiutare di saldare gli addebiti su una carta di credito solo perché nel frattempo è scaduta.

L’alternativa? Far predisporre un nuovo attestato, tra preliminare e definitivo. Xe pèso el tacòn del buso, per dirla alla veneta. Come si può onestamente sostenere che l’acquirente sia guidato nella sua scelta da un nuovo attestato emesso a preliminare firmato, caparra versata, articolo 2932 pronto a far fuoco? È uno sterile rituale. Intendiamoci: non mi voglio mettere di traverso. Visto che solo la mancata allegazione è sanzionata, che rituale sia, anche se sono dell’opinione che se ne potrebbe fare a meno (s’intende: se l’attestato c’era, durante le trattative, e chiudo qui l’accenno).

Di questo tema si è molto brevemente discusso nella lista di discussione dei notai genovesi, Notai Ponte, che sono felice ed onorato di aver a suo tempo tenuto a battesimo, da presidente del Distretto. Come si conviene, nessuno ha approvato la mia idea. Nemo propheta.

Un argomento che mi è stato autorevolmente opposto è che l’attestato contribuisce a meglio descrivere l’oggetto del contratto, funzione che trova il suo massimo rilievo proprio al definitivo. Secondo la buona tecnica legislativa europea la Direttiva, che come ben sappiamo domina l’interpretazione delle norme attuative, rende trasparenti i propri obiettivi nei Considerando iniziali; non vi scorgo alcun indizio di tale ulteriore funzione. Non mi sembra, per altro verso, che gli attestati aggiungano granché all’identificazione dell’immobile trasferito, designazione precisa delle cose che formano oggetto dell’atto, in modo da non potersi scambiare con altre, per dirla con la cara vecchia legge del 1913. Ne indicano una qualità, certo, ma la normativa è più che limpida sul fatto che tale qualità rilevi in fase di trattativa.

La Direttiva 31 del 2010, articolo 12, prevede che l’attestato sia mostrato al potenziale acquirente o nuovo locatario e consegnato all’acquirente o al nuovo locatario; non parla di allegazione. Per amor di discussione, ammettiamo pure che il legislatore nazionale l’abbia disposta non solo (come invece credo) quale strumento ausiliario di enforcement, ma anche per rendere più completa la descrizione dei beni. Sarebbe però davvero difficile spiegare perché restino escluse dall’obbligo di allegazione le donazioni, relativamente alle quali l’ordinamento mi pare manifesti (778/782 cc, ad esempio) un’attenzione rinforzata (e comunque certo non attenuata) al profilo dell’identificazione e descrizione dei beni. L’esclusione delle donazioni testimonia semmai come tutta la faccenda dell’Attestato sia a presidio di un meccanismo puramente economico, che per sua natura attiene alla fase delle trattative e non al definitivo.

Ugo Bechini, Notaio in Genova

Progettare il sistema di valutazione del personale nello studio notarile – di Dott.ssa Anna Lisa Copetto

In un contesto così complesso e delicato come quello dello studio notarile, dove precisione, competenza e affidabilità sono fondamentali ai fini della qualità del servizio erogato, le persone e le competenze sono il principale asset strategico principale. Avere una policy di gestione delle risorse umane che contempli un sistema di valutazione del personale efficace è imprescindibile.

Cos’è la valutazione del personale.

La valutazione del personale è un processo sistemico finalizzato a individuare eventuali scostamenti tra la performance della persona e ciò che lo studio desidera o necessita da quella persona. Lo scostamento, positivo o negativo, indirizzerà le risorse dello studio verso una strategia mirata di miglioramento e di valorizzazione della persona e dello studio nel suo complesso.

Gli obiettivi valutazione del personale

La progettazione di un buon sistema di valutazione del personale passa da una chiara definizione degli obiettivi che ci si vuole porre.  Gli obiettivi perseguibili possono essere molteplici e combinabili tra loro: migliorare le prestazioni, mappare le competenze per verificare eventuali opportunità di sviluppo di nuovi servizi, pianificare piani di crescita interna, favorire il passaggio generazionale, ridurre il turnover, aumentare la produttività, ecc.

L’oggetto della valutazione

In funzione degli obiettivi, andrà definito l’oggetto della valutazione: competenze, prestazioni, comportamenti, potenziale, attitudini, ecc. Ad esempio, se l’obiettivo è di vagliare la possibilità di sviluppare l’area societaria, l’oggetto della valutazione potrà essere la competenza posseduta (ancorché non esercitata).

Frequenza di valutazione

Occorrerò quindi decidere in merito alla frequenza con cui effettuare le valutazioni. Si potrà scegliere tra valutazioni annuali, semestrali, mensili, fino ad arrivare a valutazioni quotidiane, con molte possibilità intermedie. La scelta dipenderà molto dalle disponibilità di risorse e tempo che lo studio potrà dedicare alla raccolta e analisi dei dati. Valutazioni più frequenti sono più costose ma permettono di intercettare tempestivamente eventuali problemi e di intervenire più rapidamente. Viceversa, valutazioni meno frequenti favoriscono una più ampia visione d’insieme.

Valutato e valutatore

Un altro tema riguarda la scelta del valutato e del valutatore. La valutazione potrà riguardare indistintamente tutto lo staff dello studio, solo alcune aree (area atti immobiliari, ad esempio), oppure ancora solo categorie specifiche di lavoratori (solo i dipendenti, ad esempio), solo singole persone. Per quanto concerne il ruolo di valutatore, solitamente è assegnato al Notaio stesso oppure ad una figura responsabile. Possono tuttavia essere esplorate altre possibilità: colleghi, subordinati e perfino i clienti e il valutato stesso.

Criteri di valutazione

Per monitorare il risultato delle valutazioni potrebbe essere utile stabilire dei KPI coerenti con l’oggetto dell’assesment. Ad esempio, se voglio monitorare la produttività dell’area “adempimenti post stipula”, potrebbe essere utile calcolare il tempo medio di esecuzione degli adempimenti per ciascun atto nell’anno. Oppure si potrebbe ragionare in termini di obiettivi da assegnare al personale, andando quindi a valutare se e in che misura sono stati raggiunti.

Feedback

Il risultato della valutazione e le azioni che lo studio intende avviare in funzione di esso devono essere il più possibile condiviso con le persone interessate, per farle sentire parte attiva di un percorso di miglioramento più ampio. È importante quindi definire come (colloqui individuali, riunioni plenarie, de visu, per iscritto, ecc.), quando (costantemente, periodicamente, annualmente) e da chi (Notaio o suo delegato).

Attenzione!

Affinché possa essere efficace, il sistema di valutazione del personale deve essere percepito come vantaggioso per tutti. È importante quindi non prestare il fianco a fraintendimenti: non dovrà essere interpretata dal valutatore come strumento per stanare e punire i nullafacenti né dal valutato come uno strumento di controllo e ritorsione. Il rischio è che si trasformi in un boomerang. Una valutazione percepita come ingiusta può essere infatti motivo di abbandono dello studio da parte della risorsa interessata. Al contrario, sentire che lo studio valuta equamente il proprio lavoro e che si mette a disposizione per superare eventuali difficoltà (con delle azioni formative mirate, ad esempio) o che valorizza e premia i comportamenti virtuosi (con dei premi, ad esempio) favorisce la permanenza dei talenti migliori. Che sappiamo essere sempre più rari.

 

La progettazione di un sistema di valutazione del personale

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network

 

Assicurazione sulla vita a favore di terzo e designazione del beneficiario- a cura Notaio Vincenzo Spadola

In generale.

