PLUSVALENZA E SUPERBONUS – di Notaio Veronica Ferraro

  1. Ambito applicativo

La legge n. 213 del 30 dicembre 2023 (c.d. Finanziaria 2024) ha inciso in maniera rilevante sulla plusvalenza immobiliare e su altre normative fiscali, introducendo – tra l’altro – una nuova fattispecie di plusvalenza derivante da cessioni a titolo oneroso di immobili avvenute successivamente al 1 gennaio 2024 su cui può trovare applicazione l’imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito, attualmente stabilita nella misura del 26%.  

In particolare, la legge Finanziaria 2024 ha modificato l’articolo 67 del T.U.I.R., introducendo, al primo comma, la lettera b-bis) che regolamenta le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di immobili su cui siano stati eseguiti gli interventi agevolati di efficientamento energetico o di riduzione del rischio sismico o di eliminazione delle barriere architettoniche ai sensi all’art. 119 D.L. n. 34/2020, convertito nella Legge 17 luglio 2020 n. 77 (cd. Superbonus).

In base al disposto legislativo dell’articolo 67, comma 1, lettera b-bis) del T.U.I.R., per l’operatività della nuova fattispecie impositiva, deve dunque trattarsi di:

 – plusvalenza realizzata mediante cessione a titolo oneroso di immobile, rimanendo quindi escluse le ipotesi di acquisto mortis causa;

–  cessione di immobile in relazione al quale il cedente o gli altri aventi diritto abbiano fruito delle agevolazioni di cui all’art. 119 D.L. n. 34/2020, convertito nella Legge. 17 luglio 2020, n. 77, ossia delle detrazioni di imposta Super-Bonus, a prescindere dal fatto che si sia o meno fruito del SuperBonus nella misura del 110%, dell’opzione per la cessione del credito di imposta o dello sconto in fattura;  

– cessione realizzata entro i dieci anni dalla conclusione degli interventi che hanno fruito del Superbonus.

Rimangono escluse dall’orizzonte applicativo della nuova disposizione legislativa, non generando quindi alcuna plusvalenza, le ipotesi di trasferimento di immobili adibiti ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari per la maggior parte dei dieci anni antecedenti alla cessione o, nel caso di cessione infradecennale, per la maggior parte di tale periodo, anche se sono stati effettuati interventi agevolati.

  1. Imposta sostitutiva e adempimenti notarili

Come anticipato, anche a questo nuova fattispecie di plusvalenze può trovare applicazione l’imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito di cui all’art. 1, comma 496, legge 23/12/2005, n. 266, attualmente applicata nella misura del 26%.

Anche in questo caso, il cedente, per potersi avvalere di tale possibilità, dovrà farne espressa richiesta al notaio al momento della cessione e tale richiesta dovrà risultare espressamente, con apposita clausola, dall’atto notarile di cessione. In mancanza di una espressa manifestazione di volontà del cedente, infatti, troverà applicazione la disciplina ordinaria.

Il notaio dovrà procedere con l’applicazione dell’imposta sostitutiva sulla plusvalenza dichiarata dal cedente, con il versamento dell’imposta sostitutiva (dopo aver ricevuto la provvista dal cedente) e con la comunicazione all’Agenzia delle Entrate dei dati relativi alla cessione.

  1. Base imponibile

Oltre all’articolo 67 del T.U.I.R., il legislatore ha modificato anche l’articolo 68 del T.U.I.R., fissando i criteri per la determinazione della nuova base imponibile.

In particolare, la previsione del prima comma dell’articolo 68 del T.U.I.R. in base alla quale le plusvalenze sono costituite dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta ed il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente è stata estesa anche alla nuova fattispecie di plusvalenza introdotta dalla lettera b-bis) del comma primo dell’articolo 67 del T.U.I.R..

Più nel dettaglio, il legislatore ha limitato – per le nuove cessioni “plusvalenti” – la possibilità di deduzione dalla base imponibile dei costi inerenti, disponendo che:

– se i lavori che hanno fruito del SuperBonus si sono conclusi da meno di cinque anni, non si possono ricomprendere tra le spese incrementative del valore di acquisto i costi sostenuti fruendo delle predette agevolazioni;

– se i lavori che hanno fruito del SuperBonus si sono conclusi da più di cinque anni (e da meno di dieci anni), si possono ricomprendere tra le spese incrementative del valore di acquisto, i costi sostenuti fruendo delle predette agevolazioni nella misura del 50%.

In entrambi i casi le esclusioni dei costi che hanno fruito del c.d. “SuperBonus” sono previste a condizione che si sia usufruito del c.d. “SuperBonus” nella misura del 110% e che il contribuente si sia avvalso delle opzioni della cessione del credito di imposta o dello sconto in fattura.

  1. Difficoltà operative di interesse notarile e conclusioni

I profili della riforma che hanno creato e creano, nella categoria notarile, maggiore problematicità nell’applicazione della Finanziaria 2024, riguardano principalmente due aspetti:

– il primo aspetto è legato alla definizione del momento da cui far decorrere il termine decennale per l’operatività della nuova plusvalenza rilevante, che il legislatore, con un’espressione troppo generica fa coincidere con la conclusione degli interventi;

– il secondo riguarda la modalità di calcolo della base imponibile con riferimento ai lavori agevolati che non abbiano goduto del SuperBonus al 110% o per i quali il contribuente non si sia avvalso delle opzioni per la cessione del credito di imposta o per lo sconto in fattura;

Analizziamo più nel dettaglio questi aspetti.

Per quanto riguarda il primo problema legato alla determinazione della data di conclusione degli interventi, autorevole dottrina, in via interpretativa, ha proposto delle soluzioni che, in armonia con il dato legislativo riferito ai singoli interventi di efficientamento, potessero fornire la certezza del momento da cui far decorrere il termine decennale.

Più precisamente:

– in caso di interventi di efficientamento energetico (cd. Super-EcoBonus) dovrebbe fare fede la data di redazione dell’attestato di prestazione energetica predisposto da un tecnico che attesti il miglioramento di almeno due classi energetiche;

– in caso di interventi di riduzione del rischio sismico (cd. Super- SismaBonus), dovrebbe fare fede la data di rilascio delle attestazioni di conformità degli interventi eseguiti al progetto depositato, come asseverato dal progettista, rilasciate dal Direttore dei Lavori e dal collaudatore statico, se nominato, al momento dell’ultimazione dei lavori strutturali e del collaudo;

– in caso di interventi che abbiano comportato la trasformazione urbanistica ed edilizia dell’edificio, per i quali sia stato rilasciato o presentato un titolo edilizio, dovrebbe fare fede la data di presentazione al Comune della comunicazione di fine lavori;  

– in caso di interventi che non abbiano comportato la trasformazione urbanistica ed edilizia dell’edificio, e per i quali non sia stato rilasciato o presentato un titolo edilizio, dovrebbe fare fede la data di rilascio del visto di conformità di cui all’art. 119, comma 11, del D.L. 19 maggio 2020 n. 34 convertito con legge 17/07/2020 n. 77.

Per quanto riguarda il secondo problema, non può non saltare all’occhio come l’articolo 68 del T.U.I.R., diversamente da quanto previsto dalla nuova lettera b-bis) del primo comma dell’articolo 67 del T.U.I.R., prevede un diverso metodo di calcolo della base imponibile a seconda che il contribuente abbia goduto o meno delle agevolazioni SuperBonus al 110% o si sia avvalso o meno delle opzioni di cessione del credito di imposta o dello sconto in fattura.

La dottrina notarile si è interrogata e si sta interrogando se si tratti di un mero difetto di coordinamento tra l’articolo 67 e l’articolo 68 del T.U.I.R, o se l’intenzione del legislatore fosse quella di distinguere la base imponibile per la stessa fattispecie tassabile a seconda che si sia fruito o meno del SuperBonus nella misura “massima” del 110% nonché delle opzioni per lo sconto in fattura o la cessione del credito di imposta.

Nonostante qualche problema interpretativo su cui è auspicabile qualche chiarimento, la novella legislativa non pare porre particolari problemi nell’attuazione in concreto della medesima ma bisogna sempre fare attenzione a non sfociare in prese di posizioni non suffragate dal dettato normativo o dalla ratio legis.

Veronica Ferraro, Notaio in Torino.

 

Gestire le non conformità nello studio notarile – di Dott.ssa Anna Lisa Copetto

Scagli la prima pietra chi, nel proprio lavoro, non ha mai commesso un errore. A ciascuno di noi sarà capitato almeno una volta nella vita di non aver svolto un lavoro al meglio delle nostre possibilità, di aver fatto arrabbiare un cliente o di aver contrariato un nostro superiore.  Nella maggioranza dei casi non dipende tanto da incompetenza o da negligenza quanto piuttosto da una concomitanza di fattori: un carico di lavoro eccessivo, un equivoco riguardo alle responsabilità cui siamo chiamati, carenza di informazioni adeguate, inesperienza diretta su una specifica casistica, strumenti di lavoro inadeguati, mancanza di comunicazione, il collega che non ci aggiorna, il cliente che fa orecchie da mercante. Nessuna attenuante, si badi bene. Ma nessuno sbaglia mai con piacere. Allora, a fronte ad un errore, nostro o del nostro staff, come dobbiamo comportarci? Innanzitutto, ovviamente, bisogna cercare di correre ai ripari e aggiustare per quanto possibile la situazione contingente: correggere un dato anagrafico, recuperare un documento, registrare un atto. Insomma, spengo l’incendio. Una volta sistemate le cose occorre poi riflettere sulle cause che hanno portato all’errore e chiedersi cosa ha contribuito a farlo accadere. Insomma, indago sulle cause scatenanti. Il che non significa avviare una caccia alle streghe per rintracciare un colpevole. Ci interessa il peccato, non il peccatore. Anzi di più, ci interessa capire se sia possibile evitare che ciò che ci ha indotto in errore possa ripresentarsi in futuro. Insomma, metto lo studio in sicurezza.

