La spartizione dei pani e dei pesci nello Studio Notarile – a cura Dott. Michele D’Agnolo

Una delle situazioni più complesse da gestire all’interno di uno Studio Notarile è la suddivisione delle pratiche da svolgere tra i vari dipendenti e collaboratori.

Si tratta di una materia difficile da governare o regolamentare perché soggetta a variazioni difficili da prevedere.

Ci possono infatti essere picchi nella domanda sia dovuti alla stagionalità che dovuti alla imprevedibilità delle richieste della clientela, oltre che a ondate di lavoro dovute alla emanazione di specifici provvedimenti di legge. Inoltre le pratiche sono caratterizzate daonerosità sopravvenuta e quindi anche in corso d’opera una pratica facile può arenarsi ed una difficile risolversi prima e meglio del previsto.

Alle volte sono istituiti criteri automatici, ma se non sono monitorati possono portare a una distribuzione non proporzionata.

Ad esempio, un criterio di suddivisione per segnalatori può portare a squilibri in quanto ad esempio una singola agenzia immobiliare, banca o commercialista potrebbe proporre una pluralità di atti contemporaneamente oppure rimanere quiescente per molto tempo.

Puntare sulla buona volontà dei singoli nel ripartirsi il lavoro significa penalizzare le persone più timide e disponibili a vantaggio di quelle più abili nel mascherare i propri carichi.

Teniamo presenti i differenti criteri con cui il dipendente giudica il notaio e viceversa. Per il dipendente il criteri è solo quello dell’ equità, mentre per il datore di lavoro le variabili sono efficacia, efficienza, tempestività, riduzione dei rischi, cortesia nei confronti del cliente, ecc…

Tra l’altro, non tutti i collaboratori sono ugualmente generosi nel mettere a disposizione il proprio tempo. Rarissimo ad esempio il collaboratore che venga a chiedere altro lavoro dichiarando di averne troppo poco. E certamente non è un bel segnale se se ne accorge lui e non noi. 

Comportamenti mimetici, spesso accompagnati da lamento.

Eccessiva generosità chi vuole veramente far contento,  e accentramento da parte di workaholics e altri bulimici dell’atto notarile spesso profondamente insicuri, con conseguenti rischi di ritardi, errori e di burnout.

Il compito di assegnare i carichi di lavoro è molto difficile da delegare. E’ un compito che difficilmente si accetta venga gestito dai propri pari, a meno di non avere in studio delle persone particolarmente autorevoli professionalmente e per carattere che vengano riconosciute come dei leader naturali. 

Non è facile “fare i mucchietti” in modo equo. I carichi dovrebbero infatti essere proporzionati alle skills, alla seniority e all’orario di lavoro prestato dai singoli collaboratori. Inoltre le pratiche assegnate dovrebbero essere anche volte a sfidare la persona con compiti nuovi per consentirle un percorso di crescita carrierale.

La cosa migliore è che vi provveda direttamente il Notaio più senior. Alle volte già i notai junior possono trovarsi in difficoltà soprattutto nei confronti di collaboratori di lungo corso.

Quando si affida l’incarico a qualcun altro è indispensabile che il notaio condivida e chiarisca i criteri di assegnazione e riassegnazione e che il notaio controlli periodicamente che la gestione dei carichi di lavoro sia svolta correttamente dalla persona cui è stata delegata. L’assegnazione gestita in gruppo sembra la più problematica perché può riflettere più la diversa personalità dei partecipanti al tavolo delle trattative che la loro effettiva capacità di assorbire il lavoro.

Uno dei motivi per cui la “spartizione dei pani e dei pesci” risulta particolarmente ardua è dovuta al fatto che è difficile tenere traccia del carico di lavoro perché è dinamico. È come i problemi di fisica della vasca da bagno. Non c’è solo il rubinetto da controllare ma anche il tubo di scarico e talvolta i collaboratori per far vedere come sono impegnati mettono volutamente il tappo.

Fortunatamente esistono oggi strumenti di assegnazione, gestione e monitoraggio dei task per lo studio notarile anche più sofisticati del classico foglio excel e di agevole introduzione in studio.