Il contraente di un’assicurazione sulla vita può stipulare a proprio favore, riservando a sé o al proprio patrimonio il diritto all’indennità assicurativa, anche nell’assicurazione per il caso di morte nel qual caso l’indennità assicurativa incrementa il patrimonio ereditario.

Tuttavia l’assicurazione può essere validamente stipulata anche a favore di terzo (articolo 1920 Codice Civile); in questa ipotesi l’indennità spetta al terzo beneficiario in applicazione del generale principio della validità del contratto a favore di terzo sempre che il terzo riceva solo un vantaggio.

Qualunque soggetto diverso dal contraente può essere designato quale beneficiario.

L’acquisto del diritto da parte del terzo discende dalla designazione pur avendo fonte contrattuale.

Quando il contraente ha omesso di fare la designazione o ha revocato una designazione già fatta senza sostituirla oppure manca una valida designazione o il terzo rifiuta il beneficio, il diritto alla somma assicurata entra a far parte del patrimonio del contraente e si trasferisce ai suoi eredi.

La stipulazione assicurativa a favore di terzo può avere causa gratuita od onerosa (per esempio corrispettivo di un più ampio assetto negoziale oppure solutoria di una pregressa passività).

La designazione donandi causa ha natura di donazione indiretta: mediante il pagamento dei premi si perviene alla corresponsione della somma assicurata al beneficiario.

In quanto donazione indiretta essa è suscettibile di riduzione (articolo 1923): la relativa azione ha per oggetto non l’indennità pagata al beneficiario (non è questa la somma uscita dal patrimonio del donante) bensì l’ammontare complessivo dei premi assicurativi pagati in vita, i quali soli costituiscono l’unico depauperamento che si verifica nel patrimonio del contraente (Tribunale Bologna 23.5.2001, Tribunale Padova 19 settembre 2014; Cassazione 6531/2006).

Nel rapporto tra beneficiario e assicuratore l’attribuzione della somma assicurata ha sempre luogo a titolo oneroso quale corrispettivo dei premi erogati.

La designazione del beneficiario.

La designazione può essere contestuale alla stipula del contratto o successiva purché anteriore alla verificazione dell’evento assicurato.

La designazione successiva può essere fatta:

  • con dichiarazione scritta comunicata all’assicuratore;
  • per testamento; equivale a designazione l’attribuzione della somma assicurata fatta per testamento a favore di persona determinata.

Le forme predette sono tassative ma le parti nel contratto possono liberamente modificarne la previsione escludendo taluna delle forme previste o aggiungendone di nuove.

La designazione è:

  1.  negozio unilaterale; non necessita di accettazione da parte dell’assicuratore o del beneficiario; per Cassazione 4833/1978 è sufficiente che l’atto sia stato indirizzato inequivocabilmente all’assicuratore e sia concretamente pervenuto a quest’ultimo, anche se dopo la morte del primo e pure ad opera di terzi;
  2.  non recettizia; è valida anche se non comunicata all’assicuratore o al beneficiario (la comunicazione è requisito di efficacia e non di validità del negozio); è efficace anche la comunicazione successiva alla morte del contraente; il Tribunale di Bologna con sentenza 17.3.1964 ha stabilito che la designazione del beneficiario, effettuata in sede di separazione coniugale, costituisce designazione irrevocabile anche se il relativo verbale non venga notificato all’assicuratore; il Tribunale di Roma con sentenza 27.3.1946 ha precisato che la comunicazione all’assicuratore della designazione, successiva alla conclusione del contratto, rappresenta esclusivamente una condizione per il conseguimento da parte del beneficiario dei vantaggi derivanti dal rapporto assicurativo; in senso opposto si è pronunciato il Tribunale di Roma con sentenza 31.7.1970 per il quale la designazione acquista rilevanza giuridica esterna solo tramite la comunicazione all’assicuratore; comunicazione da compiersi ad iniziativa del dichiarante;
  3. negozio inter vivos (pur se contenuta in un testamento), in quanto atto con cui il contraente individua il beneficiario di un contratto tra vivi senza disporre di un proprio diritto a titolo di eredità o di legato.

Per la Cassazione 93/1953 è valida la designazione in un testamento olografo contenente quale unica disposizione la designazione del beneficiario.

Il Tribunale di La Spezia con sentenza 26.6.1953 ha ritenuto valida la designazione contenuta in una lettera indirizzata all’assicuratore, tanto più quando la lettera presenti tutti i requisiti formali dell’olografo.

Il Tribunale di Palermo 22.1.2003, decidendo un caso di designazione testamentaria successiva a designazione contrattuale e con essa contrastante, ha stabilito che in caso di pluralità di designazioni successive non tutte comunicate va accordata prevalenza a quella cronologicamente successiva.

Per Cassazione 6062/1998 il fatto che il beneficiario non abbia avuto conoscenza della designazione non è idoneo a sospendere la prescrizione breve annuale; né l’assicuratore è tenuto a notificare al beneficiario la maturazione del suo diritto.

Contenuto della designazione.

E’ consentita la designazione generica: è sufficiente che il beneficiario possa essere individuato per relationem, quindi costituisce valida designazione l’uso delle ricorrenti espressioni “agli eredi”, “agli eredi legittimi”, “agli eredi testamentari”.

         In tali casi la somma assicurata spetta a chi, alla morte dell’assicurato, risulti erede per legge o per testamento; il riferimento alla qualità di erede vale solo al fine di individuare la persona del beneficiario ed è irrilevante l’acquisto o meno dell’eredità nel caso concreto trattandosi, con riferimento al diritto del beneficiario, di un diritto avente fonte contrattuale e non ereditaria.

A tale proposito le sentenze della Cassazione 4484/1996, 25.635/2018, Sezioni Unite 11421/2021 hanno precisato che la designazione generica degli “eredi” come beneficiari comporta l’acquisto del diritto da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione. Non rileva se il chiamato accetta o rinuncia al fine della determinazione concreta dell’avente diritto. Inoltre, in difetto di una diversa volontà del contraente, la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto avviene in parti uguali e non secondo le quote ereditarie.

Quest’ultimo assunto si rinviene già nelle sentenze della Cassazione 9388/1994 e dei Tribunali di Lamezia Terme 24.7.1978 e di Roma 18.3.2004,  per le quali, in presenza di una pluralità di beneficiari, dovrà farsi luogo alla ripartizione della somma assicurata per quote eguali e non secondo i criteri ereditari.

Il Tribunale di Lamezia Terme 24.7.1978 ha escluso la legittimazione attiva della curatela dell’eredità giacente a percepire il capitale spettante agli eredi beneficiari.

I Tribunali di Torino con sentenza 21.5.1959 e di Alba con sentenza 15.2.1967 hanno escluso che l’espressione eredi legittimi, da intendersi nel suo preciso significato tecnico, possa comprendere i legatari.

Quanto alle formule “ai miei figli” oppure “a mia moglie”, esse sono prevalentemente interpretate nel senso che occorra avere riguardo a chi rivestiva le rispettive qualità all’epoca della designazione e non della morte.

La designazione del proprio coniuge quale beneficiario deve intendersi riferibile all’unito civilmente che, nella sostanza, riveste lo stesso ruolo di un coniuge.

Il diritto del terzo beneficiario.

Il beneficiario acquista, senza necessità di accettazione, un diritto proprio e autonomo.

         Di conseguenza, in caso di morte di uno dei beneficiari, il diritto all’indennizzo si trasmette ai suoi eredi e non si accresce agli altri beneficiari (Cassazione 4851/1980; Cassazione 9388/1994; Cassazione 4484/1996; Cassazione 9948/2021; Cassazione 11101/2023).