Per ricapitolare: individuata la causa (l’atto non riporta le clausole corrette), ne indago la causa (non ho lavorato sullo schema d’atto aggiornato), intervengo con una azione migliorativa (redigo una procedura che stabilisce a tutto lo studio chi deve fare cosa in merito all’aggiornamento degli schemi d’atto). E non dovrebbe finire qua: dovremmo anche prenderci il tempo per verificare se le misure adottate hanno davvero risolto il problema definitivamente. Se nonostante la procedura dovessimo riscontrare la stessa anomalia in un altro atto, significherebbe evidentemente che la misura adottata non è stata efficace E così l’iter si ripete di analisi si dovrebbe ripetere.

Questo è quello che ci chiede di fare lo standard internazionale Iso 9001, che definisce i requisiti che un’organizzazione deve possedere per ottenere la certificazione di qualità. E utilizza una terminologia tecnica molto precisa:

  • non conformità: identifica l’anomalia, l’irregolarità, il problema
  • correzione; identifica l’azione volta ad eliminare la non conformità
  • azione correttiva: identifica l’azione finalizzata a rimuovere causa che ha generato la non conformità

Il citato standard ci chiede anche di documentare l’analisi e la gestione della non conformità. Questo permette allo studio di avere sempre traccia delle non conformità identificate, delle azioni correttive intraprese e dei risultati ottenuti oltre che di poter identificare eventuali tendenze e le aree di miglioramento su cui investire.


La gestione delle non conformità può essere vista come un processo di apprendimento continuo dall’esperienza degli errori. Ogni non conformità è una lezione in sé, è un’opportunità per lo studio di comprendere meglio i propri processi, individuare eventuali debolezze o inefficienze e adottare misure per prevenirne la ricorrenza.

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network

 

Assegno divorzile e rilevanza della convivenza prematrimoniale – di Notaio Barbara Bosso de Cardona

Corte di cassazione civile, Sezioni Unite, 18 dicembre 2023 n. 35385

Massima

In tema di divorzio, ai fini dell’attribuzione e della quantificazione dell’assegno previsto dall’art. 5, comma 6, l. n. 898 del 1970, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase di “fatto” di quella medesima unione e la fase “giuridica” del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e a cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa o professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato successivamente al divorzio. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito disponendo che nella rivalutazione delle condizioni per l’attribuzione dell’assegno divorzile debba essere computato anche il periodo di sette anni di convivenza prematrimoniale, durante il quale alla coppia era nato un figlio e uno dei due futuri coniugi aveva maturato un reddito da lavoro di importo economico assai rilevante).

Testo

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Bologna , con sentenza n. 1581/2020 pubblicata in data 8 giugno 2020, – in controversia proposta da F.A. nei confronti di M.M.L., al fine di sentire dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto tra le parti nel 2003, con conferma delle condizioni di separazione, riguardo alle condizioni economiche dei coniugi e al contributo paterno al mantenimento del figlio della coppia, nato nel 1998, affidato alla madre, – ha parzialmente riformato la decisione di primo grado, che aveva, quanto alle condizioni del divorzio, assegnato la casa coniugale alla e posto a carico dell’ex marito un assegno divorzile di € 1.600,00 mensili ed un contributo al mantenimento del figlio L. di € 700,00 mensili, oltre il 100% delle spese straordinarie.

In particolare, i giudici d’appello, nel ridurre sia la misura dell’assegno divorzile a favore della M.M.L. (a € 400,00 mensili) sia quella del contributo paterno al mantenimento del figlio (a € 400,00 mensili), hanno, anzitutto, rilevato che il reddito attuale del non poteva essere determinato in € 10.000,00 mensili (come ritenuto dal Tribunale) ma, pur dovendo ritenersi maggiore rispetto a quanto dichiarato al fisco, poteva essere stimato, tenuto conto delle spese dallo stesso sostenute, in «almeno 2.500,00 euro mensili».

La Corte territoriale ha quindi rilevato che, come emergeva dalla costituzione in appello di detta parte, la M.M.L., priva di redditi da lavoro, non aveva lavorato, sia prima che dopo le nozze con il F.A., essenzialmente «per l’agiatezza che proveniva dalla sua famiglia d’origine, non per essersi dedicata interamente alla cura del marito e del figlio»; invero, non risultava dagli atti che ella avesse sacrificato aspirazioni personali e si fosse dedicata soltanto alla famiglia, rinunciando ad affermarsi nel mondo del lavoro, considerato che, avuto esclusivamente riguardo al periodo di «durata legale del matrimonio», dal novembre 2003 al 2010, non anche al periodo anteriore, dal 1996, di convivenza prematrimoniale, «poiché gli obblighi nascono dal matrimonio e non dalla convivenza», la M.M.L., all’epoca delle nozze, nel 2003, aveva già lasciato il suo lavoro da tempo e il marito, a fine 2003, aveva cessato il suo lavoro per il cantautore Lucio Dalla, cosicché «la necessità di seguire il marito nelle trasferte con Lucio Dalla» non poteva aver costituito la ragione o l’unica ragione dell’abbandono del lavoro da commessa.

La Corte ha osservato che, fermo il diritto della M.M.L. a percepire l’assegno divorzile, «in mancanza di tempestiva contestazione dell’an», la misura fissata dal Tribunale risultava eccessiva e, in considerazione della disponibilità economica attuale dell’ex marito, della breve durata (legale) del matrimonio (sette anni) e del profilo solamente assistenziale dell’assegno (in relazione alla mancanza di reddito attuale della ex moglie), appariva equo determinare l’importo nella misura di € 400,00 mensili; anche il contributo paterno al mantenimento del figlio, maggiorenne ma non autosufficiente, doveva essere ridotto ad € 400,00 mensili, in considerazione del reddito del F.A. e del fatto che il medesimo aveva costantemente provveduto a pagare integralmente le spese straordinarie, che, nel caso di uno studente universitario, rappresentano una parte rilevante del mantenimento.

Avverso la suddetta pronuncia, M.M.L. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 25 settembre 2020, affidato a tre motivi, nei confronti di F.A. (che ha resistito con controricorso, notificato il 3 novembre 2020).

Con ordinanza interlocutoria n. 30671/2022, la Prima Sezione civile di questa Corte, ritenuta la questione posta dal ricorso (dai primi due motivi), relativa al rilievo della durata del rapporto di convivenza, anteriore al matrimonio formalizzato, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, «di massima di particolare importanza» a norma dell’art. 374 c.p.c., comma 2, con la conseguente necessità di rimettere la causa alla Prima Presidente di questa Corte, per le valutazioni di sua competenza in ordine alla possibile assegnazione della presente controversia alle Sezioni Unite per la sua soluzione.

Con decreto della Prima Presidenza si è disposta la trattazione del procedimento in udienza pubblica, dinanzi alle Sezioni Unite.

Il P.G. ha depositato memoria, concludendo per il rigetto del ricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

