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Comunione de residuo. Comproprieta’ o diritto di credito? – a cura Notaio Vincenzo Spadola

La cassazione Civile, Sezioni Unite, con sentenza del 17 maggio 2022 n. 15889, risolve il contrasto.

Tralasciando i dettagli di una vicenda intricata e rimanendo alla questione principale, il caso si può riassumere nel modo seguente.

Il caso.

I coniugi Tizia e Caio costituiscono una srl avente ad oggetto un’attività commerciale in realtà svolta solo dal marito.

Dopo l’inizio dell’attività societaria i due coniugi, in comunione legale dei beni, acquistano con molteplici atti vari immobili da destinare all’attività della società; in tutti gli atti, tranne uno, risulta essere unico acquirente Caio, stante la dichiarazione di Tizia che gli immobili sono destinati all’esercizio della professione di Caio.

I coniugi si separano e Tizia adduce che gli immobili acquistati da Caio in realtà sono caduti in comunione, con diritto di Tizia alla comproprietà sui predetti immobili nonché su quanto sugli stessi edificato, e sostiene altresì di essere comproprietaria, per metà, anche di tutti i beni mobili dell’impresa del coniuge, ivi compresi gli utili e gli incrementi nonché la partecipazione della società interamente intestata al medesimo coniuge (poiché questi aveva sottoscritto tutte le quote di nuova emissione per effetto di un’operazione di abbattimento del capitale sociale e di contestuale ricostituzione).

Il processo.

La vicenda è sfociata in vari giudizi, sia innanzi al Tribunale di Cagliari sia davanti alla Corte d’Appello della stessa città.

Il Tribunale di Cagliari dà ragione a Tizia e dichiara l’attrice proprietaria del 50% dei beni immobili oggetto del contendere.

La Corte d’Appello accoglie le ragioni del marito Caio e dichiara che, per effetto dello scioglimento della comunione de residuo, Tizia è titolare di un diritto di credito corrispondente al 50% del valore dei beni costituenti l’impresa esercitata a titolo personale da Caio.

La questione viene rimessa alle Sezioni Unite chiamate a dirimere il contrasto, emerso nella giurisprudenza della Corte, circa la natura del diritto vantato dal coniuge non titolare dell’azienda sui beni dell’azienda stessa condotta dal coniuge imprenditore, se cioè esso debba intendersi quale diritto reale (comproprietà dei beni dell’azienda) oppure diritto di credito (al controvalore della quota di un mezzo dei beni dell’azienda).

La sentenza

Le Sezioni Unite, dopo un’ampia panoramica della vicenda processuale e un interessante preambolo ove si dà conto diffusamente delle due opposte interpretazioni, quali emerse nella giurisprudenza della Corte e fra gli studiosi che si sono occupati del tema, dispongono nel senso della natura di diritto di credito, affermando il seguente principio: “Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”.

 

Le motivazioni.

Le argomentazioni a sostegno della decisione sono le seguenti.

La finalità dell’istituto della comunione de residuo è di garantire un equilibrato contemperamento fra l’esigenza di uguaglianza delle sorti economiche dei coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio e quella di assicurare al singolo coniuge un adeguato spazio di autonomia nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali e in generale nella gestione dei propri redditi da lavoro come pure dei frutti ricavati dai beni personali; soddisfare, cioè, il bilanciamento tra il principio solidaristico, che dovrebbe informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall’altro (artt. 35, 41 e 42 Cost.).

L’individuazione dei beni oggetto della comunione de residuo si trae dall’art. 177 c.c., lett. b) e c), e dall’art. 178 c.c., differenti però nella loro formulazione letterale: l’art. 177 prevede che i beni “costituiscono oggetto” della comunione, se ed in quanto esistenti all’atto dello scioglimento; nell’art. 178 c.c. i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita da uno dei coniugi dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa, anche costituita precedentemente, “si considerano oggetto”.

Non si può trascurare l’esigenza di coordinare le novità introdotte dalla riforma del diritto di famiglia e il preesistente impianto codicistico che nelle sue linee fondamentali è volto a privilegiare l’autonoma e libera disponibilità delle risorse, nonché il principio della circolazione dei valori e il mantenimento dei livelli di produttività, che non possono soffrire ostacoli eccessivi per effetto della scelta in favore del regime della comunione legale.

Inoltre, e con specifico riferimento ai beni di cui all’art. 178 c.c., si pone anche la finalità di non coinvolgere il coniuge non imprenditore nella posizione di responsabilità illimitata dell’altro, assicurando a quest’ultimo la piena libertà d’azione nell’esercizio della sua attività d’impresa.

Il legislatore ha inteso garantire, finché dura la comunione legale, al coniuge imprenditore il potere di gestione dell’impresa, con facoltà di investire a suo piacimento gli utili e disporre liberamente dei beni e degli utili aziendali.

Le considerazioni che precedono, dalle quali è dato ricavare come le esigenze solidaristiche familiari siano state in parte reputate recessive a fronte dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale, inducono a prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, tra l’altro garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, quanto all’impresa, in capo all’altro coniuge, evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, consentendo in tal modo la sopravvivenza dell’impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.

 

Depongono a favore di tale conclusione gli inconvenienti che la diversa tesi della natura reale del diritto presenta, precisamente:

l’insorgenza di una comunione anche sui beni mobili e immobili confluiti nell’azienda pone evidenti problemi nei rapporti con i terzi che abbiano avuto rapporti con l’impresa individuale del coniuge;

si avrebbe un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio quando e, anzi addirittura, proprio “perché” si sono prodotte vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione;

il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una menomazione dell’autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento;

il carattere ordinario della comunione che verrebbe in tal modo a determinarsi, oltre ad incidere sulle regole gestionali della stessa, porrebbe il problema per la stessa sopravvivenza dell’impresa, posto che, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge già imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe chiederne l’attribuzione il coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire alla alienazione a terzi;

nel caso di morte del coniuge non imprenditore, che determina lo scioglimento della comunione legale, si verrebbe a creare la comunione sui beni di cui all’art. 178 c.c., tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro coniuge, che ben potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare ristretto;

non facilmente conciliabile con la natura reale del diritto la previsione secondo cui cadono in comunione anche gli incrementi, che per la loro connotazione, in parte anche immateriale, mal si prestano a configurare una comunione in senso reale sui medesimi.

Quanto alla formulazione letterale degli artt. 177 e 178 c.c., uno dei principali argomenti a favore della natura reale, proprio la circostanza che in quest’ultima norma il legislatore abbia utilizzato il verbo “considerare”, piuttosto che “essere”, denota un’ambiguità semantica che, ancor più che essere sintomatica di un’incertezza, potrebbe essere invece ricondotta ad una precisa volontà di sottoporre la comunione de residuo, e specialmente quella di impresa, ad un regime normativo diverso da quello ordinario; così come non si rivela insormontabile il richiamo, da parte dei sostenitori della natura reale, alla mancata disciplina all’interno dell’art. 192 c.c., tra i rimborsi e le restituzioni dovuti tra coniugi al diritto di credito spettante al coniuge non imprenditore, potendosi obiettare che in realtà l’omissione si giustifica per la esaustività della disciplina della comunione de residuo nelle norme appositamente dettate.

Vincenzo Spadola,  Notaio in Parma.