         L’autonomia del diritto del beneficiario e la sua estraneità rispetto al patrimonio del contraente comportano talune rilevanti conseguenze:

  • la somma assicurata non può essere aggredita dai creditori e dagli eredi del contraente;
  • la capacità del beneficiario deve sussistere al momento della realizzazione del diritto;
  • l’azione di adempimento contrattuale deve essere esperita dal beneficiario (non dal contraente o dai suoi eredi);
  • l’assicuratore può opporre al terzo le eccezioni personali al terzo medesimo e quelle obiettivamente fondate sul contratto, mai le eccezioni personali al contraente.

Non possono essere imposti obblighi primari a carico del beneficiario ma solo oneri e obblighi secondari o previsti per legge. Pertanto:

  • il diritto del beneficiario è soggetto al termine prescrizionale di due anni e non all’ordinario termine decennale (articolo 2952 Codice Civile);
  • sono opponibili al beneficiario: clausola derogativa del foro territoriale; l’annullabilità del contratto conseguente a dichiarazioni inesatte o reticenti (Cassazione 1779/77); in generale le eccezioni e le altre clausole limitative previste dal contratto.

Casi particolari:

il contratto è originariamente stipulato a favore dello stesso contraente o del suo patrimonio; il terzo, successivamente designato nel testamento, acquista un diritto non originario e autonomo bensì derivato dal patrimonio del contraente e a titolo successorio.

La premorienza o commorienza del beneficiario rispetto al contraente comporta la trasmissione del diritto al capitale assicurato a favore degli eredi dello stesso beneficiario (Cassazione 948/21).

La revoca della designazione.

La designazione è sempre revocabile (articolo 1921 Codice Civile), sia espressamente sia implicitamente mediante nuova e diversa designazione incompatibile con la precedente.

La designazione, anche se irrevocabile, non ha effetto qualora il beneficiario attenti alla vita del beneficiario. L’assicuratore dovrà pagare agli altri beneficiari, se designati, o agli eredi del contraente.

Per attentato deve intendersi il tentativo di omicidio volontario; non rileva l’atto colposo con cui il beneficiario abbia messo in pericolo la vita dell’assicurato

La designazione irrevocabile può essere revocata se fatta a titolo di liberalità e se ricorrono i casi, previsti in tema di donazione, di ingratitudine e sopravvenienza di figli.

Vincenzo Spadola,  Notaio in Parma.

Tassazione di “eventuali” conguagli nella divisione ereditaria in funzione dell’istituto della collazione – di Notaio Roberto Santarpia

Il contenuto del presente articolo scaturisce, come sempre, da riflessioni che occorre a noi notai effettuare, in modo anche “ossessivo”, pressati dall’esigenza di compiere al meglio la nostra professione lì dove, come sempre, i dubbi maggiori riguardano la tassazione dell’atto da parte di una ondivaga Amministrazione Finanziaria che a volte esegue “revirement” pretendendo imposte quando in altri casi omogenei non ha preteso.

Il caso consiste nel dover procedere ad una divisione ereditaria tra condividenti con obbligo di collazione di quanto donato dall’eriditando ad uno di loro, poiché facente parte della schiera di soggetti che il codice civile indica essere tenuti alla stessa (art. 737 c.c.), in mancanza di dispensa dalla medesima collazione da parte del donante.

Ora l’istituto della collazione ha lo scopo ravvisabile nell’intento di condurre, in sede di divisione ereditaria, ad una equiparazione tra le posizioni giuridico patrimoniali dei figli e discendenti del de cuius e quindi l’effetto di assicurare la parità di trattamento tra questi soggetti.

Quindi in buona sostanza chi è tenuto alla collazione deve conferire alla massa ereditaria quanto a lui donato al fine di realizzare l’uguaglianza tra coeredi in sede divisoria e quindi ad apporzionare loro in sede divisoria con beni il cui valore sia tale che, addizionato a quanto già ricevuto con liberalità inter vivos, detto valore sia ragguagliato alla di loro quota ideale quali compartecipi della comunione ereditaria.

Valga un esempio a miglior chiarimento: eredi ab intestato: tre figli (il cui nome tanto per cambiare è) Primo, Secondo e Terzo; quota di diritto: un terzo ciascuno; massa relitta valore euro 900.000; quota di fatto a ciascuno spettante in sede divisoria pari ad euro 300.000 ciascuno. Nel caso però in cui uno dei figli (Primo) abbia ricevuto una donazione dall’ereditando il cui valore è pari ad euro 300.000, senza dispensa dalla collazione, il valore della massa ereditaria a dividersi deve essere assunto in euro 1.200.000, la quota di un terzo di diritto spettante a ciascuno è quindi pari a euro 400.000, per cui al figlio Primo spetteranno in sede divisoria beni il cui valore sia pari a 100.000 e non pari a 300.000 ed agli altri due figli beni il cui valore sia pari ad euro 400.000 per ciascuno; il tutto senza dimenticare che la dispensa da collazione ha effetto solo per la quota disponibile come peraltro nel nostro caso.

Piccolo prologo propedeutico per la tassazione: L’art. 34 del TUR stabilisce che: «La massa comune è costituita nelle comunioni ereditarie dal valore, riferito alla data della divisione, dell’asse ereditario netto determinato a norma dell’imposta di successione…» quindi l’istituto della collazione non rileva in alcun modo nella determinazione del valore imponibile dell’asse ereditario (che rimane 1% della massa relitta) in quanto finalizzato ad una corretta applicazione delle imposte da liquidare in relazione alla connessa e consequenziale fattispecie divisoria (conguaglio esistente o meno). Quindi non bisogna sovrapporre due concetti affatto diversi, quali quello di ‘massa di computo’ (vedi 900.000 o 1.200.000) da un lato e di ‘base imponibile’ dall’altro (sempre 900.000) perché i 300.000 della donazione hanno già precedentemente scontato imposta.

Ora qualora i tre eredi avessero intenzione di attribuirsi i beni relitti in misura non paritetica (ad es per i valori sopra menzionati: a Primo 100.000 e a Secondo e Terzo euro 400.000 ciascuno) sarà addirittura necessario che il bravo notaio evidenzi la donazione a collazionarsi suddetta per evitare che la Amministrazione finanziaria tassi con aliquota proporzionale, propria dei trasferimenti immobiliari, la differenza di valore avuta (apparentemente) in meno da Primo a beneficio degli altri due condividenti, facendo computo solo con i beni relitti. Ma se i tre soggetti condividenti volessero invece attribuirsi tra loro comunque i beni relitti per un valore paritetico (300.000 euro per ciascuno) e non  menzionassero a tale scopo la donazione fatta a Primo, priva di dispensa da collazione, mostrando apparentemente equivalenza tra quota di diritto e quota di fatto, allora l’amministrazione finanziaria, se si avvedesse dell’esistenza della detta donazione, potrebbe far valere -ex converso- questa differenza di valore delle attribuzioni patrimoniali rispetto al valore della quota di diritto che sarebbe comunque pari a 400.000 euro (infatti Primo riceve 600.000 euro poiché prende 300.000 dai beni relitti e 300.000 dal bene donato) in relazione al fatto che a Primo comunque doveva essere attribuito bene di valore minore (100.000 a cui doveva addizionare i 300.000 già ricevuti in donazione). Il tutto sorprenderebbe, immagino, noi operatori del diritto che spesso abbiamo effettuato (io per primo) divisioni senza evidenziare la precedente donazione soggetta a collazione, se non altro (senza mala fede), perché ci era sfuggito che esisteva precedente donazione a collazionarsi e la cosa a dire il vero è sempre andata per il giusto verso.