  1. La ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art 5 , comma VI, Legge n. 898/1970, l’erronea ed omessa valutazione dei fatti e dei documenti di causa e l’omesso apprezzamento della disparità patrimoniale, con particolare riferimento agli emolumenti e alle ricchezze del F.A. e alle condizioni economiche della ricorrente, per avere la Corte distrettuale «rivisitato la valutazione operata dal Tribunale delle condizioni economiche complessive» dell’ex marito (il quale aveva lavorato, durante la convivenza prematrimoniale, per diversi anni per l’artista Lucio Dalla e, successivamente alla di lui morte, aveva continuato a gestire, in modo indiretto, i beni ereditari, pervenuti alla di lui madre, cugina del cantautore, ricevendo remunerazioni non dichiarate fiscalmente), trascurando di considerare, nella valutazione del contributo al ménage familiare dato dalla M.M.L., anche con la messa a disposizione di ricchezze provenienti dalla propria famiglia d’origine, oltre che con il ruolo svolto di casalinga e di madre, il periodo (dal 1996 al 2003), continuativo e stabile, di convivenza prematrimoniale (nell’ambito del quale era nato il figlio, L., nel 1998), con una motivazione lacunosa econtra legem; b) con il secondo motivo, sempre ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, stante la totale pretermissione del criterio assistenziale, potenzialmente rilevante ex se, per avere la Corte territoriale considerato preponderante il criterio compensativo, obliterando completamente quello assistenziale, e, in ogni caso, la non corretta interpretazione di quello compensativo, non essendo, a tali fini, necessario che il coniuge economicamente più debole abbia sacrificato «aspettative lavorative», occorrendo piuttosto che costui abbia dato un fattivo contributo al ménage domestico ed alla formazione del patrimonio comune; c) con il terzo motivo, la violazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 6 della legge 898/1970, in merito alla determinazione del contributo di mantenimento del figlio, per non aver i giudici d’appello correttamente apprezzato le sostanze paterne.
  2. Nell’ordinanza interlocutoria n. 30671/2022, a fronte di una motivazione della sentenza impugnata in cui la Corte di appello, nell’escludere la rilevanza del periodo di convivenza prematrimoniale ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, ha fatto riferimento ai criteri indicati nell’art. 5 della legge 898/1970, ponendo l’accento, oltre che sulle disponibilità economiche del soggetto onerato, anche sulla «durata legale del matrimonio», escludendo dal computo il periodo di convivenza more uxorio vissuto dalla coppia prima di legalizzare l’unione (convivenza «necessitata», in quanto il F.A. era coniugato con altra donna e si trovava quindi nell’impossibilità di contrarre matrimonio con la M.M.L.), protrattosi per sette anni e caratterizzato, per quanto dedotto, da una stabilità affettiva oltre che dall’assunzione spontanea di reciproci obblighi di assistenza, ha osservato che «la convivenza prematrimoniale è un fenomeno di costume che è sempre più radicato nei comportamenti della nostra società cui si affianca un accresciuto riconoscimento – nei dati statistici e nella percezione delle persone – dei legami di fatto intesi come formazioni familiari e sociali di tendenziale pari dignità rispetto a quelle matrimoniali», il che rende meno coerente il mantenimento di una distinzione fra la durata «legale» del matrimonio e quella della convivenza e non del tutto infondata la prospettata possibilità di tener conto anche del periodo di convivenza prematrimoniale, cui sia seguito il vero e proprio matrimonio, successivamente naufragato, ai fini della determinazione dell’assegno.
  3. Il controricorrente, con la memoria, evidenzia come dovrebbe essere distinta l’ipotesi della convivenza prematrimoniale tra persone libere da vincoli coniugali (nella quale non vi sarebbero ostacoli all’estensione della durata legale del matrimonio alla convivenza che l’ha preceduto) da quella, che interessa il presente giudizio, in cui la convivenza prematrimoniale avviene in costanza di altro matrimonio di almeno uno dei soggetti conviventi con un terzo. In detta ipotesi, poiché il precedente matrimonio costituisce un impedimento al matrimonio o a unione di fatto ex l. 76/2016, art. 1, comma 36, la convivenza prematrimoniale non potrebbe essere valutata ai fini che qui interessano, in quanto fino alla declaratoria di divorzio «tale periodo è compreso nella durata del matrimonio pendente all’epoca dei fatti». In ogni caso, anche la legge sulle unioni civili, con riguardo alla cessazione della relazione affettiva di fatto, ha previsto soltanto un diritto dell’ex convivente in stato di bisogno ad un assegno alimentare (art. 1 comma 65) non anche ad un assegno di natura perequativa-compensativa.
  4. Il P.G., nel concludere per il rigetto del ricorso e l’infondatezza del primo motivo, che pone la questione della rilevanza o meno della convivenza prematrimoniale, ai fini dell’applicazione dell’art. 5, comma 6, l. 898/1970 e della verifica della sussistenza del presupposto perequativo-compensativo dell’assegno divorzile, utilizza i seguenti argomenti: a) il testuale riferimento che il comma 6 dell’art. 5 l. div. fa alla «durata del matrimonio», ritenendo non possibile ampliare, in via interpretativa, i presupposti ed i criteri di riconoscimento e determinazione dell’assegno divorzile, in funzione compensativa-perequativa, stabiliti dal legislatore con elencazione necessariamente tassativa, introducendo un presupposto aggiuntivo (la convivenza prematrimoniale), pur precisandosi che la durata del matrimonio «è strettamente parlando, non un presupposto dell’assegno divorzile, bensì un criterio per la sua quantificazione (Cass. 7295/2013; Cass. 6164/2015)», salvo per i casi dei matrimoni di breve durata; b) la specifica disciplina dettata dal legislatore per l’ipotesi di cessazione della convivenza di fatto disciplinata dalla legge n. 76/2016, in quanto, al comma 65, si stabilisce – salva la possibilità per i conviventi di fatto di disciplinare diversamente gli aspetti patrimoniali del rapporto concludendo un contratto di convivenza, di cui all’art. 1, comma 50, l. 76/2016, dove regolamentare anche gli aspetti della ripartizione dei ruoli e delle rispettive contribuzioni, prevedendone anche la rilevanza in funzione di una possibile crisi della convivenza – che all’ex convivente di fatto (secondo il modello descritto dal comma 36), in caso di fine del rapporto, spetta soltanto un assegno di natura puramente alimentare, una volta dimostrati lo stato di bisogno e l’impossibilità di provvedere al proprio mantenimento (essendosi, invece, previsto l’assegno divorzile c.d. improprio, al comma 25 della stessa legge, per il solo caso dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, costituita in forza del comma 2), ragione questa per cui non vi sarebbe motivo per attribuire diverso rilievo, ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, nel caso in cui la convivenza di fatto sia sfociata nel matrimonio; c) la non conferenza del richiamo a quell’orientamento di questo giudice di legittimità che concerne la ripartizione della pensione di reversibilità, in quanto, in tali casi, il problema agitato, a fronte di un dettato normativo che all’art. 9 l. div., comma terzo, parla peraltro di «durata del rapporto», era soltanto quello della «equa distribuzione di una provvidenza già determinata tra l’ex coniuge e coniuge superstite, aventi diritto entrambi, da risolversi non in base ad un criterio meramente matematico basato sugli anni di matrimoni, ma bensì anche in base a determinati correttivi», tra i quali è stata considerata dalla giurisprudenza anche la convivenza prematrimoniale, mentre, nel caso di specie, si tratta di «attribuire a una situazione di convivenza di fatto, non considerata dalla legge (se non ai fini sopra citati), rilevanza ai fini della determinazione del quantum dell’assegno divorzile», cosicché «la convivenza viene ad assurgere non a criterio di composizione del conflitto tra più aventi diritto alla medesima provvidenza, ma a criterio di insorgenza stessa della misura del diritto e della correlativa obbligazione»; d) neppure pertinente è il richiamo all’art. 6 della l. n. 184 del 1983 che consente l’adozione solo alle coppie sposate da almeno tre anni, ma che, ai fini del triennio, al comma 4, prende in considerazione anche una mera convivenza stabile e continuativa prima del matrimonio, per un periodo di tre anni, purché la coppia, poi, si sposi, trattandosi di disposizione dettata in specifica materia.
  5. Risulta utile una ricostruzione del quadro normativo.

L’art. 5 , comma 6, l. 898/1970, come modificata per effetto della Novella del 1987 n. 74, dispone che «Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».

Le modifiche più significative rispetto alla precedente versione della norma attengono all’accorpamento di tutti gli indicatori quali «le condizioni dei coniugi», il «reddito di entrambi» (relativi al criterio assistenziale), «il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune» (attinente al criterio compensativo) e le «ragioni della decisione» (relative al criterio risarcitorio) nella prima parte della norma, come fattori dei quali il giudice deve «tenere conto» nel disporre l’assegno di divorzio, nonché la condizione dell’insussistenza di mezzi adeguati e dell’impossibilità di procurarli per ragioni obiettive, in capo all’ex coniuge che richieda l’assegno.

Il testo della norma prevede, innanzitutto, che il giudice tenga (sempre) conto: delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, valutando tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del rapporto. Effettuata questa valutazione, il giudice disporrà l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.

Il comma 10 dell’art. 5 prevede poi che «L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze».

L’art. 9, comma 3, l. 898/1970, recita: «3. Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di cui allo articolo 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze».

Riguardo, invece, all’indennità di fine rapporto percepita dal coniuge, l’art. 12 bis della l. 898/1970 prevede: «Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza. 2. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio».

Viene anche in rilievo la legge n. 76/2016, che si è posta l’obiettivo di riconoscere la convivenza di fatto tra due persone, sia eterosessuali che omosessuali, che non sono sposate e che potranno eventualmente stipulare un contratto di convivenza per regolare le loro questioni patrimoniali.

Il comma 36 dispone che: «si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile».

Tale disposizione rivela come la legge n. 76 non si occupi di regolamentare tutte le ipotesi comunemente ritenute in ambito sociale di «famiglia di fatto» o di «convivenza more uxorio», in quanto, richiedendo la presenza di dati presupposti, finisce per limitare il suo ambito applicativo.

Il contratto di convivenza può essere redatto in forma di scrittura privata o di atto pubblico che dovrà poi essere registrato da un notaio o da un avvocato e trasmesso al registro anagrafico comunale. I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti del coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario, in caso di malattia o ricovero (comma 38). In particolare, nel caso di morte di uno dei due conviventi che è anche proprietario della casa comune, il superstite ha il diritto di restare a vivere in quella casa per altri due anni o per il periodo della convivenza se superiore a due anni, comunque non oltre i cinque anni. Se nella casa convivono i figli minori o i figli disabili del convivente che sopravvive, lo stesso può rimanere nella casa comune per almeno tre anni (comma 42). Il diritto alla casa viene meno nel caso di una nuova convivenza con un’altra persona, o in caso di matrimonio o unione civile (art. 43).

Per quanto riguarda la convivenza, il comma 65 della Legge del 2016 dispone poi che, nell’ipotesi del venir meno della convivenza di fatto, il giudice, su istanza di una delle parti, può stabilire il diritto del convivente di ricevere dall’altro gli alimenti, se ne avesse bisogno e non fosse in grado di provvedere al proprio mantenimento. Gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza.

Infine, la convivenza di fatto non può essere alla base del diritto alla pensione di reversibilità.

In ultimo, va poi ribadito che l’art. 8 Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti umani sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare) e la Corte Edu ha da tempo chiarito che «la vita familiare comprende anche gli interessi materiali» (sentenza Marckx c. Belgio del 13 giugno 1979). La famiglia è considerata, a livello di normativa e giurisprudenza europea, sia nella sua versione tradizionale, composta da due membri di sesso diverso uniti in matrimonio, sia nella versione moderna costituita da coppie non unite in matrimonio, ma semplicemente conviventi, siano esse di sesso diverso o dello stesso sesso e la convivenza qualifica il rapporto che lega i famigliari di fatto.

Non si esige una disciplina dei differenti modelli familiari identica a quella del matrimonio ma una disciplina non discriminatoria (art. 14 della CEDU) che salvaguardi e rispetti le scelte familiari della persona.

5.0 Va quindi richiamato lo stato della giurisprudenza di legittimità e della Corte Costituzionale sui temi toccati dalla presente controversia.

5.1. Sull’assegno divorzile, componendo un contrasto tra i due orientamenti formatisi in seguito alla riforma del 1987, le Sezioni Unite (sentenza n. 11490 del 29 novembre 1990) avevano affermato che «l’assegno periodico di divorzio, nella disciplina introdotta dall’art. 10 della legge 6 marzo 1987 n. 74, modificativo dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, ha carattere esclusivamente assistenziale (di modo che deve essere negato se richiesto solo sulla base di premesse diverse, quale il contributo personale ed economico dato da un coniuge al patrimonio dell’altro), atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio. Ove sussista tale presupposto, la liquidazione in concreto dell’assegno deve essere effettuata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), con riguardo al momento della pronuncia di divorzio. A quest’ultimo fine, peraltro, il giudice del merito, purché ne dia adeguata giustificazione, non è tenuto ad utilizzare tutti i suddetti criteri, anche in relazione alle deduzioni e richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla misura dell’assegno stesso (che potrà anche essere escluso sulla base della incidenza negativa di uno o più di essi)».

Negli anni successivi tale orientamento è rimasto pressoché pacifico sino all’ arresto del 2017 (Cass. 10 maggio 2017 n. 11504) che, mantenendo la scissione del giudizio in due fasi logiche, ha mutato il parametro dell’adeguatezza dei mezzi: in particolare è stato affermato che tali mezzi sono «adeguati», in ossequio al principio di autoresponsabilità, se consentono l’ «indipendenza o autosufficienza economica», indipendentemente dal tenore di vita dovuto durante il matrimonio.