Una parte del problema è dovuta al fatto che nei paesi latini sono le pratiche che vengono assegnate alle persone mentre nel mondo anglosassone sono le persone che vengono assegnate alle pratiche.

La distinzione non è solo semantica, ma costituisce un vero e proprio ribaltamento di prospettive.

Nei grandi studi legali e commerciali internazionali, se vuoi far carriera e prendere i premi devi metterti in evidenza e riuscire a farti assegnare ai team dei lavori migliori e a lavorare con i partner più in vista.

Da noi invece quando il Notaio entra in studio con un nuovo lavoro da fare tutti si scansano come se fosse una puzzola morta. Si parla in questo caso di marketing interno non inteso come abilità di promuovere l’immagine dello studio agli occhi dei collaboratori ma proprio come capacità di “vendere” il lavoro ai collaboratori, di convincerli a svolgerlo.

L’opera di persuasione a volte si rende necessaria in quanto la persona non sempre riesce a valutare compiutamente il suo carico di lavoro e quindi può non essere ben disposta mentalmente ad accettare un nuovo compito.

Un efficace sistema di assegnazione delle pratiche può consentire allo studio notarile di raggiungere obiettivi di equità, efficienza e di soddisfazione dei clienti, riducendo simultaneamente anche il tempo medio necessario ad arrivare a stipula.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

Si vis pacem para bellum – a cura Dott. Michele D’Agnolo

Il rapporto tra il Notaio e i propri dipendenti è spesso molto diverso da quello che lega l’imprenditore alle maestranze nelle aziende. Generalmente negli studi i dipendenti hanno finora goduto di grande indipendenza, da un certo punto di vista forse anche troppa, perché il Notaio essendo impegnato ha una limitata possibilità di monitorare continuativamente la quantità e la qualità del lavoro svolto, di cui ha contezza di solito ex post quando le minute sono predisposte o gli adempimenti gli vengono proposti per la firma.

A una straordinaria autonomia nella scelta dei metodi di lavoro e nella gestione del proprio tempo spesso si accompagna una molta maggiore dipendenza dal punto di vista professionale: ogni scelta di un qualche rilievo è rimessa al Notaio, talvolta non per necessità ma semplicemente a scanso di responsabilità.

Al Notaio piace pensare che i suoi dipendenti e collaboratori facciano tutti parte di una grande famiglia. Sicuramente soprattutto nelle realtà di minori dimensioni il rapporto è connotato da una certa affabilità e familiarità reciproca. Occorre peraltro considerare che al di là della cordialità e della affabilità, nel rapporto di lavoro – come in tutte le relazioni di tipo contrattuale – ognuno persegue il proprio interesse.

Purtroppo non tutti sono casti e puri, quindi dell’ampia libertà nella gestione del proprio tempo qualcuno potrebbe approfittarsi. E se il monitoraggio è ridotto, come dice il vecchio adagio, l’occasione fa la persona ladra.

Inoltre, la deriva anarchica è sempre in agguato e non sempre le persone hanno il senso della misura. Con la tecnica del carciofo, un po’ alla volta il dipendente si allarga e così ad esempio acquisti in autonomia di materiale di cancelleria sono diventati in qualche caso – nello stupore del Notaio – acquisti in autonomia di beni ammortizzabili. Magari pertinenti alla gestione ma probabilmente da autorizzare. Mentre la gestione autonoma della cancelleria solleva il professionista da incombenze probabilmente poco utili, la fuga in avanti su macchine e mobilio tendenzialmente non lo fa felice. Ma gli esempi tratti dalla frequentazione ventennale di studi professionali potrebbero essere molteplici. Prestazioni effettuate ma non passate in fatturazione per favorire il cliente amico. Prestazioni che nel database dello studio cambiano stranamente autore in funzione dell’ottenimento di un premio di produzione. Fascicoli che traslano nottetempo da una scrivania all’altra.

I dipendenti non vanno colpevolizzati in quanto spesso manca il management. Pochi obiettivi misurabili, poco o nessun feedback costruttivo. Comportamenti virtuosi non sempre identificati e premiati e comportamenti viziosi altrettanto non sempre tempestivamente stigmatizzati e corretti.