Tutto quanto detto ha lo scopo di porre un alert, di richiamare, cioè, l’attenzione di noi notai richiesti di effettuare divisioni ereditarie, di verificare se sussistano o meno donazioni con le caratteristiche sopra evidenziate per evitare inaspettate e spiacevoli sorprese di tassazione proporzionale (sul montante di 200.000 euro costituente la differenza che Primo ha avuto in più) casi che sino ad oggi fortunatamente si sono rivelati rari.

Ora si potrebbe pensare di ovviare alla possibile tassazione del conguaglio (scaturente dal fatto che Primo ha preso 600.000 invece di 400.000) pensando ad una possibile rinuncia alla collazione da parte dei condividenti (non donatari) a cui beneficio andava la mancata dispensa da collazione, come sicuramente possibile e come ammesso da Cassazione (29 sett. 2017 num. 22911) con la conseguenza che la massa a dividersi torna ad essere 900.000 e non più 1.200.000, ognuno prende beni per 300.000 euro (pariteticità tra quota di fatto e di diritto) e Primo trattiene per sé il bene donato che vale 300.000 euro non dovendolo collazionare alla massa.

Ma a questo punto mi sorge il dubbio (più tartassante di quello amletico come accennavo nell’incipit del presente scritto) che si possa legittimamente associare e parificare sul piano degli effetti la rinuncia a valersi della collazione (da parte di Secondo e Terzo) (secondo Burdese, infatti, si tratterebbe di un diritto potestativo) con la rinuncia a valersi del conguaglio che gli stessi potrebbero effettuare in sede divisoria. Difatti abbiamo i medesimi presupposti per la divisione: tre fratelli, assenza di testamento, beni relitti per 900.000 euro, bene donato a Primo senza dispensa da collazione per euro 300.000 e quindi -sunteggiando vedi sopra- a Primo dovrebbero andare beni per 100.000 e a Secondo e Terzo beni per 400.000 ciascuno al fine di evitare differenze di valore tra quote di fatto e quota di diritto e quindi evitare conguagli con conseguente tassazione al 9% per la differenza. Se dividessero comunque, d’accordo tra loro, assegnandosi beni per 300.000 euro per ciascuno, Primo andrebbe a prendere 600.000 euro invece di 400.000 euro e dovrebbe di conseguenza elargire euro 200.000 (100.000 per ciascuno) a Secondo e Terzo per parificare le quote di fatto con la quota di diritto di tutti. La rinuncia a percepire conguaglio da parte di Secondo e Terzo, non eviterebbe però, per costante dottrina e giurisprudenza, la tassazione del medesimo al 9%. Infatti, NELLA DIVISIONE IL COGUAGLIO E’ TASSATO COME VENDITA ANCHE SE VI E’ RINUNZIA COME LIBERALITA’. Secondo la Cassazione (ordinanza 1 dicembre 2020, n. 27409, sez. V) l’eccedenza di valore dei beni assegnati rispetto alla quota sulla massa comune (c.d. conguaglio) è invariabilmente sottoposta al trattamento tributario della compravendita, non rilevando che i condividenti che ricevono di più rinunzino, per spirito di liberalità, verso un corrispettivo o a scopo di adempimento, a ricevere una prestazione pecuniaria in quanto l’art.34 del T.U.R., pone una presunzione assoluta (iuris et de iure), in forza della quale l’eccedenza “è considerata vendita limitatamente alla parte eccedente”.

E ancora: “Ai fini dell’imposta di registro Il conguaglio scaturente da una divisione immobiliare deve essere tassato, con le aliquote previste per i trasferimenti, anche se il soggetto, avente diritto al conguaglio, rinuncia a riceverlo per spirito di liberalità”. Principio confermato dalla Corte di cassazione con le sentenze n. 4858, 4871, 4878 e 4884 tutte del 23 febbraio 2024.

Ancora vedasi Risposta ad interpello A. E.  452 / 2021 che riprende cass 28 marzo 2018, n. 7606: Inoltre, con citata la sentenza della Cassazione n. 20119 del 2012, è stato affermato che “Le assegnazioni che hanno luogo nella divisione di beni mobili o immobili non sono considerate traslative di proprietà dei beni assegnati se il condividente riceva una quota corrispondente ai suoi diritti; se, invece, vi è conguaglio, o la quota assegnata è superiore a quella spettante, la divisione, in relazione al conguaglio o al maggiore assegno, è considerata a carattere traslativo e come tale soggetta al tributo proporzionale. Ne deriva che l’Ufficio del Registro, al fine di procedere all’accertamento del tributo, debba sottoporre a giudizio di valore l’intero compendio oggetto della divisione per effettuare il raffronto proporzionale della quota assegnata rispetto al tutto, in relazione alla quota di comproprietà spettante.

Allora se i tre condividenti decidessero di evitare l’insorgere del conguaglio a monte e non a valle e cioè rinunciando alla (agli effetti della) collazione che parificherebbe in sede divisoria le quote di fatto (300.000 euro per ciascuno) con le quote di diritto non dovendosi più prendere in considerazione nella massa divisoria il bene donato, non equivarrebbe ciò in toto a rinunciare alla attribuzione della differenza di valore loro spettante (a Secondo e a Terzo) come se stessero rinunciando al conguaglio che sorgerebbe invece a valle se non rinunciassero alla collazione e quindi con massa computata includendo il bene donato?

Conseguenza: rinunciano alla collazione (Secondo e Terzo) ma non evitano che questa rinuncia possa evitare la tassazione del plusvalore avuto in più da Primo, cosa che non avverrebbe nel caso in cui la collazione non sorgesse affatto per dispensa fatta dal donante in vita: qui la collazione sorge ex lege al momento della apertura della successione e viene rinunciata (negli effetti) dai beneficiari della stessa.

Spero che tutte queste mie considerazioni rimangano di interesse puramente tecnico giuridico e non ricadano mai in casi pratici, ma visti i tempi correnti nei quali l’Amministrazione Finanziaria sta cercando (mi si passi la licenza partenopea che rappresenta più che mai una adeguatissima metafora) “paglia per cento cavalli” mi soccorre l’esigenza di accendere questo faro sul tema divisione ereditaria.

Roberto Santarpia,  Notaio in Orzinuovi.

La Gestione del Tempo nello Studio Notarile – di Dott. Michele D’Agnolo

La gestione del tempo è una componente essenziale per il buon funzionamento di uno studio notarile. La tempestività di una stipula rispetto al conferimento dell’incarico può essere in molti casi determinante per la soddisfazione delle parti, ma è comunque un elemento molto apprezzato anche dai clienti che non hanno una particolare fretta. Il tempo gioca anche un ruolo importantissimo sul conto economico dello studio: il tempo dedicato alle singole pratiche e attività deve essere allocato in modo ottimale per evitare di scaricare sui clienti le proprie inefficienze.

Tuttavia, il time management deve avvenire nel rispetto delle norme deontologiche, che impongono al notaio di svolgere personalmente alcune attività cruciali e non delegabili, necessarie per garantire l’integrità e la legalità degli atti notarili. Inoltre, è importante coordinare la presenza del notaio presso la sede in determinati giorni della settimana, come previsto dalla deontologia. Esaminiamo come ottimizzare il tempo del notaio e degli assistenti notarili tenendo conto di queste importanti restrizioni.