Nel 2018, vi è stato il nuovo intervento delle Sezioni Unite (sez. un. n. 11 luglio 2018 n. 18287), al fine di indicare un percorso interpretativo che tenesse conto dell’esigenza riequilibratrice (sottolineata dalle Sezioni Unite del 1990) e della necessità di «attualizzare il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio anche in relazione agli standards europei», in coerenza con il quadro costituzionale di riferimento, con superamento della distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell’assegno di divorzio, essendosi affermato che il giudice deve accertare l’adeguatezza dei mezzi «attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tener conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto». I criteri di cui all’art. 5, comma 6, in esame costituiscono, nel loro complesso, il parametro di riferimento tanto della valutazione relativa all’an debeatur quanto di quella relativa al quantum debeatur: l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente, prescritto ai fini della prima operazione, deve aver luogo mediante una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti che tenga conto anche del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dello avente diritto, tutto ciò in conformità della funzione non solo assistenziale, ma anche compensativa e perequativa dell’assegno divorzile, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà.

In definitiva è necessario operare una verifica causalmente collegata alla valutazione degli altri indicatori contenuti nella prima parte del citato art. 5, comma 6, proprio al fine di accertare se l’eventuale rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi, all’atto dello scioglimento del vincolo, sia dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione del ruolo svolto all’interno della famiglia, «in relazione alla durata, fattore di cruciale importanza nella valutazione del contributo di ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell’altro coniuge».

Le Sezioni Unite del 2018 hanno evidenziato come «l’autoresponsabilità – cui nella sentenza della Prima civile del 2017 si era dato centrale rilievo – deve infatti percorrere tutta la storia della vita matrimoniale e non comparire solo al momento della sua fine: dal primo momento di autoresponsabilità della coppia, quando all’inizio del matrimonio (o dell’unione civile) concordano tra loro le scelte fondamentali su come organizzarla e le principali regole che la governeranno; alle varie fasi successive, quando le scelte iniziali vengono più volte ridiscusse ed eventualmente modificate, restando l’autoresponsabilità pur sempre di coppia. Quando poi la relazione di coppia giunge alla fine, l’autoresponsabilità diventa individuale, di ciascuna delle due parti: entrambe sono tenute a procurarsi i mezzi che permettano a ciascuno di vivere in autonomia e con dignità, anche quella più debole economicamente. Ma non si può prescindere da quanto avvenuto prima dando al principio di autoresponsabilità un’importanza decisiva solo in questa fase, ove finisce per essere applicato principalmente a danno della parte più debole».

In relazione al criterio specifico della durata del matrimonio, posto dall’ art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, quale «filtro» attraverso cui vagliare gli altri parametri indicati dalla norma, a fronte di un risalente orientamento secondo cui il criterio della durata del matrimonio poteva implicare l’azzeramento totale dell’assegno in casi eccezionali di brevissima durata del matrimonio (sez. I, Sentenza n. 7295 del 22 marzo 2013 relativa ad un matrimonio nel quale vi erano stati solo dieci giorni di convivenza e in cui erano passati meno di cento giorni tra la celebrazione del matrimonio e la separazione; Cass. 26 marzo 2015 n. 6164), nella sentenza delle Sezioni Unite del 2018, si sono approfondite le ragioni in forza delle quali il criterio della «durata del matrimonio» ha la «cruciale importanza» riconosciuta nella pronuncia, precisandosi, come già detto, come la durata del vincolo non assume più rilievo solo ai fini della quantificazione dell’assegno, ma viene in considerazione, unitamente agli altri criteri, anche ai fini dell’accertamento del relativo diritto.

Come ribadito nella successiva sentenza n. 9004/2021 delle stesse Sezioni Unite, «tale accertamento non inerisce all’atto costitutivo del vincolo coniugale, ma allo svolgimento di quest’ultimo nella sua effettività, contrassegnata dalle vicende concretamente affrontate dai coniugi come singoli e dal nucleo familiare nel suo complesso, anche nella loro dimensione economica, la cui valutazione trova fondamento, a livello normativo, nei criteri indicati dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno».

L’arresto del 2018 delle Sezioni Unite ha poi evidenziato come «alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo» (pluralità di modelli familiari tra i quali rientra, pacificamente, anche quello delle unioni civili).

Nella successiva ordinanza del 30 agosto 2019, n. 21926, questa Corte ha ribadito che l’assegno di divorzio ha una funzione assistenziale, ma parimenti anche compensativa e perequativa, come indicato dalle Sezioni Unite, e presuppone l’accertamento di uno squilibrio effettivo e di non modesta entità delle condizioni economiche patrimoniali delle parti, riconducibile in via esclusiva o prevalente alle scelte comuni di conduzione della vita familiare, alla definizione dei ruoli dei componenti della coppia coniugata, al sacrificio delle aspettative lavorative e professionali di uno dei coniugi.

Sul tema della pari ordinazione dei criteri di cui all’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, si sofferma poi Cass. 17 febbraio 2021, n. 4215, a mente della quale, posto che l’assegno divorzile svolge una funzione sia assistenziale che perequativa e compensativa, il giudice: a) attribuisce e quantifica l’assegno alla stregua dei parametri pariordinati di cui all’art. 5, 6° comma, prima parte, tenuto conto dei canoni enucleati dalle Sezioni Unite del 2018, prescindendo dal tenore di vita godibile durante il matrimonio; b) procede pertanto ad una complessiva ponderazione «dell’intera storia familiare», in relazione al contesto specifico; in particolare, atteso che l’assegno deve assicurare all’ex coniuge richiedente – anche sotto il profilo della prognosi futura – un livello reddituale adeguato allo specifico contributo dallo stesso fornito alla realizzazione della vita familiare e alla creazione del patrimonio comune e\o personale dell’altro coniuge, accerta previamente non solo se sussista uno squilibrio economico tra le parti, ma anche se esso sia riconducibile alle scelte comuni di conduzione della vita familiare, alla definizione dei ruoli all’interno della coppia e al sacrificio delle aspettative di lavoro di uno dei due; verifica, infine, se siffatto contributo sia stato già in tutto o in parte altrimenti compensato, fermo che, nel patrimonio del coniuge richiedente, l’assegno non devono computarsi anche gli importi dell’assegno di separazione, percepiti dal medesimo in unica soluzione, in forza di azione esecutiva svolta con successo, in ragione dell’inadempimento dell’altro coniuge.

Infine, la sentenza delle Sezioni Unite del 5 novembre 2021 n. 32198, dopo aver chiarito l’impossibilità di applicare analogicamente l’art. 5, comma 10, della legge sul divorzio (che prevede l’estinzione automatica dell’assegno quando il soggetto richiedente passi a «nuove nozze»), ha affermato che l’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina necessariamente la perdita «automatica» ed integrale del diritto all’assegno in relazione alla sua componente compensativa. Nella suddetta decisione, per quel che rileva ai fini della questione in esame, le Sezioni Unite (al punto 24 e 24.1.) hanno precisato che «la considerazione del contributo dato da ciascun coniuge durante la comunione familiare, in funzione retributivo-compensativa, serve ad evitare, come segnalato da attenta dottrina, equivoci, condizionamento e commistioni rispetto alle successive opzioni esistenziali dell’interessato, assicurandogli, nel reale rispetto della sua dignità, il riconoscimento degli apporti e dei sacrifici personali profusi nello svolgimento della (ormai definitivamente conclusa) esperienza coniugale». Laddove, pertanto, in caso di nuova convivenza si può giustificare il venir meno della componente assistenziale dell’assegno, a diverse conclusioni deve giungersi per la componente compensativa: in presenza del presupposto indefettibile della mancanza di mezzi adeguati ed a fronte della prova del «comprovato emergere di un contributo, dato dal coniuge debole con le sue scelte personali e condivise in favore della famiglia, alle fortune familiari e al patrimonio dell’altro coniuge» (che rimarrebbe ingiustamente sacrificato se si aderisse alla tesi della caducazione integrale del diritto all’assegno), il coniuge beneficiario non perde automaticamente il diritto all’assegno (che potrà essere rimodulato o quantificato, in sede di giudizio per il suo riconoscimento, in funzione della sola componente compensativa). Nella decisione, questa Corte si sofferma sulla questione dell’interferenza tra i vari modelli familiari, per affermare che «l’instaurazione di una nuova convivenza stabile…comporta la formazione di un nuovo progetto di vita con il nuovo compagno o la nuova compagna, dai quali si ha diritto di pretendere, finché permane la convivenza, un impegno dal quale possono derivare contribuzioni economiche che non rilevano più per l’ordinamento solo quali adempimento di una obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo la regolamentazione normativa delle convivenze di fatto, anche l’adempimento di un reciproco e garantito dovere di assistenza morale e materiale».

Le Sezioni Unite hanno sottolineato come la situazione di convivenza non sia «pienamente assimilabile al matrimonio» (né sotto il profilo della, almeno tendenziale, stabilità, né tanto meno sotto il profilo delle tutele che offre al convivente, nella fase fisiologica e soprattutto nella fase patologica del rapporto) e che le situazioni «eterogenee sul piano del diritto positivo» e le diverse regolamentazioni dei due istituti (che non consentono il ricorso all’analogia) giustificano la diversa disciplina e, in particolare, la caducazione del diritto all’assegno di divorzio solo in caso di successivo matrimonio dell’avente diritto, ma non in presenza di una sua stabile convivenza.

Un ultimo richiamo giurisprudenziale (sollecitato anche dalla questione posta dal controricorrente, nel presente giudizio, esposta al par. 3) attiene al riferimento, ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, alla durata del rapporto di coniugio, intesa non come limitata alla durata effettiva della convivenza, con esclusione del periodo di separazione personale tra i coniugi.

