L’analisi SWOT per lo studio notarile – Una guida scientifica ai buoni propositi – a cura Dott.ssa Anna Lisa Copetto

A ciascuno di noi è capitato almeno una volta di avventurarsi in un progetto che non ha poi dato i risultati sperati. Al netto di circostanze particolarmente sfortunate e sciagurati imprevisti, il più delle volte la causa dell’insuccesso ha a che fare con una analisi preliminare non idonea a darci le informazioni per capire su cosa esattamente dovevamo puntare,  fin dove potevamo spingerci e quali sarebbero stati i rischi che contrastare.

Nell’affrontare qualunque tipo di progetto (una fusione con un altro studio, l’avvio di un piano di comunicazione esterna, ecc.), si rivela molto utile la analisi SWOT, acronimo dei termini inglesi Strengths, Weaknesses, Opportunities e Threats. Si tratta di uno strumento di pianificazione strategica che può essere utilizzato per stabilire quale sia la miglior strategia possibile stante le caratteristiche delle variabili (di un progetto, di un’idea, dello studio stesso, ecc.) sui cui lo studio può incidere e le caratteristiche dell’ambiente esterno con cui ci si interfaccia e che subisce (uno specifico  cliente, un potenziale partner, il mercato).

Più precisamente, l’analisi swot ci invita a individuare, una volta stabilito l’obiettivo che vogliamo raggiungere:

  • i punti di forza, ovvero quei fattori interni positivi che costituiscono un vantaggio competitive per l’iniziativa;
  • le debolezze, ovvero quegli ostacoli interni che possono compromettere il successo dell’iniziativa;
  • le opportunità, ovvero quelle condizioni esterne che, se correttamente interpretate e sfruttate, permettono di raggiungere l’obiettivo;
  • le minacce, ovvero quelle condizioni esterne che potrebbero intralciare il raggiungimento dell’obiettivo.

 

                                                                            La matrice swot

 

La corretta combinazione dei succitati punti facilita la valutazione dell’effettiva raggiungibilità di uno specifico obiettivo (acquisire nuove quote di mercato, costituire uno studio associato, stabilire una nuova partnership, ecc.) e la definizione delle  possibili strategie applicabili più idonee.

La formulazione della strategia si deve basare sulla risposta alle seguenti domande:

  • Come possiamo valorizzare e sfruttare i punti di forza?
  • Come posso contenere i punti di debolezza e trasformarli in punti di forza?
  • Come posso sfruttare le opportunità offerte dall’ambiente esterno?
  • Come possono contrastare le minacce dell’ambiente esterno?

In particolare le nostre strategie potranno essere di quattro tipi diversi.

  1. Le strategie Forze/Opportunità, volte a sfruttare le opportunità che ben riescono a far leva sulle forze dello studio. Si tratta in genere delle strategie più agevoli e meno costose da affrontare e anche di quelle potenzialmente più immediatamente produttive. Per esempio sfruttiamo le competenze linguistiche per accompagnare le imprese straniere che vogliono investire in Italia.
  2. Le strategie Debolezze/Opportunità che consistono nel migliorare, nel superare le debolezze per poter sfruttare appieno le opportunità offerte dal mercato. Queste strategie possono richiedere investimenti materiali o immateriali consistenti, pertanto sono più difficili da perseguire. Per esempio impariamo la fatturazione elettronica, in cui siamo deboli, per cogliere l’opportunità di assistere i clienti nella materia in questione.
  3. Le strategie Forze/Minacce servono ad affrontare le minacce identificando la maniera di utilizzare le proprie forze per ridurre la vulnerabilità. Si tratta di un utilizzo “coraggioso” e stancante delle proprie risorse, che quindi va deciso con cautela.
  4. Le strategie Debolezze/Minacce sono strategie che prendono atto della propria debolezza rispetto a precise minacce. In questo caso, le strategie possono implicare la pianificazione di manovre difensive per evitare che le debolezze dello studio ne accrescano la vulnerabilità verso le minacce esterne.

Per stendere una buona matrice swot non è necessario ritirarsi per un fine settimana in un monastero per uno studio matto e disperatissimo. Sarà sufficiente dedicare all’impresa non più di una mezza giornata, purché senza distrazioni di alcun tipo e con il massimo della concentrazione possibile.  È possibile anche lavorare in due tempi, richiedendo anche ai propri collaboratori un contributo in differita. In tal caso, la sintesi delle notizie ritratte dalle matrici raccolte aiuterà a capire quanto simili o distanti sono le visioni di ciascuno e a rilevare meglio i punti di debolezza che la Direzione dello studio non percepiva come tali o i punti di forza magari un pochino più scricchiolanti di quanto pensasse.