Secondo l’articolo 37 del Codice Deontologico Notarile, il notaio deve svolgere personalmente, in modo effettivo e sostanziale, le seguenti attività: Accertamento dell’identità personale delle parti, indagine sulla volontà delle parti e direzione della compilazione dell’atto

Dati i compiti non delegabili, il tempo del notaio deve essere gestito in modo da consentirgli di adempiere a queste responsabilità senza compromettere la sua efficienza complessiva. Ecco alcune strategie:

  1. Automatizzazione e Delegazione delle Attività Secondarie: Il Notaio potrà efficacemente utilizzare strumenti digitali per automatizzare attività amministrative e delegare compiti meno critici agli assistenti notarili. Questo include la gestione della documentazione preparatoria e posteriore alla stipula degli atti, che deve essere supervisionata ma può non essere necessariamente svolta direttamente dal Notaio.
  1. Formazione degli Assistenti: Il Notaio può formare gli assistenti notarili per gestire in autonomia le attività preparatorie e di supporto, riducendo al minimo il suo intervento su compiti che possono essere svolti efficacemente dal personale di supporto.
  1. Gestione per Eccezioni: Il Notaio può limitare il tempo dedicato alla gestione dello studio mediante l’utilizzo di procedure di lavoro standardizzate, che sono a tutti gli effetti disposizioni di servizio erga omnes, e di modelli di atti. La standardizzazione del processo non implica la standardizzazione della singola prestazione notarile, anzi supporta una sempre migliore personalizzazione del “prodotto” notarile.
  1. Pianificazione degli Appuntamenti: Implementare un sistema di prenotazioni che organizzi gli appuntamenti in modo tale da ridurre i tempi morti e ottimizzare le ore lavorative del notaio, riservando tempo sufficiente per le attività non delegabili.

Una gestione ottimale dell’agenda del notaio è quindi essenziale per evitare il sovraccarico di lavoro in alcune giornate e il sottoutilizzo in altre. Ecco alcune strategie per distribuire gli atti da stipulare in modo uniforme e garantire l’efficienza:

  1. Distribuzione Uniforme degli Atti: Pianificare le stipule in modo uniforme durante la settimana per evitare giornate troppo cariche o troppo vuote. Questo può essere fatto analizzando i dati storici e prevedendo il carico di lavoro futuro.
  1. Blocchi di Tempo: Riservare blocchi di tempo specifici per le stipule e altri blocchi per attività di revisione, preparazione o incontri con i clienti. Questo aiuta a mantenere un equilibrio e a garantire che ci sia tempo sufficiente per ogni attività. Non dimenticare qualche momento di relax per consentire al Notaio di recuperare le forze
  1. Evitare le giornate con Poche Stipule: Gli Assistenti cercheranno il più possibile di evitare di convocare il notaio in studio solo per una o due stipule. Uno studio efficiente pianifica le stipule in modo da avere almeno un numero minimo di atti da trattare, ottimizzando così il tempo del Notaio.
  1. Uso di Tecnologie di Pianificazione: Si possono implementare software di gestione dell’agenda per pianificare e monitorare le stipule in modo efficiente. Questi strumenti possono aiutare a visualizzare il carico di lavoro e a fare aggiustamenti in tempo reale.
  1. Presenza presso la Sede: Coordinare la presenza del notaio presso la sede in alcuni giorni della settimana, come previsto dalla deontologia. Questo garantisce che il notaio sia disponibile per le attività non delegabili e per eventuali urgenze, senza compromettere la gestione efficiente del tempo.

Anche il tempo degli assistenti notarili è prezioso, e quindi deve essere ottimizzato sulle singole pratiche e gestito in modo tale da supportare efficacemente le attività del notaio. Ecco alcune linee guida:

  1. Tracciamento del Tempo: Svariati studi notarili utilizzano software di monitoraggio del tempo per registrare le ore impiegate dagli assistenti su ogni pratica. Questo permette di avere una chiara visione del tempo necessario per diverse attività e di identificare aree di miglioramento.
  1. Preventivazione dei Tempi: Lo studio notarile può allocare in anticipo risorse e tempo specifici per ogni pratica notarile, basandosi sui dati medi raccolti tramite il time tracking. Questo permette di avere un controllo migliore sui costi e di prevedere con maggiore accuratezza le tempistiche di completamento delle pratiche.
  1. Ottimizzazione dei Processi: Lo studio notarile può analizzare i dati di tempo raccolti per identificare le attività che richiedono più tempo e trovare soluzioni per renderle più efficienti, ad esempio mediante l’adozione di nuove tecnologie o la riorganizzazione dei flussi di lavoro.
  1. Stabilire scadenze interne per tutti gli atti: Stabilire scadenze interne per l’istruttoria degli atti è fondamentale per mantenere un alto livello di efficienza e garantire che ogni pratica venga gestita in modo tempestivo.

La gestione del tempo in uno studio notarile richiede un bilanciamento tra l’ottimizzazione dell’efficienza e il rispetto delle norme deontologiche. Il notaio deve dedicare il tempo necessario per svolgere personalmente le attività non delegabili, garantendo così la qualità e la legalità degli atti. Allo stesso tempo, è essenziale implementare strategie per ottimizzare il tempo del personale di supporto, misurando e mettendo a budget il loro tempo per ogni pratica, stabilendo scadenze interne efficaci per l’istruttoria degli atti e gestendo in modo ottimale l’agenda del notaio. Utilizzando un approccio integrato, è possibile sfruttare al meglio le risorse disponibili e fornire un servizio eccellente ai clienti.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Networ

Dilemmi su usufrutto congiuntivo con reciproco diritto di accrescimento in relazione alla possibile conseguenza in tema di circolazione del bene. – di Notaio Roberto Santarpia

L’usufrutto congiuntivo, ammesso senza particolari problemi non contrastando con alcun principio giuridico, si ha nel caso in cui venga indicata una pluralità di riservatari/usufruttuari che devono esercitare contemporaneamente il diritto di usufrutto e la durata di tale diritto non va oltre quella della vita del più longevo degli usufruttuari: alla morte di ogni co-usufruttuario, la quota degli altri si incrementerà, intervenendo la clausola di accrescimento, mentre la morte dell’ultimo comporterà l’estinzione del diritto di usufrutto.

L’usufrutto congiuntivo è ritenuto costituibile tanto per atti mortis causa, quanto per atti inter vivos, sia titolo gratuito che oneroso.

Con riferimento all’accrescimento reciproco potrebbe sorgere il dubbio circa la possibile modalità del suo sorgere. In altre parole ci si potrebbe chiedere se possa sussistere la reciprocità dell’accrescimento solo se venisse pattuita contestualmente alla costituzione dell’usufrutto a favore di due soggetti (con atto inter vivos) che disponga sia la sua costituzione che la clausola di accrescimento, oppure sia possibile pattuire detta clausola di reciproco accrescimento anche in un successivo momento rispetto al sorgere dell’usufrutto, ricorrendo comunque il presupposto della titolarità per pari quota dell’usufrutto stesso, indifferentemente nato quest’ultimo contestualmente o in momenti temporali diversi.

A mio parere il patto di reciproco diritto di accrescimento può sempre essere stipulato anche successivamente alla costituzione del diritto di usufrutto in quanto vige l’autonomia privata che trova ostacolo solo ove si infrangano altre norme cogenti e qui non pare ve ne siano, ma affinchè detto patto abbia efficacia occorre assolutamente coinvolgere nel patto anche il nudo proprietario che deve accettare lo stesso in quanto pregiudica il suo diritto in relazione alla mancata consolidazione con la nuda proprietà della quota di un mezzo di usufrutto che invece si accresce all’altro usufruttuario e ciò in relazione ed applicazione del principio  “res inter alios acta tertio neque nocet neque prodest”; infatti quanto ai contratti, l’unica ipotesi di efficacia diretta nei confronti di un terzo si ha nel contratto a favore del terzo (art. 1411) che consente al detto terzo di rifiutare il beneficio.