Questa Corte ha affermato che i criteri previsti dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, ai fini dell’attribuzione e della quantificazione dell’assegno dovuto all’ex coniuge, devono trovare applicazione in riferimento all’intera durata del vincolo matrimoniale, anzichè a quella effettiva della convivenza, dovendosi in particolare comprendere, nella nozione di contributo fornito da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi, non solo quello offerto nel periodo della convivenza (coniugale), ma anche quello prestato in regime di separazione, soprattutto per quanto riguarda il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli (cfr. Cass., sez. I, 7 novembre 1981, n. 5874; 29 maggio 1978, n. 2684). Il principio, affermato in risalenti pronunce, è stato pacificamente applicato ma ha assunto recentemente particolare rilievo all’indomani dell’arresto delle Sezioni Unite del 2018, in quanto, nel nuovo contesto interpretativo dell’art. 5 l. div., la durata del vincolo coniugale non assume più rilievo esclusivamente ai fini della quantificazione dell’assegno, come ritenuto in precedenza, ma viene in considerazione, unitamente agli altri criteri, anche ai fini dell’accertamento del relativo diritto, e ciò può quindi giustificarne l’esclusione, ove, per la sua brevità, non abbia consentito la prestazione di un significativo contributo o il sacrificio di apprezzabili aspettative professionali da parte del richiedente: anche in passato, d’altronde, la precoce interruzione della convivenza veniva ritenuta idonea a giustificare l’azzeramento dell’importo dell’assegno, nei casi eccezionali in cui avesse impedito l’instaurazione di una comunione materiale e spirituale tra i coniugi, e quindi il consolidamento di un comune tenore di vita (cfr. Cass., n. 6164/2015; Cass. n. 7295/2013; Cass., n. 8233/2000).

5.2. Riguardo ai temi della violazione dei doveri del matrimonio e della conseguente responsabilità civile nell’ambito dei rapporti coniugali e familiari nonché del rapporto tra convivenza e matrimonio, con riferimento agli obblighi gravanti sui coniugi, questa Corte, nella sentenza n. 9801 del 2005 (così massimata: «Il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo da un lato ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare (e ciò considerato che la famiglia è luogo di incontro e di vita comune nel quale la personalità di ogni individuo si esprime, si sviluppa e si realizza attraverso l’instaurazione di reciproche relazioni di affetto e di solidarietà, non già sede di compressione e di mortificazione di diritti irrinunciabili); e dovendo dall’altro lato escludersi che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio – se ed in quanto posta in essere attraverso condotte che, per la loro intrinseca gravità, si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona – riceva la propria sanzione, in nome di una presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di famiglia, esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca del diritto (quali la separazione e il divorzio, l’addebito della separazione, la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare), dovendosi invece predicare una strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente, concorrente rilevanza di un dato comportamento sia ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni di natura patrimoniale, sia (e sempre che ricorrano le sopra dette caratteristiche di gravità) quale fatto generatore di responsabilità aquiliana. E siccome l’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro – pur in mancanza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva di tale vincolo – un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarietà, sostanziantesi anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente alle proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto, è configurabile un danno ingiusto risarcibile allorché l’omessa informazione, in violazione dell’obbligo di lealtà, da parte del marito, prima delle nozze, della propria incapacità coeundi a causa di una malformazione, da lui pienamente conosciuta, induca la donna a contrarre un matrimonio che, ove informata, ella avrebbe rifiutato, così ledendo quest’ultima nel suo diritto alla sessualità, in sè e nella sua proiezione verso la procreazione, che costituisce una dimensione fondamentale della persona ed una delle finalità del matrimonio»), ha, in particolare, affermato, in una fattispecie nella quale il futuro coniuge aveva celato all’altro una patologia che impediva lo svolgimento di una normale vita coniugale, che «l’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro – pur in mancanza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva della costituzione di tale vincolo – un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarietà». Nella decisione si è evidenziato come «nel sistema delineato dal legislatore del 1975, il modello di famiglia-istituzione, al quale il codice civile del 1942 era rimasto ancorato, è stato superato da quello di famiglia – comunità, i cui interessi non si pongono su un piano sovraordinato, ma si identificano con quelli solidali dei suoi componenti. La famiglia si configura ora come il luogo di incontro e di vita comune dei suoi membri, tra i quali si stabiliscono relazioni di affetto e di solidarietà riferibili a ciascuno di essi».

Pertanto, si è chiarito che, sin dalla convivenza, sfociata poi nel matrimonio, le parti sono tenute all’adempimento degli obblighi di solidarietà morale e materiale, propri del matrimonio.

5.3. In relazione alla ripartizione tra ex coniuge e coniuge superstite della pensione di reversibilità, ai sensi del terzo comma dell’art. 9 l. div., questa Corte a Sezioni Unite (Cass. n. 22434/2018) muovendo dall’interpretazione che della normativa in esame ha dato la Corte cost. nella sentenza n. 419 del 1999 (con la quale, confutandosi la soluzione interpretativa offerta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 159/1998, secondo cui occorreva dare rilievo al solo criterio della «durata legale» del matrimonio, senza che potesse essere adottato alcun altro elemento di valutazione, neppure in funzione meramente correttiva del risultato matematico conseguito, si è affermato che il giudice deve prendere in considerazione «la condizione economica degli aventi diritto» in funzione equilibratrice), ha rinvenuto il presupposto per l’attribuzione del trattamento di reversibilità, a favore del coniuge divorziato, nel venir meno del sostegno economico apportato in vita dall’ex coniuge scomparso e la sua finalità nel sopperire a tale perdita economica, così identificando la «titolarità» dell’assegno nella fruizione attuale, da parte del coniuge divorziato, di una somma periodicamente versata dall’ex coniuge come contributo al suo mantenimento (così Cass. sez. un. n. 22434 del 2018, in motivazione).

Va ricordato che la Corte cost. nella sentenza del 1999, n. 419, ha ritenuto infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, terzo comma, I. n. 898 del 1970, nella parte in cui prevede esclusivamente la durata del «rapporto» matrimoniale, quale criterio di ripartizione della pensione di reversibilità tra divorziato e coniuge superstite, in riferimento agli art. 3 e 38 Cost, rilevando che, avendo il legislatore inteso assicurare «all’ex coniuge, al quale sia stato attribuito l’assegno di divorzio, la continuità del sostegno economico correlato al permanere di un effetto della solidarietà familiare, mediante la reversibilità della pensione che trae origine da un rapporto previdenziale anteriore al divorzio, o di una quota di tale pensione qualora esista un coniuge superstite che abbia anch’esso diritto alla reversibilità», «in presenza di più aventi diritto alla pensione di reversibilità (il coniuge superstite e l’ex coniuge), la ripartizione del suo ammontare tra di essi non può avvenire escludendo che si possa tenere conto, quale possibile correttivo, delle finalità e dei particolari requisiti che, in questo caso, sono alla base del diritto alla reversibilità. Ciò che, appunto, il criterio esclusivamente matematico della proporzione con la durata del rapporto matrimoniale non consente di fare. Difatti una volta attribuito rilievo, quale condizione per aver titolo alla pensione di reversibilità, alla titolarità dell’assegno, sarebbe incoerente e non risponderebbe al canone della ragionevolezza, né, per altro verso, alla duplice finalità solidaristica propria di tale trattamento pensionistico, l’esclusione della possibilità di attribuire un qualsiasi rilievo alle ragioni di esso perchè il Tribunale ne possa tenere in qualche modo conto dovendo stabilire la ripartizione della pensione di reversibilità».

La Consulta ha espressamente chiarito che, all’espressione scelta dal legislatore nella norma in esame, ai fini del riparto della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge («tenendo conto») «non può essere tuttavia attribuito un significato diverso da quello letterale: il giudice deve “tenere conto” dell’elemento temporale, la cui valutazione non può in nessun caso mancare; anzi a tale elemento può essere riconosciuto valore preponderante e il più delle volte decisivo, ma non sino a divenire esclusivo nell’apprezzamento del giudice, la cui valutazione non si riduce ad un mero calcolo aritmetico. Una conferma del significato relativo della espressione «tenendo conto» si trova nel sistema della stessa legge, che altre volte usa la medesima espressione per riferirsi a circostanze da considerare quali elementi rimessi alla ponderazione del giudice; e ciò proprio per definire i rapporti patrimoniali derivanti dalla pronuncia di divorzio (cfr. art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970)». Peraltro, non si comprenderebbe (aderendo all’orientamento secondo cui la legge avrebbe dettato un criterio rigido automatico) la scelta del legislatore di investire il Tribunale per una statuizione priva di ogni elemento valutativo, potendo la ripartizione secondo quel criterio automatico essere effettuata direttamente dall’ente che eroga la pensione e, del resto, «quando il legislatore ha inteso stabilire in modo rigido e automatico i criteri per la determinazione di prestazioni patrimoniali dovute all’ex coniuge, ha usato una diversa espressione testuale, direttamente significativa della percentuale di ripartizione e del periodo da considerare; ciò che avviene, ad esempio, per l’indennità di fine rapporto, ripartita tra il coniuge e l’ex coniuge in una percentuale determinata ed in proporzione agli anni in cui il rapporto di lavoro che vi dà titolo è coinciso con il matrimonio (art. 12-bis della legge n. 898 del 1970)» (cfr. al riguardo Cass. 4867/2006: «Ai fini della determinazione della quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74), all’ex coniuge, il legislatore si è ancorato ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad un elemento incerto e precario come la cessazione della convivenza, escludendo, pertanto, anche qualsiasi rilevanza della convivenza di fatto che abbia preceduto le nuove nozze del coniuge divorziato titolare del trattamento di fine rapporto»; conf. Cass. 1348/2012).

Con riferimento all’art.12 bis l. div., la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 23/1991 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma (il giudice remittente aveva evidenziato che la disposizione attribuiva all’ ex-coniuge – ove l’intervallo tra separazione e divorzio sia lungo – una percentuale dell’indennità, pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto è coinciso col matrimonio, sproporzionata al suo effettivo contributo alla conduzione della famiglia), sottolineando come la durata del matrimonio è un parametro cui è attribuito rilievo centrale nella legge sul divorzio, quale modificata dalla Novella del 1987, quanto alla quota di indennità di fine rapporto, all’assegno divorzile e per la ripartizione della pensione di reversibilità, e che era del tutto ragionevole che il legislatore, una volta fatta la scelta di attribuire la quota dell’indennità in una percentuale predeterminata, si fosse ancorato «ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza».