In ogni caso, in azienda quando i comportamenti del dipendente non sono adeguati scatta immediatamente una sanzione disciplinare. E dopo un certo numero di sanzioni disciplinari, scatta il licenziamento.

È rarissimo invece riscontrare provvedimenti disciplinari all’interno degli Studi Notarili non solo per la riluttanza del Notaio ad irrogarli ma anche per la assenza di un codice disciplinare che lo consenta. Purtroppo però, date le spinte competitive, il buonismo all’interno degli studi professionali ha le ore contate.

Oggi che serve avere collaboratori più disciplinati per ridurre i rischi e fare efficienza, è spesso difficile per i titolari di studio far capire che “è finita la ricreazione”.

Ecco allora che dotare lo studio del codice disciplinare ed affiggerlo a norma di Statuto dei Lavoratori può costituire un importante deterrente a comportamenti border-line altrimenti difficili da correggere. In assenza di codice disciplinare si possono infatti sanzionare solo comportamenti macroscopici come il furto di beni dello studio o una aggressione fisica ad un altro dipendente. In altre parole soltanto quei comportamenti che per la Corte di Cassazione corrispondono alla violazione di regole universali. Con la conseguenza che rimangono impuniti e impunibili invece proprio quegli episodi forse meno eclatanti ma non meno importanti che si vorrebbe andare a correggere.

Il codice disciplinare è un documento composto da un estratto del CCNL applicato, di solito quello degli Studi Professionali stipulato per i Notai dalla confederazione datoriale Confprofessioni cui appartiene Federnotai, e da un estratto del codice civile e dello Statuto dei Lavoratori. L’art. 138 del CCNL stabilisce la graduazione delle sanzioni in funzione dei comportamenti del dipendente. Il codice disciplinare va affisso in luogo visibile da tutti i lavoratori a nulla valendo a fini legali eventuali altre forme di conoscenza. Il procedimento prevede che a fronte di una violazione disciplinare, il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo poi sentito a sua difesa.

Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.

Fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni. In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.

Il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell’associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal Direttore dell’ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio.

Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall’invito rivoltogli dall’ufficio del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al camma precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto.

Se il datore di lavoro adisce l’ autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio.

Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione.

La prima introduzione nello studio dello strumento del Codice disciplinare andrà utilmente preceduta da una riunione esplicativa, precisando che la correttezza che si persegue va a vantaggio non del Notaio ma di tutto il team.

Le sanzioni disciplinari vanno soprattutto utilizzate come deterrente, vanno minacciate più che comminate. Conviene ricorrervi con grande parsimonia in quanto va valutato l’effetto spesso dirompente e definitivo che possono avere sulla motivazione del dipendente che ne viene colpito. Tuttavia, in alcuni momenti della vita dello studio può rendersi indispensabile creare un precedente in modo da comunicare a tutto lo staff una cesura rispetto al passato. 

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

Problemi in materia di deroghe alle distanze legali- a cura Notaio Alessandra Magnocavallo

Queste che seguono sono alcune brevi riflessioni sull’orientamento attuale della giurisprudenza su questo tema.

Partendo dalle origini, merita ricordare che la materia delle distanze tra fabbricati – e l’osservanza di una determinata distanza tra gli stessi – è stata regolata per la prima volta dal nostro legislatore con il codice civile vigente (come si sa, all’art. 873 C.C.).

Tuttavia, il legislatore ritenne di prevedere che una fonte normativa diversa e speciale – cioè i regolamenti edilizi – potesse aumentare la misura legale dell’arretramento tra edifici.

Infatti, l’art. 873 C.C. (rubricato DISTANZE NELLE COSTRUZIONI) recita che “Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.”

La Corte Costituzionale, in una decisione ormai risalente (16.6.2005), aveva precisato che la disciplina in tale tema “attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi” e rientra nella competenza legislativa statale esclusiva. Aveva poi aggiunto, però, che quando i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri, per ragioni naturali e storiche, specifiche caratteristiche, allora la disciplina che li riguarda fuoriesce dai limiti propri dei rapporti privati e tocca anche interessi pubblici. Ciò legittimerebbe sia la competenza regionale concorrente, sia la competenza dei regolamenti locali, la legittimità dei quali si giustifica dunque soltanto nella misura in cui essa si collochi in maniera coerente nel quadro di interventi urbanistici pianificatori funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone dell’abitato.