Quanto alla forma occorrerà la forma della scrittura privata autenticata o dell’atto pubblico seppure non occorra la forma solenne prevista per l’atto di donazione in quanto anche in assenza di corrispettivo, il patto di accrescimento trova riscontro in un RECIPROCO vantaggio, vi è una sorta di sinallagma e nessuna gratuità quindi. Si consideri poi altresì che la diversa fattispecie della rinuncia abdicativa al diritto di usufrutto -seppur con animo di arricchire- non richiede la forma solenne in quanto il nudo proprietario diviene pieno proprietario con un negozio indiretto.

La forma suddetta (se oggetto siano beni immobili) occorrerà ai fini della trascrizione dell’atto nei pubblici registri immobiliari considerato che i terzi hanno interesse a conoscere la modificazione della durata di un diritto reale quale l’usufrutto che sì, non potrà durare più di una vita umana (quella del più longevo), ma l’interesse dei terzi risiede nel fatto di sapere se una quota di ½ di usufrutto si consoliderà con la nuda proprietà o meno,  in relazione alla stipula di negozi giuridici con il nudo proprietario poiché varierebbe il corrispettivo e la tassazione: si pensi se gli usufruttuari siano due soggetti uno di 90 anni e l’altro di 60 anni, senza o con reciproco diritto di accrescimento.

Ora prenderei in considerazione uno spinoso aspetto di questa tematica e cioè se l’accrescimento operi comunque nel caso che uno dei due co-usufruttuari trasferisca con negozio giuridico al/ai nudi proprietari la propria quota di usufrutto (e viceversa).

Uno studio del CNN (risposta a quesito n. 127-2019/C) ritiene che “non possa operare immediatamente l’accrescimento a favore degli altri contitolari del diritto di usufrutto; quando uno dei contitolari del diritto di usufrutto acquista anche la nuda proprietà, il suo diritto di usufrutto si estingue ai sensi dell’articolo 1014 codice civile, ma le facoltà di uso e di godimento ad esso connesse non sono perse dall’originario titolare ma, al contrario, permangono nel suo patrimonio, ancorché non più a titolo di usufrutto, ma a titolo di piena proprietà. Ecco, allora, che non potrà esservi alcun effetto di accrescimento immediato a favore degli altri cousufruttuari in quanto manca il presupposto della perdita del diritto, o meglio della perdita delle facoltà insite nel diritto, da parte di uno dei contitolari. Solo nel caso di premorienza dell’usufruttuario acquirente della nuda proprietà rispetto agli altri contitolari del diritto di usufrutto, potrà, allora, operare l’accrescimento nel diritto di usufrutto a favore degli altri.” Conclude poi il redattore allo stesso modo nell’opposto caso e cioè nel caso in cui il nudo proprietario acquista il diritto di uno dei cousufruttuari. Il relatore argomenta ciò con il seguente ragionamento: “Né gli altri contitolari del diritto di usufrutto pare possano lamentarsi della non immediata operatività dell’accrescimento. Se, infatti, il contitolare cedesse il suo diritto di usufrutto a soggetti diversi dal nudo proprietario, il diritto di accrescimento a favore degli altri cousufruttuari non opererebbe certo al momento del trasferimento dell’usufrutto al terzo, ma solo in caso di premorienza dell’originario cousufruttuario e solo al momento di tale premorienza e non pare vi siano ragioni per giustificare differenti effetti per il solo fatto che la cessione avviene a favore del proprietario anziché di altro soggetto”. Però a mio avviso sembra dimenticare un elemento fondamentale che fa cadere il suo asserto: nel caso di trasferimento dell’usufrutto al nudo proprietario si estingue l’usufrutto ex art. 1014 c.c. mentre nel caso di trasferimento di quota di usufrutto ad altro soggetto il diritto di usufrutto continua a sussistere.

Seguendo poi l’impostazione della suddetta risposta a quesito allora la conseguenza (di non pratica sostenibilità) sarebbe che, in caso di costituzione di garanzia reale -quale una ipoteca volontaria- su quota di un mezzo di piena proprietà, divenuta tale per il nudo proprietario in forza della vendita allo stesso da parte di uno solo dei cousufruttuari con diritto reciproco di accrescimento, detta costituzione di ipoteca (su quota di piena proprietà) dovrebbe comunque essere concessa con il consenso anche del co-usufruttuario del cedente (colui cioè che non ha ceduto e che a favore del quale si verificherebbe l’accrescimento in caso di sopravvivenza all’altro co-usufruttuario cedente) poiché a costui tornerebbe il diritto di usufrutto INTERO, al momento del decesso del co­usufruttuario cedente e non potrebbe -nè sarebbe possibile- che gli tornasse gravato da una ipoteca concessa senza il suo consenso; né d’altronde a giustificare la permanenza della ipoteca basterebbe l’ appiglio consistente nel fatto che l’ipoteca sia stata iscritta prima che “rivivesse” l’usufrutto, in quanto questo è “rinato” per via di un contratto stipulato e trascritto precedentemente alla iscrizione della ipoteca, contratto da cui risultava il reciproco diritto di accrescimento (altrimenti inopponibile al nudo proprietario) e se derivante da legato addirittura accrescimento esistente per via di legge (art. 678 c.c.); mi sembra però che questa non sia la prassi seguita usualmente in sede di costituzione di una ipoteca che viene concessa -in genere- senza il consenso del co-usufruttuario non cedente, salvo quanto infra indicato con riferimento alla identificazione della struttura contrattuale della cessione in oggetto.

Da quanto detto si aderisce infatti alla tesi dell’estinzione in modo definitivo del diritto di usufrutto (pro quota ceduto) a tenore dell’articolo 1014 c.c. tesi non contraddetta dall’esistenza di una condizione risolutiva inerente al contratto di cessione tra usufruttuario e nudo proprietario come meglio infra indicato. L’usufrutto infatti non può rinascere dopo la morte del co-usufruttuario che abbia trasferito il detto usufrutto al nudo proprietario per poi “rivivere” ed andare all’altro co-usufruttario, rimasto titolare del diritto di usufrutto con accrescimento: qui siamo in presenza di una fattispecie ontologicamente diversa dalla rinuncia all’usufrutto o dal decorso del termine (situazioni che consentono l’accrescimento al co-usufruttuario), poiché questi eventi non fanno venire meno il diritto di usufrutto che persistesenza soluzione di continuità- in quanto non si consolida con la nuda proprietà per via del patto di accrescimento che qui opera immediatamente a favore dell’altro co-usufruttuario. Si ribadisce: nel caso invece del trasferimento del diritto di usufrutto a favore del nudo proprietario si verifica la consolidazione in capo ad un’ unica persona del detto diritto di usufrutto con la nuda proprietà, per esplicito consenso espresso dalle parti, che fa sì che l’usufrutto si estingua e non transiti quindi all’altro co-usufruttuario: questo consenso delle parti al trasferimento (al nudo proprietario) è ciò che giustifica il divenire pieno proprietario e la contemporanea estinzione dell’usufrutto per confusione cosa che non avviene invece in caso di rinuncia abdicativa che farebbe espandere il diritto di nuda proprietà, vis espansiva interdetta dal patto di accrescimento che qui opera immediatamente non facendo estinguere l’usufrutto.