L’orientamento è stato ribadito da Corte Cost. 14 novembre 2000, n. 491, la quale, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, terzo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 «nella parte in cui, ai fini della determinazione delle quote anzidette, non esclude dal computo della durata del rapporto matrimoniale il periodo di separazione personale e non include il periodo di convivenza more uxorio precedente la celebrazione del secondo matrimonio», ha rilevato che, quanto al primo profilo, costituendo «la separazione, in conformità alla sua natura ed alle sue origini storiche, una semplice fase del rapporto coniugale», non può certo ritenersi manifestamente irragionevole una disciplina che accomuna convivenza coniugale e stato di separazione e, quanto al secondo aspetto problematico, che «la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio rappresenta, poi, un punto fermo di tutta la giurisprudenza costituzionale in materia ed è basata sull’ovvia constatazione che la prima è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della seconda», sottolineando che eventuali riflessi negativi del criterio della durata del matrimonio «possano e debbano» essere superati mediante l’applicazione di altri e differenti criteri concorrenti, e in primis di quello relativo allo stato di bisogno degli aventi titolo alla pensione di reversibilità, realizzandosi in tal modo la giusta esigenza, richiamata dal rimettente, di tutelare tra le due posizioni confliggenti quella del soggetto economicamente più debole (sentenza n. 419 del 1999).

La stessa Corte Costituzionale, anche nella pronuncia n. 461/2000, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, secondo e terzo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità, ha evidenziato che, pur vero che la distinta considerazione costituzionale della convivenza more uxorio e del rapporto coniugale non escluda «la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’invocato art. 3 della Costituzione (sentenza n. 8 del 1996)», la mancata inclusione del convivente fra i soggetti beneficiari del trattamento di reversibilità trova una sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che tale pensione si ricollega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico che qui per definizione manca, essendo, diversamente dal rapporto coniugale, «la convivenza more uxorio fondata esclusivamente sulla affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti e si caratterizza per l’inesistenza di quei diritti e doveri reciproci, sia personali che patrimoniali, che nascono dal matrimonio», con conseguente diversità delle situazioni poste a raffronto e, quindi, la non illegittimità di una differenziata disciplina delle stesse.

E la giurisprudenza di legittimità ha fatto costante applicazione del criterio enunciato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 419 del 20 ottobre 1999, secondo cui il trattamento di reversibilità svolge una funzione solidaristica diretta alla continuazione della funzione di sostegno economico, assolta a favore dell’ex coniuge e del coniuge convivente, durante la vita del dante causa, rispettivamente con il pagamento dell’assegno di divorzio e con la condivisione dei rispettivi beni economici da parte dei coniugi conviventi (Cass., 21 settembre 2012, n. 16093; Cass., 7 dicembre 2011, n. 26358; Cass., 9 maggio 2007, n. 10638).

Presupposto per l’attribuzione della pensione di reversibilità è stato, dunque, ritenuto il venire meno del sostegno economico che veniva apportato in vita dal coniuge o ex coniuge scomparso: la sua finalità è quella di sovvenire a tale perdita economica, all’esito di una valutazione effettuata dal giudice, in concreto, che tenga conto della durata temporale del rapporto, delle condizioni economiche dei coniugi, dell’entità del contributo economico del coniuge deceduto e di qualsiasi altro criterio utilizzabile per la quantificazione dell’assegno di mantenimento.

Questa Corte ha, in particolare, affermato che la ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della «durata» dei matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza «more uxorio» non una semplice valenza «correttiva» dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale (Cass., 5268/2020, che si rifà, peraltro, ad un precedente del 2011, Cass. 26358, così massimato: «La ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza “more uxorio” non una semplice valenza “correttiva” dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale», in controversia in cui si contrapponeva, ai fini del riparto della pensione di reversibilità, un matrimonio trentennale, tenuto conto dell’epoca del divorzio, dell’ex coniuge titolare di assegno divorzile e un matrimonio durato pochi mesi del coniuge superstite, ma che era stato preceduto da una lunga convivenza more uxorio).

In altre pronunce, si è affermato che, ai fini della ripartizione del trattamento di reversibilità, vanno considerati pure l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge, le condizioni economiche dei due aventi diritto e la durata delle rispettive «convivenze prematrimoniali», senza mai confondere, però, la durata delle convivenza con quella del matrimonio, cui si riferisce il criterio legale, né individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso (Cass. 282/2001, secondo cui «la esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge, può essere assunta dal giudice come elemento della sua valutazione complessiva, ma solo in relazione al suddetto fine perequativo, e non quale indice di per sè giustificativo del computo del relativo periodo ai fini della ripartizione della pensione»; Cass. 4867/2006; Cass., n. 16093/2012; Cass., n. 10391/2012: «La ripartizione del trattamento di reversibilità fra ex coniuge e coniuge superstite, va fatta “tenendo conto della durata del rapporto” cioè sulla base del criterio temporale, che, tuttavia, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 419 del 1999, per quanto necessario e preponderante, non è però esclusivo, comprendendo la possibilità di applicare correttivi di carattere equitativo applicati con discrezionalità; fra tali correttivi è compresa la durata dell’eventuale convivenza prematrimoniale del coniuge superstite e dell’entità dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge, senza mai confondere, però, la durata della prima con quella del matrimonio, cui si riferisce il criterio legale, nè individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso», precisandosi, in motivazione, che il criterio temporale, per quanto necessario e preponderante, non sia però esclusivo e che la valutazione del giudice «comprende la possibilità di applicare correttivi ispirati all’equità, così evitando l’attribuzione, da un canto, al coniuge superstite di una quota di pensione del tutto inadeguata alle più elementari esigenze di vita e, dall’altro, all’ex coniuge di una quota di pensione del tutto sproporzionata all’assegno in precedenza goduto»). Così pure in Cass. 8623/2020 si ribadisce che «La ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, deve essere effettuata ponderando, con prudente apprezzamento, in armonia con la finalità solidaristica dell’istituto, il criterio principale della durata dei rispettivi matrimoni, con quelli correttivi, eventualmente presenti, della durata della convivenza prematrimoniale, delle condizioni economiche, dell’entità dell’assegno divorzile» (cfr. anche Cass. 11520/2020, secondo cui « In tema di ripartizione delle quote della pensione di reversibilità tra l’ex coniuge divorziato e quello già convivente e superstite, la considerazione tra gli altri indicatori, della durata delle rispettive convivenze prematrimoniali non comporta che vi debba essere una un’equiparazione tra la convivenza vissuta nel corso di uno stabile legame affettivo e quella condotta nel corso del matrimonio»).

Non tutti tali elementi, peraltro, devono necessariamente concorrere né essere valutati in egual misura, rientrando nell’ambito del prudente apprezzamento del giudice di merito la determinazione della loro rilevanza in concreto (Cass., n. 6272/2004; Cass., n. 26358/2011; Cass., n. 22399/2020; Cass. 14383/2021; Cass. 41960/2021).

  1. Venendo quindi alla soluzione della questione di massima di particolare importanza, il primo motivo di ricorso, con il quale si prospetta che la Corte d’appello abbia trascurato di considerare, quanto al contributo dato al nucleo familiare dalla ex moglie, anche con la messa a disposizione di ricchezze provenienti dalla propria famiglia d’origine, oltre che attraverso il ruolo svolto di casalinga e madre, il periodo (nella specie settennale, dal 1996 al 2003) continuativo e stabile di convivenza prematrimoniale (nell’ambito del quale era nato il figlio, nel 1998), con una motivazione lacunosa econtra legem, deve essere accolto.

La ricorrente si duole dell’omessa considerazione da parte della Corte d’appello del periodo settennale (dal 1996 al 2003) di convivenza prematrimoniale, nel quale era nato anche il figlio della coppia, intesa come una fase della vita della coppia che ha preceduto senza interruzioni il matrimonio, evidenziando come non vi sarebbero differenze tra il comportamento dei coniugi nella fase prematrimoniale e in quella coniugale, soprattutto con riguardo alle scelte comuni di organizzazione della vita familiare e riparto dei rispettivi ruoli.

6.1. Indubbiamente, permane, nel nostro ordinamento, una differenza fondamentale tra matrimonio e convivenza, anche dopo la disciplina della legge n. 76 del 2016, fondata sulla differenza dei modelli, dato che il matrimonio e, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono ai modelli c.d. «istituzionali», mentre la convivenza di fatto, al contrario, è un modello «familiare non a struttura istituzionale».

Tuttavia, convivenza e matrimonio sono comunque modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale, anche a seguito della cessazione dell’unione istituzionale e dell’unione di fatto.

6.2. Ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, il criterio individuato dalle Sezioni Unite del 2018, di natura composita ed elastica, risulta decisivo per affrontare anche il tema relativo ai rapporti tra convivenza e matrimonio, atteso che, come chiarito proprio nella citata sentenza n. 18287, «alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo» (cfr. in argomento anche Cass. 32198/2021).

I presupposti dell’assegno divorzile, quali individuati dall’art. 5 l. 898/1970, come interpretato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 18287/2018, costituiscono, nel loro complesso, il parametro di riferimento tanto della valutazione relativa all’an debeatur quanto di quella relativa al quantum debeatur: l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente, prescritto ai fini della prima operazione, deve aver luogo mediante complessiva ponderazione dell’intera storia familiare, in relazione al contesto specifico, e una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, che tenga conto anche del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dello avente diritto, tutto ciò in conformità della funzione non solo assistenziale, ma anche compensativa e perequativa dell’assegno divorzile, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà. L’interpretazione dell’art. 5, comma 6, alla luce dell’art. 29 della Costituzione – e al modello costituzionale del matrimonio «fondato sui principi di eguaglianza, pari dignità dei coniugi, libertà di scelta, reversibilità della decisione ed autoresponsabilità» – porta ad una «valutazione concreta ed effettiva dell’adeguatezza dei mezzi e dell’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive fondata in primo luogo sulle condizioni economico-patrimoniali delle parti», insieme agli altri indicatori contenuti nella prima parte dell’art. 5, comma 6, proprio al fine di accertare se l’eventuale rilevante disparità della situazione economico patrimoniale sia dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti, in funzione dell’assunzione di un ruolo trainante della famiglia.