L’analisi SWOT andrà utilmente ripetuta periodicamente, ad esempio una volta l’anno, per confrontare le matrici dei vari anni e valutare l’effettiva capacità dello studio di interpretare e agire il cambiamento necessario a rimanere efficacemente sul mercato.

Anna Lisa Copetto, Consulente di direzione presso Intuitus Network

Come rilevare i carichi di lavoro nello studio notarile – a cura Dott. Michele D’Agnolo

Abbiamo sottolineato in un precedente contributo l’importanza di misurare i carichi di lavoro all’interno dello studio notarile, per consentire al Notaio di ottenere la massima efficienza ed equità nell’allocazione delle risorse.

Esistono vari metodi di rilevazione dei carichi di lavoro, alcuni sono indiretti in quanto prevedono il confronto dello studio con l’esterno, mentre altri prevedono una diretta rilevazione delle quantità lavorate o dei tempi di lavorazione, solitamente mediante sistemi informatici. 

Una prima modalità di rilevazione, semplice ma per certi versi meno attendibile per le tante variabili in gioco, è rappresentata dal confronto con i propri colleghi sui “numeri” dello studio (ove questi vengano elaborati): numero delle persone full time equivalenti impiegate in studio, numero dei clienti serviti, numero di atti a repertorio e raccolta, fatturato, ecc. Tali confronti possono fornire ovviamente solo delle indicazioni di massima ma possono risultare efficaci quando le differenze sono importanti. Pensiamo, ad esempio, allo studio notarile che rileva un numero di atti nettamente inferiore rispetto al collega che magari ha una struttura molto più leggera sul piano delle risorse impegnate. È evidente che il dato di per sé ha un significatività limitata se non viene incrociato con altri dati (banalmente, la tipologia di atti di cui trattasi), ma offre lo mossa per  avviare approfondimenti mirati nel proprio studio.

Una seconda metodologia, più attendibile sul piano dei risultati, è rappresentata dall’utilizzo di una scheda cartacea o di un foglio elettronico nel quale registrare quelli che sono i tempi dedicati alle varie attività associate ai clienti durante una giornata lavorativa da parte dei singoli addetti. Il timesheet, appunto. Si tratta di uno strumento che può trovare una applicazione campionaria, anche per brevi periodi ciclici all’interno dell’anno, ad esempio della durata di un paio di settimane, soprattutto in strutture meno complesse.

Con l’aumentare della complessità interna dello studio e quindi dei dati che si vuole andare ad analizzare, la rilevazione a campione può non risultare del tutto efficace. Inoltre, l’alimentazione manuale del dato può talvolta rappresentare  un elemento di rischio per l’affidabilità dello strumento, laddove l’addetto non  sia preciso  o tempestivo nell’aggiornamento del documento di rilevazione.

Una ulteriore modalità è rappresentata dal ricorso ad un software gestionale dedicato che, con dei timesheet calibrati sulle effettive esigenze di indagine e il più possibile automatizzati nella rilevazione dei dati, consente di registrare e monitorare i tempi delle attività dei professionisti e collaboratori nell’arco della giornata. Al momento della rilevazione, il software deve consentire di associare il tempo a ciascuna delle dimensioni di governo (attività, pratica, cliente, partner di riferimento, ecc.), l’applicativo quindi produce in automatico  i report di sintesi. Il timesheet, oltre a fornire tutta una serie di informazioni di natura più prettamente economica, fornisce anche  una serie di dati oggettivi  utili nella definizione dei  tempi standard  per le diverse attività oggetto di controllo e anche nella definizione di come allocare le risorse. Ovviamente, per ottenere questo, è necessario depurare i dati raccolti da eventuali elementi di straordinarietà. Il timesheet è molto comune negli studi legali e commerciali mentre trova minore applicazione negli studi notarili, dove non di rado viene vissuto come un ulteriore fardello. Inoltre non tutte le professionalità riescono a segnare con precisione le attività svolte: si pensi alla segreteria generale, che funge da accoglienza fisica e telefonica e che spezzetta la propria attività in mille rivoli.