D’altra parte l’art. 1014 c.c. sancisce l’estinzione dell’usufrutto e non vi è altra norma che ne preveda la riviviscenza quando il co usufruttuario cedente perisce: qui si è estinto e quando ciò accade è per sempre. Tutto ciò va però necessariamente correlato al principio espresso dall’art. 1372, 2° comma cod. civ. che esprime il principio che il contratto ha efficacia solo tra le parti e non nei confronti dei terzi. Per cui prendendo posizione anche alla correlata struttura (che incide sul problema in oggetto) qui siamo in presenza di un contratto bilaterale tra co-usufruttuario/cedente e nudo proprietario/acquirente la cui efficacia tra le parti è immediata (tesi pacifica) ma necessariamente sottoposta alla condizione risolutiva (in ossequio al principio sopra enunciato dall’ordinamento giuridico espresso dall’art. 1372 2° comma cod. civ. che nessun contratto può andare in danno di posizione giuridiche di terzi) consistente nell‘ evento della premorienza del co-usufruttuario cedente rispetto al co-usufruttuario non cedente che si verifica solo in caso di mancata adesione al patto da parte del co-usufruttuario non cedente, titolare di precedente diritto di accrescimento.  Detta risoluzione è evitata quindi nel solo caso in cui il negozio di trasferimento ottenesse, come detto, il consenso del co-usufruttuario non cedente -in mancanza del quale allora sì che alla morte del co-usufruttuario cedente la sua quota di usufrutto si accrescerebbe comunque all’altro co-usufruttuario non cedente- in quanto quest’ultimo ha un diritto prioritario per il tempo in cui è stato stipulato (e trascritto) il suo patto di accrescimento rispetto all’acquisto effettuato dal terzo nudo proprietario acquirente l’usufrutto, situazione che da fondamento alla risoluzione del contratto di cessione lesivo della posizione del co-usufruttuario e che fa rivivere l’usufrutto ma non già dopo la sua estinzione ma in quanto la condizione risolutiva retroagisce al momento della stipula del contratto di cessione.

Quanto alla forma qui occorrerà pur sempre, naturalmente, la forma della scrittura privata autenticata o dell’atto pubblico per la necessaria pubblicità nei registri immobiliari.

Roberto Santarpia,  Notaio in Orzinuovi.

Coppie internazionali: una data, un metodo ed alcune trappole – di Notaio Ugo Bechini

Si riprendono qui alcuni temi trattati in un evento formativo tenutosi presso il Consiglio Notarile di Genova il 7 maggio 2024. Relatori la professoressa Chiara Enrica Tuo, i professori e notai Domenico Damascelli ed Andrea Fusaro, nonché l’autore di questo piccolo contributo, che ne conserva l’esclusiva responsabilità.

La data è quella del 29 gennaio 2019. Quanti si sono sposati sino a quel giorno sono sotto l’impero della Legge 218 del 1995, il cosiddetto SIDIP, Sistema Italiano di Diritto Internazionale Privato. Da lì in poi, è il Regolamento Eurounitario 1103 del 24 giugno 2016 a dettare le regole. Non è questa la sede per una disamina sistematica delle norme, che non presentano peraltro soverchie difficoltà interpretative; avverto più urgente un’osservazione di metodo.

Il giurista è oggi nella necessità di coordinare input normativi eterogenei, provenienti da ordinamenti spesso lontani (in tutti i sensi) dal nostro, componendo un tappeto normativo non di rado delicato. La pubblicità è il caso più evidente. Il Libro Sesto del Codice Civile è pensato per lavorare con gli altri cinque; assicurare invece la pubblicità di fenomeni regolati, nella loro sostanza, da diritti stranieri, assomiglia talvolta al lavoro di un meccanico che debba riparare una Fiat avendo a disposizione solo ricambi Ford. Non è affatto detto che funzionino bene insieme.

Quando il diritto applicabile è straniero, specie se di difficile conoscenza, una tentazione è sempre in agguato: applicare sottobanco le categorie giuridiche nostrane. Il che ricorda un poco la celebre storiella dell’ubriaco cui sfuggono le chiavi di mano mentre prova ad aprire la porta di casa; barcolla sino ad un lampione e comincia a cercarle. Un amico solo un po’ meno ubriaco gli fa notare che le chiavi non sono cadute lì, e la risposta è: “Sì, ma davanti casa è buio, non le troverò mai; qui c’è luce”. 

Lasciamo perdere i casi limite, anche se forse c’è ancora chi barrisce Sono italiano ed applico il diritto italiano persino dinanzi a situazioni limpide come quella della donna straniera coniugata la quale, conformemente al proprio diritto, usa il cognome del marito, un assetto che siamo tenuti a rispettare in virtù della convenzione di Monaco del 1980. Ebbe regolare ratifica, con tanto di legge (la 950/1984) firmata da Pertini, Craxi, Andreotti, Martinazzoli e Scalfaro; tutti italiani, mi pare, nel bene e nel male. Se la signora rivende l’immobile acquistato da nubile, la trascrizione può regalare qualche grattacapo, è vero, ma si tratta di rimboccarsi le maniche, non di far finta che la legge non esista.

La tentazione può presentarsi anche in forme più sottili. Di fronte alla parola residenza, ad esempio, si dovrà distinguere: se contenuta in una norma italiana, varrà la definizione nostrana; se il testo è europeo, a prevalere sarà la nozione continentale (grosso modo: il luogo in cui l’interessato ha fissato, con voluto carattere di stabilità, il centro permanente o abituale dei suoi interessi. Concetto in qualche modo più prossimo al nostro domicilio). Leggere una fonte internazionalprivatistica europea secondo le griglie concettuali nazionali minerebbe la sua funzione di stabilizzazione continentale del diritto applicabile. Immaginiamo un De Cujus che non abbia operato una optio juris e risulti residente in Polonia secondo il concetto italiano di residenza, ma residente in Italia secondo quello polacco. In mancanza di un’autonoma definizione eurounitaria di residenza, la disposizione del regolamento 650 secondo la quale si applica il diritto dello stato di ultima residenza diverrebbe inutilizzabile. Le definizioni sono apriscatole formidabili.

Sono tramontati insomma i tempi in cui si poteva saltellare come scimmiette su e giù per la Stufenbau kelseniana, senza mai risintonizzare il proprio decoder concettuale. Il giurista del XXI secolo è politeista, mediatore, e spesso anche rammendatore.

Ma torniamo alle coppie internazionali ed alle loro trappole, che a dire il vero riguardano quasi esclusivamente quanti si trovano sotto l’autorità della legge italiana, il SIDIP; il regolamento europeo è di gran lunga meno insidioso.

In agguato all’articolo 13 del SIDIP è il rinvio. Prendiamo una coppia inglese (sia per nazionalità che per residenza) che non abbia stipulato alcuna convenzione matrimoniale. Il diritto internazionale inglese rinvia la fattispecie alla lex rei sitae; l’acquisto operato da un solo coniuge cadrà dunque in comunione legale di diritto italiano, ed è facile che l’acquirente neppure ne abbia percezione, estraneo com’è alla cultura inglese il concetto stesso di comunione legale. Quel che è peggio, la questione può assumere rilievo a distanza di anni, quando il coniuge di allora è stato magari promosso ad ex. Sul piano tattico è possibile provare a sfilarsi osservando che non è responsabile di questo l’ordinamento italiano, che si limita ad accettare un rinvio disposto dal diritto inglese, ma è comunque di sollievo che il Regolamento Europeo abbia disattivato il meccanismo per i coniugi post 19.