Il criterio della durata del matrimonio risulta, come anche evidenziato dalle Sezioni Unite nel 2018, «cruciale», con riferimento ai seguenti aspetti: a) la valutazione del contributo che ciascun coniuge, per tutto il periodo in cui l’unione matrimoniale era ancora esistente, ha dato alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell’altro coniuge; b) in relazione all’età del coniuge richiedente e alla conformazione del mercato del lavoro, per considerare le effettive potenzialità professionali e reddituali valutazioni alla fine della relazione matrimoniale. Ne consegue che la durata del matrimonio non assume più rilievo esclusivamente ai fini della quantificazione dell’assegno, come ritenuto in precedenza (anche nei precedenti del 2013/2015 richiamati dal PG), venendo in considerazione tale parametro, unitamente agli altri criteri, anche ai fini dell’accertamento dell’an del relativo diritto all’assegno divorzile.

6.3. Vero che la legge sul divorzio, n. 898 del 1970 (così come, peraltro, la legge n. 76 del 2016), anche in ragione del fatto che al momento in cui la stessa è stata promulgata la convivenza prematrimoniale non così era diffusa socialmente, non si occupa delle ipotesi in cui la coppia passi da una condizione di convivenza al matrimonio.

Tuttavia, la convivenza prematrimoniale è ormai un fenomeno di costume sempre più radicato nei comportamenti della nostra società cui si affianca «un accresciuto riconoscimento – nei dati statistici e nella percezione delle persone – dei legami di fatto intesi come formazioni familiari e sociali di tendenziale pari dignità rispetto a quelle matrimoniali» (così ord. interlocutoria n. 30671).

E costantemente si ripresenta, soprattutto nella materia del diritto di famiglia, l’esigenza che la giurisprudenza si faccia carico dell’evoluzione del costume sociale nella interpretazione della nozione di «famiglia», concetto caratterizzato da una commistione intrinseca di «fatto e diritto», e nell’interpretazione dei vari modelli familiari.

In generale, poi, tra i canoni che orientano l’interpretazione della legge deve annoverarsi anche quello dell’interpretazione storico – evolutiva, «che si aggiunge ai canoni letterale, teleologico e sistematico e, nutrendosi anche del diritto positivo successivo alla disciplina regolatrice della fattispecie, getta sulla stessa una luce retrospettiva capace di disvelarne significati e orientamenti anche differenti da quelli precedentemente individuati» (Cass. sez. un. 24413/2021, ove si sono anche efficacemente rimarcati i limiti di tolleranza ed elasticità dell’enunciato normativo, che l’attività interpretativa non può superare).

6.4. Non può quindi, all’esito dell’attuale definizione dei presupposti dell’assegno divorzile, escludersi che una convivenza prematrimoniale, laddove protrattasi nel tempo (nella specie, sette anni), abbia «consolidato» una divisione dei ruoli domestici capace di creare «scompensi» destinati a proiettarsi sul futuro matrimonio e sul divorzio che dovesse seguire.

Proprio la scelta della coppia di dare stabilità ulteriore all’unione di fatto attraverso il matrimonio, che rappresenta il fatto generatore della disciplina dell’assegno divorzile, vale a «colorare» e a rendere giuridicamente rilevante quel modello di vita, la convivenza di fatto o more uxorio, adottato nel passato, nel periodo precedente al matrimonio.

Non si tratta, quindi, di introdurre una, non consentita, «anticipazione» dell’insorgenza dei fatti costitutivi dell’assegno divorzile, in quanto essi si collocano soltanto dopo il matrimonio, che rappresenta, per l’appunto, il fatto generatore dell’assegno divorzile, ma di consentire che il giudice, nella verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno al coniuge economicamente più debole, nell’ambito della solidarietà post coniugale, tenga conto anche delle scelte compiute dalla stessa coppia durante la convivenza prematrimoniale, quando emerga una relazione di continuità tra la fase «di fatto» di quella medesima unione, nella quale proprio quelle scelte siano state fatte, e la fase «giuridica» del vincolo matrimoniale.

In dottrina, si è sottolineato come i sacrifici professionali e reddituali compiuti da uno dei coniugi, d’accordo con l’altro, nell’interesse della famiglia «non dipendono dall’esistenza tra le parti di un vincolo matrimoniale, ma dalla configurabilità di una vita familiare, tutelata dall’art. 8 CEDU» e, pertanto, dei sacrifici e delle rinunce compiute nel periodo di convivenza precedente al matrimonio o all’unione civile si debba tenere conto nella determinazione dell’assegno di divorzio.

6.5. Non appare decisivo ad escludere il rilievo, ai fini patrimoniali che qui interessano, del periodo di convivenza prematrimoniale, il riferimento alla disciplina dettata dal legislatore nella legge n. 76/2016 (alla mancata previsione di un assegno del tipo di cui all’art. 5 l. div. in caso di cessazione della convivenza, salvo quanto pattuito in un eventuale contratto di convivenza), in quanto, nel caso in esame, si tratta di attribuire specifico peso a quel progetto di vita familiare, già attuato in una comunione di vita, di fatto, che si è poi «trasfuso» in un matrimonio.

In ogni caso, tale normativa non è applicabile nella diversa ipotesi in cui la convivenza di fatto non sia cessata, ma sia sfociata nel matrimonio, non trattandosi, in tal caso, di disciplinare gli effetti di un rapporto ormai risoltosi, ma di prendere atto della prosecuzione dello stesso, nel vincolo coniugale, e delle scelte compiute da ciascuno dei conviventi in funzione della costituzione del nucleo familiare, poi formalizzata attraverso il matrimonio, ai fini della disciplina degli effetti della successiva cessazione di quest’ultimo.

Peraltro, in dottrina, si è osservato che, al contrario, proprio il 65° comma della legge del 2016 assume rilievo nel caso che qui interessa, in quanto se la previsione (di un contributo di tipo alimentare alla cessazione della convivenza) dovesse essere intesa come comprensiva anche della ipotesi di una «convivenza che termini in un matrimonio», la stessa risulterebbe inutile, essendo già previsto l’obbligo alimentare tra i coniugi ai sensi dell’art. 433 c.c., cosicché da essa si può solo trarre l’indicazione che «anche quella prematrimoniale, come ogni convivenza, è foriera di una solidarietà post – rapporto parametrata alla sua durata».

Non dirimente poi, ai fini che qui interessano, il richiamo alla scelta fatta dal legislatore del 2016 di rimettere all’autonomia delle parti la disciplina dei rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune, attraverso la sottoscrizione di un contratto di convivenza (art. 1, comma 50), considerato che comunque è ivi previsto che il contratto stesso, che ha regolamentato il periodo di convivenza, si risolva con il matrimonio o l’unione civile tra i conviventi o tra un convivente e un’altra persona (art.1 , comma 59).

6.6. Può essere allora anche valorizzato, oltre al principio affermato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 9801 del 2005 (relativo all’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio che si riflette sui rapporti tra le parti anche nella fase, di convivenza, precedente il matrimonio) e al rilievo dato alla convivenza come fonte di diritto ed obblighi nella sentenza n. 32198/2021, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che tiene conto della convivenza prematrimoniale nel giudizio sulla ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge divorziato e il coniuge superstite, al fine di non penalizzare quest’ultimo nei casi nei quali la più lunga durata del primo matrimonio rispetto a quello del secondo sia stata in concreto compensata dal lungo periodo di convivenza precedente al secondo matrimonio.

Non è dirimente il differente riferimento alla «durata del rapporto», presente nel comma 3 dell’art. 9 l. div., rispetto all’espressione «durata del matrimonio», utilizzata dal comma 6 dell’art. 5, in quanto le due espressioni si possono sovrapporre, inerendo entrambe le fattispecie al tema del matrimonio inteso come «rapporto» non come atto/vincolo.

6.7. Quanto poi all’argomento speso dal controricorrente, secondo cui dovrebbe essere distinta l’ipotesi della convivenza prematrimoniale tra persone libere da vincoli coniugali (nella quale non vi sarebbero ostacoli all’estensione della durata legale del matrimonio alla convivenza che l’ha preceduto) da quella, che interessa il presente giudizio, in cui la convivenza prematrimoniale avviene in costanza di altro matrimonio di almeno uno dei soggetti conviventi con un terzo, cosicché, poiché il precedente matrimonio costituisce un impedimento al matrimonio o a unione di fatto ex l. 76/2016, art.1, comma 36, la convivenza prematrimoniale non potrebbe essere valutata ai fini che qui interessano, è un «non problema».

Anche le Sezioni Unite del 2021 nella sentenza n. 32198, ammettendo la persistenza della componente compensativa dell’assegno divorzile anche successivamente all’instaurazione di una nuova convivenza da parte del beneficiario, hanno reso possibile la configurabilità di una situazione nella quale la stessa persona si trovi a contribuire con il proprio lavoro domestico a due nuclei familiari diversi che presentano parziali punti di contatto.

Orbene, la possibile assunzione di più doveri di solidarietà post-coniugale nasce dalla instaurazione di più nuclei familiari nel tempo non dalla soluzione data alla questione, oggetto del primo motivo di ricorso, della rilevanza o meno del contributo prestato a favore del nucleo familiare in un momento precedente al matrimonio.

Si tratta, al più, di un ostacolo di fatto ma non di tipo giuridico.

Anzi, il rilievo convivenza prematrimoniale ai fini assegno divorzile (per la componente perequativa-compensativa) riguarda, in particolar modo, le convivenze prematrimoniali consolidatesi in un successivo matrimonio tra soggetti che non potevano, come nel caso, sposarsi prima per l’esistenza di impedimento legale (divieto di contrarre nuove nozze per uno almeno dei due).

In tali casi, la scelta della coppia di contrarre matrimonio non può che essere intesa come volontà specifica di consolidare il progetto di vita familiare già attuato, anch’esso caratterizzato da una stabilità affettiva e dall’assunzione di reciproci obblighi di assistenza, con conseguente assunzione piena dei doveri di solidarietà post coniugale anche per la fase di convivenza prematrimoniale.

I sacrifici compiuti nella predetta fase assumono un significato preciso e rilevante proprio in quanto ad essa è seguito il matrimonio.

E il rigore della dimostrazione vale ad impedire l’abuso.

Invero, si porrà, semmai, un problema di allegazione e prova dell’effettività del contributo endofamiliare dato alla formazione del patrimonio comune o individuale, durante l’unitaria storia familiare, da parte del coniuge risultato poi economicamente più debole, per inadeguatezza dei mezzi e impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, al momento dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.