Durante i lavori preparatori del codice civile si discusse parecchio circa la derogabilità delle distanze minime tra le costruzioni, tanto che nel progetto originario ne era prevista la totale inderogabilità per convenzione tra privati. Tuttavia, tale divieto fu giudicato eccessivo, dal momento che il regime delle distanze legali è dettato essenzialmente nell’interesse del privato e quindi risulta privo di quel carattere di ordine pubblico che ne giustifichi l’inderogabilità.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, negli anni ha permesso di regolare le distanze per il tramite della costituzione di servitù, che altro non è se non una regolamentazione privata di rapporti di vicinato (il fondo dominante è quello che trae l’utilità dalla deroga ed il fondo servente è quello che subisce la costruzione a distanza inferiore).

La regolamentazione pattizia mediante la costituzione di servitù, dall’altro lato, non sarebbe ammessa qualora un regolamento edilizio imponesse un distacco maggiore nelle costruzioni rispetto al codice civile e ciò in ragione delle finalità d’interesse collettivo del regolamento stesso che ne imporrebbe l’inderogabilità.

Quanto detto non osta, poi, ad ammettere l’acquisto del diritto a titolo originario (usucapione), dal momento che il possesso continuato per venti anni da parte del titolare del fondo dominante risulterebbe prevalente ma comunque coerente col rispetto di interessi collettivi, quale la stabilità delle relazioni tra fondi vicini.

Quanto testé detto circa l’ammissibilità dell’usucapione della servitù consistente nel mantenere una costruzione a distanza inferiore a quella stabilita dal codice civile, o dalle fonti che lo integrano, si applica parimenti all’istituto della destinazione del padre di famiglia come fonte di quel diritto reale.

Nonostante vi siano state pronunce di legittimità di diverso avviso, deve ritenersi ora valida la transazione con la quale si dia origine alla servitù di mantenere costruzioni a distanza inferiore a quella stabilita dai regolamenti edilizi. Lo stesso dicasi per gli accordi di mediazione aventi un simile oggetto.

Alla luce di quanto detto, si ritiene che l’impostazione della giurisprudenza non sia condivisibile, in quanto in più pronunce vuole riconoscere il rango di norma primaria alla normativa regolamentare.

In conclusione, gli atti con i quali le parti costituiscono una servitù prediale, consistente nel mantenere la costruzione a distanza inferiore da quella legale, sono da ritenersi validi in quanto leciti, sia quando derogano la distanza di tre metri stabilita dal codice civile, sia quando derogano la maggior distanza stabilita dai regolamenti o dalle N.T.A. del piano regolatore o da altra fonte integratrice.

Sono validi tutte le volte in cui la norma regolamentare integri il codice civile; altrimenti, invalidi.

Il punto nodale dell’intera questione rimane comunque sull’art. 872 C.C. . La violazione della disciplina sulle distanze comporta infatti le conseguenze di carattere amministrativo che nessun contratto può impedire. La protezione degli interessi pubblici non può che competere esclusivamente al diritto pubblico.

Alessandra Magnocavallo, Notaio in Brescia.

e-Cujus – a cura Notaio Ugo Bechini

La natura giuridica di alcuni beni digitali è oggetto di animato dibattito. Ho ripetutamente espresso la mia opinione, da ultimo in un articolo dedicato alla memoria di Mario Miccoli pubblicato su Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, fascicolo 2/2022 pagina 503. In sintesi è la seguente.