Una sfida ancora più sottile deriva da quello che i tedeschi chiamano Statutenwechsel, il cambio di regime. Il SIDIP stabilisce che, in difetto di convenzione, si applichi la legge della cittadinanza comune o, in subordine, quella del luogo di prevalente localizzazione della vita matrimoniale. Entrambi i riferimenti possono cambiare in corsa: un coniuge acquisisce la cittadinanza dell’altro; la nuova localizzazione supera per durata quella precedente. La questione più delicata è stabilire se tale variazione sia retroattiva o meno. L’affermativa è autorevolmente sostenuta in dottrina, ed è anche la soluzione espressamente adottata dal legislatore elvetico. Le conseguenze sarebbero però davvero inusitate: il coniuge che acquista in separazione, perché questo stabilisce la legge applicabile al momento, vedrebbe l’immobile cadere in comunione qualora la nuova legge applicabile preveda tale regime. La tesi della retroattività è stata fortunatamente contraddetta, in ambito notarile, con la ben motivata risposta a quesito 16-2021-A (di Daniela Boggiali, Domenico Damascelli e Paolo Pasqualis); conforta poi che il Regolamento non preveda nulla di simile.

Per finire, una trappola squisitamente notarile. Le convenzioni con cui si modifica il regime applicabile possono essere retroattive? Quelle soggette al Regolamento sono retroattive solo se espressamente lo si prevede, e tutte le convenzioni stipulate post 19 sono governate dal Regolamento, indipendentemente dalla data di celebrazione del matrimonio. Se si opta per la retroattività, occorrerà anche trattare come si conviene (verosimilmente: alla stregua di donazioni) i mutamenti di proprietà che ne discendono, dal punto di vista fiscale, delle menzioni e delle allegazioni.

Diverso discorso per le convenzioni stipulate in vigenza del SIDIP, che ancora a lungo si dovranno prendere in considerazione, ad esempio in sede di rivendita. Non è infatti chiaro se nel silenzio queste siano retroattive. In campo immobiliare, potrebbero forse essere proprio allegazioni e menzioni a trarre d’impaccio l’incolpevole notaio incaricato della rivendita. Laddove vi siano, l’opzione per la retroattività mi parrebbe implicita. Nel caso contrario, le nullità formali probabilmente consentono di escludere l’efficacia retroattiva senza doversi interrogare oltre. Resta il problema della sanabilità, ma in prima battuta le nullità formali, per una volta, potrebbero rivelarsi amiche.

Ugo Bechini, Notaio in Genova

Il Ruolo dell’Office Manager nello Studio Notarile – di Dott.ssa Anna Lisa Copetto

Quando lo studio notarile assume dimensioni e complessità importanti può essere, ai fini del funzionamento di tutti i processi che conducono alla erogazione della prestazione professionale, può essere di aiuto l’istituzione della figura dell’office manager. Si tratta di una figura professionale al quale il Notaio può delegare alcune delle funzioni che normalmente gestisce in prima persona in quanto titolare e responsabile dello studio. Più nello specifico, in base al livello di autonomia desiderata, le responsabilità e le mansioni che possono essere assegnate all’office manager possono essere le seguenti:

  • La gestione amministrativa, ovvero
    1. Coordinare e supervisionare le attività quotidiane dell’ufficio
    2. Supportare l’attività del responsabile amministrativo
    3. Monitorare e ordinare le forniture necessarie per l’ufficio.
    4. Gestire i contratti con fornitori e servizi esterni.
  • La gestione operativa, ovvero:
    1. Pianificare e monitorare i lavori, intervenendo in caso di difficolta
    2. Rilevare e trattare le non conformità
  • La gestione del personale, ovvero:
    1. reclutare, selezionare e inserire le nuove risorse,
    2. verificare il fabbisogno formativo e promuovere la formazione
    3. valutare le performance e valorizzare le risorse esistenti
    4. Fornire feedback regolari e costruttivi
    5. gestire ferie e permessi
    6. motivare lo staff e risolvere eventuali conflitti
  • La gestione delle Relazioni con i Clienti, ovvero:
    1. Monitorare la soddisfazione dei clienti e promuovere azioni di miglioramento
    2. Coordinare le attività di customer service per risolvere eventuali problemi o reclami
    3. Fare da ponte tra il cliente e il Notaio
  • La gestione del know how interno, ovvero:
    1. Assicurare la massima condivisione delle informazioni e delle procedure interne
    2. Patrimonializzare il know how dei singoli a beneficio dello studio
    3. Monitorare l’adeguatezza degli strumenti in uso ed eventualmente intervenire

I vantaggi sono facilmente intuibili:

  • Una migliore efficienza operativa, grazie ad un migliore coordinamento delle risorse, dei processi operativi e del know how interno
  • Un aumento della produttività, grazie ad una più attenta attività di pianificazione e costante monitoraggio dello stato di avanzamento dei lavori
  • Una maggiore soddisfazione dei clienti, che possono contare su un più altro standard di servizio su un riferimento per la presa in carico tempestiva di eventuali istanze
  • Un ambiente di lavoro più positivo, grazie all’attività di motivazione dello staff dello studio e aiutarlo ad affrontare le piccole o grandi ansie quotidiane

A questi vantaggi, si aggiunga il tempo liberato nell’agenda del Notaio che potrà così dedicare ad attività di maggiore prestigio, come ad esempio la cura più minuziosa delle relazioni considerate strategiche per lo studio. O, perché no, alla propria vita privata!

A volte si commette l’errore di assegnare questo ruolo alla persona che all’interno dello studio ha una maggiore anzianità di servizio e alla persona che esprime maggiori competenze tecniche. In realtà, andrebbe innanzitutto valutato il possesso di competenze di carattere più manageriale. Proviamo a riassumerle nel seguente elenco:

  • Competenze Organizzative
    1. Capacità di pianificare e organizzare il proprio lavoro e quello degli altri in modo efficiente.
    2. Abilità nel determinare le priorità e assegnare le risorse in modo appropriato per garantire che le scadenze siano rispettate.
    3. Capacità di gestire simultaneamente molteplici compiti e progetti senza perdere il controllo.
  • Competenze Comunicative
    1. Eccellente capacità di comunicazione sia orale che scritta per interagire efficacemente con lo staff, i clienti e i fornitori.
    2. Capacità di ascoltare attentamente e comprendere le esigenze e i problemi degli altri.
    3. Abilità nel negoziare accordi vantaggiosi con fornitori e gestire conflitti interni in modo costruttivo.
  • Competenze di Leadership
    1. Capacità di motivare e incoraggiare il team, migliorando il morale e la produttività.
    2. Abilità nel gestire un team, coordinare le attività e delegare compiti in modo efficace.
    3. Capacità di gestire e risolvere i conflitti in modo equo e tempestivo.
  • Competenze Tecniche
    1. Familiarità con i software di gestione dell’ufficio e altre tecnologie necessarie per il funzionamento dello studio.
    2. Abilità di analizzare dati e informazioni per prendere decisioni informate.
    3. Competenze nella pianificazione, esecuzione e chiusura di progetti, garantendo il rispetto di tempi e budget.
  • Competenze Interpersonali
    1. Capacità di comprendere e rispondere in modo appropriato alle emozioni e alle esigenze degli altri.
    2. Abilità di adattarsi rapidamente ai cambiamenti e gestire situazioni inaspettate.
    3. Affidabilità e capacità di gestire le responsabilità con integrità.
  • Competenze Strategiche
    1. Capacità di vedere il quadro generale e pianificare a lungo termine.
    2. Abilità nel risolvere problemi in modo creativo ed efficace.
    3. Capacità di valutare situazioni complesse e prendere decisioni ponderate.

In sostanza, il ruolo dell’office manager è di impegnarsi affinché gli interessi dei principali stakeholder dello studio (notaio, team, cliente) siano allineati, tutelati e valorizzati al meglio. Con un evidente vantaggio dello studio in termini di maggiore competitività.

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network