Negli studi dove gli assistenti notarili sono specializzati in un’unica funzione si può anche procedere in via indiretta, purché gli assegnatari delle pratiche risultino dalle rilevazioni della suite informatica utilizzata per la gestione degli atti. In questo modo si riesce a verificare ex post la quantità di atti prodotta dal singolo collaboratore nel periodo di tempo considerato.

Come è stato possibile evidenziare, il ricorso a strumenti informatici è senza dubbio la via più efficace per la rilevazione dei carichi di lavoro.

Michele D’Agnolo, Executive Consultant – Intuitus Network

COMUNIONE DE RESIDUO. COMPROPRIETA’ O DIRITTO DI CREDITO? – a cura Notaio Vincenzo Spadola

La cassazione Civile, Sezioni Unite, con sentenza del 17 maggio 2022 n. 15889, risolve il contrasto.

Tralasciando i dettagli di una vicenda intricata e rimanendo alla questione principale, il caso si può riassumere nel modo seguente.

Il caso.

I coniugi Tizia e Caio costituiscono una srl avente ad oggetto un’attività commerciale in realtà svolta solo dal marito.

Dopo l’inizio dell’attività societaria i due coniugi, in comunione legale dei beni, acquistano con molteplici atti vari immobili da destinare all’attività della società; in tutti gli atti, tranne uno, risulta essere unico acquirente Caio, stante la dichiarazione di Tizia che gli immobili sono destinati all’esercizio della professione di Caio.

I coniugi si separano e Tizia adduce che gli immobili acquistati da Caio in realtà sono caduti in comunione, con diritto di Tizia alla comproprietà sui predetti immobili nonché su quanto sugli stessi edificato, e sostiene altresì di essere comproprietaria, per metà, anche di tutti i beni mobili dell’impresa del coniuge, ivi compresi gli utili e gli incrementi nonché la partecipazione della società interamente intestata al medesimo coniuge (poiché questi aveva sottoscritto tutte le quote di nuova emissione per effetto di un’operazione di abbattimento del capitale sociale e di contestuale ricostituzione).

Il processo.

La vicenda è sfociata in vari giudizi, sia innanzi al Tribunale di Cagliari sia davanti alla Corte d’Appello della stessa città.

Il Tribunale di Cagliari dà ragione a Tizia e dichiara l’attrice proprietaria del 50% dei beni immobili oggetto del contendere.

La Corte d’Appello accoglie le ragioni del marito Caio e dichiara che, per effetto dello scioglimento della comunione de residuo, Tizia è titolare di un diritto di credito corrispondente al 50% del valore dei beni costituenti l’impresa esercitata a titolo personale da Caio.

La questione viene rimessa alle Sezioni Unite chiamate a dirimere il contrasto, emerso nella giurisprudenza della Corte, circa la natura del diritto vantato dal coniuge non titolare dell’azienda sui beni dell’azienda stessa condotta dal coniuge imprenditore, se cioè esso debba intendersi quale diritto reale (comproprietà dei beni dell’azienda) oppure diritto di credito (al controvalore della quota di un mezzo dei beni dell’azienda).

La sentenza

Le Sezioni Unite, dopo un’ampia panoramica della vicenda processuale e un interessante preambolo ove si dà conto diffusamente delle due opposte interpretazioni, quali emerse nella giurisprudenza della Corte e fra gli studiosi che si sono occupati del tema, dispongono nel senso della natura di diritto di credito, affermando il seguente principio: “Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”.

 

Le motivazioni.

Le argomentazioni a sostegno della decisione sono le seguenti.

La finalità dell’istituto della comunione de residuo è di garantire un equilibrato contemperamento fra l’esigenza di uguaglianza delle sorti economiche dei coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio e quella di assicurare al singolo coniuge un adeguato spazio di autonomia nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali e in generale nella gestione dei propri redditi da lavoro come pure dei frutti ricavati dai beni personali; soddisfare, cioè, il bilanciamento tra il principio solidaristico, che dovrebbe informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall’altro (artt. 35, 41 e 42 Cost.).

L’individuazione dei beni oggetto della comunione de residuo si trae dall’art. 177 c.c., lett. b) e c), e dall’art. 178 c.c., differenti però nella loro formulazione letterale: l’art. 177 prevede che i beni “costituiscono oggetto” della comunione, se ed in quanto esistenti all’atto dello scioglimento; nell’art. 178 c.c. i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita da uno dei coniugi dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa, anche costituita precedentemente, “si considerano oggetto”.