  1. I beni digitali sono innanzitutto beni, e quindi sono vendibili, permutabili, donabili, legabili, conferibili in società, trasmissibili in via ereditaria e quant’altro. Le eccezioni sono da dimostrarsi caso per caso sulla base dei medesimi parametri che possono fondare un giudizio di intrasferibilità di beni tradizionali. Vent’anni fa si poteva forse ancora argomentare che il materiale digitale possedesse una natura intrinsecamente personale: in effetti anche la posta elettronica, all’epoca, aveva un che di goliardico. Materiale d’ogni livello di rilevanza giuridica viaggia oggi via mail, per tacere della PEC.
  2. La password non è un bene, come non lo è il codice che consente l’apertura della porta di un appartamento: se si vuole, si legherà l’immobile od i suoi arredi, non il codice. La situazione non mi pare troppo diversa da quella del legato di cosa da prendersi in un certo luogo (655cc). In un luogo digitale, come uno spazio cloud, possono trovarsi beni dallo status dominicale eterogeneo. Per riprendere un esempio che ho già proposto: un medico potrà conservare nel medesimo spazio digitale dati dei pazienti, i conti di casa, le foto del viaggio di nozze, la lista dei soci di un’associazione di cui è presidente e la corrispondenza con l’amante. Mi pare non si possa configurare, in alcun senso giuridicamente significativo, un unitario legato della relativa password d’accesso. Si potrà certamente conferire mandato post mortem ad un amico fidato (molto fidato) perché usi la password per accedere allo spazio e venire a capo della situazione, inoltrando a ciascun avente diritto i dati che gli competono (e distruggendone, si immagina, alcuni). Ma, è evidente, siamo ben lontani dal concetto di legato.

In sede di pianificazione successoria il da farsi mi pare lineare. Da un lato si identificheranno i destinatari dei beni digitali, tenuti concettualmente ben distinti dall’involucro che li ospita; dall’altro si individueranno gli strumenti pratici più adeguati per far pervenire i beni a destinazione in modo fluido e soprattutto sicuro. Sotto questo secondo profilo iI mandato post mortem è a mio avviso il coltellino svizzero della situazione, anche se non mancano le difficoltà pratiche, legate soprattutto alla buona regola di sicurezza informatica secondo la quale le password dovrebbero variare nel tempo. E’ importante che il mandato sia scritto, onde proteggere il mandatario da contestazioni dei (contro) interessati. Resta esclusa l’idea di inserire le password nel testamento, ove (difficoltà d’aggiornamento a parte) sarebbero alla mercé del più lesto a domandare la pubblicazione.

Si trovano online servizi che offrono soluzioni in questo campo. Se si preferisce come mandatario post mortem una società californiana rispetto ad un amico di Rovigo, non ho nulla da obiettare, ma meglio non farsi ingannare dallo hype: la natura della funzione non cambia. L’accertamento online della morte dell’interessato rischia di essere operazione alquanto farraginosa, piuttosto, e rallentare l’esecuzione di quanto disposto dal De Cujus, il che talvolta può rappresentare un serio problema.

Una ventata di (apparente) novità è stata introdotta dal sempre maggior numero di Clienti che detengono criptovalute od NFT: “gettoni” digitali che incorporano diritti vari, per lo più la proprietà di beni immateriali, soprattutto opere d’arte (anche una canzone di Morgan, ho appreso, impregiudicata ogni valutazione sulla sua sussumibilità nella categoria “opere d’arte”). Non spetta certo al notaio discettare della rischiosità di tali investimenti, ma almeno due altri profili sono (ancorché in modo diverso) di sua competenza. E’ forse sufficiente porre un paio di domande, e non è sempre indispensabile ascoltare le risposte: una volta che i problemi sono stati posti il Cliente potrà in più di un caso far da sé.

  1. Se l’exchange od il wallet ove sono depositate le criptovalute va in malora (l’exchange fallisce, il wallet viene smarrito o va in crash …) qual è il piano per impedire che l’investimento vada perduto? E’ un problema tecnico e non sta a noi elaborare soluzioni, ma attirare l’attenzione del Cliente sì.
  2. Se Ti capita qualcosa, caro Cliente, a chi va il Tuo investimento e come? Ve benissimo che una persona riceva gli strumenti per accedere, si tratti del mandatario post mortem o direttamente del beneficiario. Ma il passaggio difficile, nella mia modesta esperienza, è spiegare che anche in questo secondo caso occorre, contrariamente a quel che pensa la maggioranza dei Clienti, che il beneficiario ne abbia civilisticamente titolo. Se il Cliente desidera che i Bitcoins pervengano legalmente alla signorina Samantha, password o non password, wallet o non wallet, exchange o non exchange, sarà proprio il caso che faccia testamento, e rispettando il dettato del caro vecchio Codice Civile.

Ugo Bechini, Notaio in Genova