6.8. In definitiva, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi, in ragione di un progetto di vita comune, a una convivenza prematrimoniale della coppia, vertendosi, al più, in «fasi di un’unica storia dello stesso nucleo familiare» [si è parlato, in dottrina (a) di una convivenza che si distingue da tutte le altre, in quanto «scrutata retrospettivamente essa quasi muta sostanza e partecipa della natura del matrimonio che l’ha seguita» ovvero (b) del fatto che, nell’ipotesi in cui le nozze siano state precedute da una significativa convivenza prematrimoniale, «la decisione di sposarsi includa anche la volontà di compensare (nel caso di futuro divorzio) i sacrifici effettuati in attuazione di un indirizzo comune già concordato ed attuato per un significativo periodo precedente alle nozze» ovvero ancora della circostanza (c) che «le parti, contraendo un’unione formalizzata, hanno dimostrato la volontà non soltanto di impegnarsi reciprocamente per il futuro, ma anche di dare continuità alla vita familiare pregressa, inglobandone l’organizzazione all’interno delle condizioni di vita del matrimonio o dell’unione civile»], va computato, ai fini dell’assegno divorzile, il periodo della convivenza prematrimoniale solo ai fini della verifica dell’esistenza di scelte condivise dalla coppia durante la convivenza prematrimoniale, che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare sacrifici o rinunce alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio.

Ovviamente, resta necessaria una previa allegazione e prova rigorosa, giovando ribadire che: a) la convivenza prematrimoniale rileverà, ai fini patrimoniali che interessano, ove poi consolidatasi nel matrimonio, se assuma «i connotati di stabilità e continuità», essendo necessario che i conviventi abbiano elaborato «un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio)», dal quale inevitabilmente discendono anche reciproche contribuzioni economiche; b) l’assegno divorzile, nella sua componente compensativa, presuppone un rigoroso accertamento del nesso causale tra l’accertata sperequazione fra i mezzi economici dei coniugi e il «contributo fornito dal richiedente medesimo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali», in quanto solo un rigoroso accertamento del fatto che lo squilibrio, presente al momento del divorzio fra la situazione reddituale e patrimoniale delle parti, sia l’effetto del sacrificio da parte del coniuge più debole a favore delle esigenze familiari può, invece, giustificare il riconoscimento di un assegno perequativo, tendente a colmare tale squilibrio, mentre in assenza della prova di questo nesso causale, l’assegno può essere solo eventualmente giustificato da una esigenza assistenziale, la quale tuttavia consente il riconoscimento dell’assegno solo se il coniuge più debole non ha i mezzi sufficienti per un’esistenza dignitosa e versi in situazione di oggettiva impossibilità di procurarseli; c) sarà necessario verificare poi l’effettivo nesso tra le scelte compiute nella fase di convivenza prematrimoniale e quelle compiute nel matrimonio.

6.9. Nella fattispecie in esame, la Corte d’appello, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile dovuto dall’ex marito alla ricorrente, non ha effettivamente considerato, nella valutazione del contributo al ménage familiare dato dalla M.M.L., anche con il ruolo svolto di casalinga e di madre, per come allegato, il periodo (dal 1996 al 2003), continuativo e stabile, di convivenza prematrimoniale (nell’ambito del quale era nato anche un figlio della coppia), avendo incentrato il giudizio, oltre che sulle disponibilità economiche del soggetto onerato, solo sulla «durata legale del matrimonio».

Deve essere quindi enunciato il seguente principio di diritto: «Ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi dell’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase «di fatto» di quella medesima unione e la fase «giuridica» del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio».

  1. Il secondo motivo del ricorso resta assorbito per effetto dell’accoglimento del primo motivo, involgendo comunque un’asserita erronea valutazione anche della funzione compensativa dell’assegno divorzile.
  2. Il terzo motivo, in punto di non corretta determinazione del contributo paterno al mantenimento del figlio, maggiorenne, non autosufficiente economicamente, è inammissibile per difetto di specificità.

Si desume, invero, in maniera del tutto generica, che la somma riconosciuta (€ 400,00 mensili oltre il 100% delle spese straordinarie a carico del padre) sarebbe «sottodimensionata» rispetto alle esigenze del figlio.

La censura involge, peraltro, una rivalutazione fattuale puramente di merito.

  1. Per quanto sopra esposto, in accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo e inammissibile il terzo, va cassata la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Bologna.

In considerazione della natura e novità delle questioni di diritto trattate, vanno integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. (Omissis)

Barbara Bosso de Cardona,  Notaio.

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Com’è noto, in ossequio alle normative fiscali vigenti, gli studi notarili sono tenuti a trasmettere annualmente all’Agenzia delle Entrate gli indicatori statistici di affidabilità fiscale. Questi indicatori includono varie informazioni finanziarie e contabili che consentono all’Agenzia delle Entrate di valutare l’affidabilità fiscale degli studi notarili e monitorare la loro conformità alle leggi fiscali.

Gli ISA, elaborati con una metodologia basata su analisi di dati e informazioni relativi a più periodi d’imposta, rappresentano la sintesi di indicatori elementari tesi a verificare la normalità e la coerenza della gestione professionale, anche con riferimento a diverse basi imponibili.

Gli ISA esprimono su una scala crescente da 1 a 10 il grado di affidabilità fiscale riconosciuto a ciascun contribuente, anche al fine di consentire a quest’ultimo, l’accesso ad un apposito regime premiale.

Gli ISA hanno sostituito a partire dal 2019 gli Studi di Settore, che avevano il fine di stimare il ricavo più probabile del contribuente, rispetto alla categoria di appartenenza. Dall’eventuale non congruità ai risultati degli Studi di Settore potevano scaturire dei controlli fiscali automatici. Al contrario, gli ISA hanno perso tale automatismo in quanto non avrebbero come principale scopo quello di “scovare” eventuali evasori, ma quello di creare un dialogo fra fisco e contribuenti.

La compilazione degli ISA è un processo che non impegna solo il commercialista ma anche lo studio notarile che deve essere in grado di fornire con precisione una serie di dati extra-contabili relativi all’organizzazione interna e alla composizione del proprio fatturato. Le principali suite notarili offrono la possibilità di classificare e di estrarre questi dati fin dalla loro origine e quindi di estrarre con pochi click i prospetti necessari alla compilazione dei modelli agenziali.

La buona notizia è che i dati raccolti in questo modo possono essere utilizzati non solo per valutare l’affidabilità fiscale degli studi notarili, ma anche per condurre analisi più approfondite sulla loro performance, compresa la composizione del fatturato e l’efficienza complessiva. Queste analisi si rivelano fondamentali per individuare eventuali criticità, ottimizzare processi e fornire indicazioni per migliorare la dimensione economica e strategica degli studi notarili.

I dati sono abbastanza agevoli da reperire e si ottengono scorrendo il modello di dichiarazione. In particolare, nel quadro A sono inserite informazioni relative al personale addetto all’attività, nel quadro C sono presenti le informazioni che consentono di individuare le concrete modalità di svolgimento dell’attività, mentre le altre informazioni sono contenute nei quadri contabili.

Gli approfondimenti effettuabili utilizzando i dati ISA possono essere varie e dipendono dalla disponibilità e dalla completezza delle informazioni fornite. Tuttavia, alcune analisi comuni che potrebbero essere effettuate includono:

  1. Analisi del fatturato per aree strategiche e tipologie di prestazioni: Questa analisi potrebbe suddividere il fatturato totale degli studi notarili in base ai diversi tipi di atti stipulati, come compravendite immobiliari, successioni, costituzione di società, ecc. Questo aiuta a comprendere quali aree di attività generano più entrate e identificare eventuali opportunità per diversificare i servizi offerti o concentrarsi su quelli più redditizi. Uno studio resiliente rispetto alle fasi economiche e quindi più rispettoso dell’indipendenza deontologica dovrebbe possibilmente cercare di non dipendere soltanto da un’area di attività come l’immobiliare o il successorio e nemmeno da una particolare tipologia di atti.
  2. Analisi del numero di pratiche per aree strategiche e tipologie di prestazioni: questa analisi potrebbe accompagnarsi a quella precedente e consentire di capire se ci sono aree dove un determinato fatturato viene ottenuto con un numero di pratiche molto elevato, con conseguente possibile dispersione delle forze, o al contrario molto ridotto, con conseguente possibile eccessiva concentrazione in capo ad alcuni clienti.
  3. Analisi della clientela: Questa analisi potrebbe esaminare la composizione della clientela degli studi notarili, inclusi i tipi di clienti (privati, aziende, enti pubblici). Ciò potrebbe fornire insight su come gli studi notarili possono meglio indirizzare i propri sforzi di marketing e servizio clienti.
  4. Analisi della redditività: Questa analisi valuterebbe la redditività complessiva degli studi notarili, confrontando il fatturato con i costi operativi. Ciò potrebbe rivelare aree in cui è possibile ridurre i costi o aumentare i profitti, ad esempio ottimizzando l’utilizzo delle risorse o riducendo i costi fissi.
  5. Analisi dell’efficienza operativa: Questa analisi potrebbe valutare l’efficienza complessiva degli studi notarili, ad esempio confrontando il numero di pratiche elaborate con il personale impiegato, ottenendo il tempo medio necessario per completare una pratica. Sulla base di tale indicatore è possibile identificare processi inefficaci o aree in cui è necessario migliorare l’organizzazione interna.
  6. Analisi di benchmark: Questa analisi potrebbe esaminare le differenze tra studi notarili appartenenti ad una rete, allo scopo di migliorare l’efficienza complessiva di tutti gli appartenenti al network.  

Queste sono solo alcune delle analisi che potrebbero essere effettuate utilizzando i dati ISA dagli studi notarili. Alcune suite inoltre consentono anche il recupero dei dati delle singole pratiche, e in questo modo è possibile svolgere una analisi della provenienza geografica della clientela, della loro età, e di altri indicatori gestionali quali il tempo trascorso dall’incarico alla stipula dell’atto. In generale, l’obiettivo di queste analisi è quello di fornire informazioni utili per migliorare la gestione, l’efficienza operativa degli studi notarili.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Networ