Non si può trascurare l’esigenza di coordinare le novità introdotte dalla riforma del diritto di famiglia e il preesistente impianto codicistico che nelle sue linee fondamentali è volto a privilegiare l’autonoma e libera disponibilità delle risorse, nonché il principio della circolazione dei valori e il mantenimento dei livelli di produttività, che non possono soffrire ostacoli eccessivi per effetto della scelta in favore del regime della comunione legale.

Inoltre, e con specifico riferimento ai beni di cui all’art. 178 c.c., si pone anche la finalità di non coinvolgere il coniuge non imprenditore nella posizione di responsabilità illimitata dell’altro, assicurando a quest’ultimo la piena libertà d’azione nell’esercizio della sua attività d’impresa.

Il legislatore ha inteso garantire, finché dura la comunione legale, al coniuge imprenditore il potere di gestione dell’impresa, con facoltà di investire a suo piacimento gli utili e disporre liberamente dei beni e degli utili aziendali.

Le considerazioni che precedono, dalle quali è dato ricavare come le esigenze solidaristiche familiari siano state in parte reputate recessive a fronte dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale, inducono a prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, tra l’altro garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, quanto all’impresa, in capo all’altro coniuge, evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, consentendo in tal modo la sopravvivenza dell’impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.

 

Depongono a favore di tale conclusione gli inconvenienti che la diversa tesi della natura reale del diritto presenta, precisamente:

l’insorgenza di una comunione anche sui beni mobili e immobili confluiti nell’azienda pone evidenti problemi nei rapporti con i terzi che abbiano avuto rapporti con l’impresa individuale del coniuge;

si avrebbe un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio quando e, anzi addirittura, proprio “perché” si sono prodotte vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione;

il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una menomazione dell’autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento;

il carattere ordinario della comunione che verrebbe in tal modo a determinarsi, oltre ad incidere sulle regole gestionali della stessa, porrebbe il problema per la stessa sopravvivenza dell’impresa, posto che, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge già imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe chiederne l’attribuzione il coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire alla alienazione a terzi;

nel caso di morte del coniuge non imprenditore, che determina lo scioglimento della comunione legale, si verrebbe a creare la comunione sui beni di cui all’art. 178 c.c., tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro coniuge, che ben potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare ristretto;

non facilmente conciliabile con la natura reale del diritto la previsione secondo cui cadono in comunione anche gli incrementi, che per la loro connotazione, in parte anche immateriale, mal si prestano a configurare una comunione in senso reale sui medesimi.

Quanto alla formulazione letterale degli artt. 177 e 178 c.c., uno dei principali argomenti a favore della natura reale, proprio la circostanza che in quest’ultima norma il legislatore abbia utilizzato il verbo “considerare”, piuttosto che “essere”, denota un’ambiguità semantica che, ancor più che essere sintomatica di un’incertezza, potrebbe essere invece ricondotta ad una precisa volontà di sottoporre la comunione de residuo, e specialmente quella di impresa, ad un regime normativo diverso da quello ordinario; così come non si rivela insormontabile il richiamo, da parte dei sostenitori della natura reale, alla mancata disciplina all’interno dell’art. 192 c.c., tra i rimborsi e le restituzioni dovuti tra coniugi al diritto di credito spettante al coniuge non imprenditore, potendosi obiettare che in realtà l’omissione si giustifica per la esaustività della disciplina della comunione de residuo nelle norme appositamente dettate.

Vincenzo Spadola,  Notaio in Parma.

FATTISPECIE RILEVANTI IN MATERIA DI DECADENZA DALLE AGEVOLAZIONI PRIMA CASA E RIACQUISTO ENTRO L’ANNO – a cura Notaio Elena Peperoni

In tema di agevolazioni tributarie per l’acquisto della “prima casa”, il comma 4, ultimo periodo, della nota II bis all’art. 1 della Tariffa, Parte 1, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, dispone che la relativa decadenza è evitata se il contribuente, pur avendo trasferito l’immobile acquistato con i benefici fiscali prima del decorso del termine di cinque anni dall’acquisto stesso, entro un anno dall’alienazione acquisti un altro immobile, da adibire ad abitazione principale.

Ciò significa che i predetti benefici fiscali previsti per l’acquisto della “prima casa” possono essere conservati soltanto se l’acquisto sia seguito dalla effettiva realizzazione della destinazione dell’immobile acquistato ad abitazione propria; ne consegue che la decadenza dall’agevolazione “prima casa”, prevista dall’art. 1, nota II bis), comma 4, della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, può essere evitata ove, entro un anno dall’alienazione di tale bene, si proceda all’acquisto di un altro immobile da adibire a propria abitazione principale. Pertanto, il contribuente può conservare l’agevolazione solo se trasferisca la propria residenza nel nuovo immobile, a differenza di ciò che avviene per l’acquisto della prima casa, ove è sufficiente stabilire la residenza nel Comune in cui è ubicato il bene.

Il requisito della destinazione del nuovo immobile ad abitazione principale deve intendersi riferito al dato anagrafico e non meramente fattuale, per cui non può desumersi dalla produzione di documenti di spesa di vario genere, ma unicamente da una certificazione anagrafica.

Per evitare la decadenza, il contribuente deve altresì dichiarare, nell’atto di compravendita, l’intenzione di adibire l’immobile oggetto del riacquisto ad abitazione principale.

Conserva altresì l’agevolazione il contribuente che, venduto l’immobile nei cinque anni dall’acquisto, abbia acquistato, entro un anno da tale alienazione, un altro immobile, procedendo poi alla sua vendita ed all’acquisto infrannuale di un ulteriore immobile, purchè fornisca, anche in tal caso, la prova che l’acquisto sia seguito dalla effettiva realizzazione della destinazione ad abitazione propria degli immobili acquisiti coi singoli atti, in forza del concreto trasferimento della residenza anagrafica nell’unità abitativa correlata al singolo acquisto.

Se il contribuente, entro un anno dal trasferimento del bene prima del decorso del termine di cinque anni dalla data dell’acquisto con i benefici, provveda all’acquisto non dell’intero ma di una sola quota di altro immobile da adibire a propria abitazione principale, la decadenza può essere evitata purché la quota sia significativa della concreta possibilità di disporre del bene per adibirlo a propria abitazione; pertanto, l’acquisto di una quota particolarmente esigua di un immobile, non comportando il potere di disporne come abitazione propria, rende legittima la revoca dei benefici.

A differenza della fattispecie relativa all’accesso al beneficio fiscale, la norma sul riacquisto non estende espressamente il suo ambito di applicazione anche agli acquisti di diritti reali di godimento sul bene, limitandosi a richiedere l’acquisto di un immobile da destinarsi ad abitazione principale. Pertanto, la decadenza non pare evitata ove, entro un anno dall’alienazione del bene “agevolato”, il contribuente proceda all’acquisto della nuda proprietà di un altro immobile.

Viceversa, mantiene i benefici fiscali per l’acquisto della “prima casa” il contribuente che acquisti un altro immobile, non a titolo oneroso, bensì anche a titolo gratuito, dal momento che l’agevolazione ed il credito d’imposta ex art. 7 della legge n. 448 del 1998 sono riconosciuti relativamente a tutti i trasferimenti, sia a titolo oneroso che a titolo gratuito.

Evita altresì la decadenza il contribuente che, anziché acquistare entro l’anno successivo un nuovo immobile da adibire ad abitazione principale, realizzi, eseguendo almeno il rustico, comprensivo delle mura perimetrali e della copertura completa, la propria abitazione principale su un terreno di sua proprietà, acquistato prima o dopo l’alienazione infraquinquennale, divenendo pertanto proprietario di detta abitazione in virtù del principio dell’accessione: anche qui, infatti, l’art. 1, nota II bis della parte prima della tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 non distingue tra acquisti a titolo originario e derivativo.

Al contrario, per evitare la decadenza, il contribuente è tenuto a comprare, entro un anno dall’alienazione, altro immobile da adibire a propria abitazione principale, non potendosi considerare sufficiente la stipula di un contratto preliminare, come tale avente effetti solo obbligatori, dato che per “acquisto”, ai sensi della richiamata norma, si deve intendere l’acquisizione del diritto di proprietà e non la mera insorgenza del diritto di concludere un contratto di compravendita.

Da ultimo, si segnala che il mantenimento dell’agevolazione pare subordinato, in base alla lettera e alla ratio della disposizione, alla presenza dei requisiti per la sua fruizione al momento del primo acquisto, e che pertanto essa agevolazione vada esclusa ove non spettasse originariamente a causa di dichiarazione mendace o di fatti sopravvenuti, quale ad esempio il mancato trasferimento della propria residenza nel comune di ubicazione dell’immobile.

Elena Peperoni, Notaio in Palazzolo sull’Oglio (BS)